di Gianluca Fedele
Coloro che dal 30 aprile al 3 maggio 2015 hanno visitato la sesta edizione di “Externa – Salone nazionale dell’arredo degli spazi esterni” presso il polo fieristico di Piazza Palio, si saranno certamente imbattuti in “Exter Arte”, rassegna curata dall’artista Stefano Garrisi e dedicata alla scultura. Qui ho apprezzato per la prima volta, tra le altre, le opere di Enzo De Giorgi.
Con quest’ultimo il 24 luglio ci siamo incontrati de visu a Tuglie (LE) dove alcune sue opere erano esposte insieme a quelle di altri artisti all’interno del Museo della Civiltà Contadina del Salento, in occasione di “CARPìE – Miscellanea Visiva”, mostra collettiva di arti figurative realizzata in concomitanza con la decima edizione del “Premio Teatrale Nazionale Calandra”.
Enzo apprezza sin da subito la mia attenzione nei riguardi dei suoi disegni e senza indugio si rende disponibile per un incontro. Lo raggiungo dopo qualche giorno nella sua abitazione a Trepuzzi (LE) alle 10:30 di una torrida mattina di agosto.
Ci accomodiamo all’interno di un ampio salone passando attraverso una casa dove è difficile scorgere angoli di parete sgombri da tele, sculture, piastrelle decorate e altri oggetti d’arte.
Il mio sguardo si posa su alcuni violini e il padrone di casa mi spiega che fanno parte di una passione del padre di costruire strumenti musicali e affini.
Poi è lui a prorompere con una domanda, chiedendomi quali particolari mi abbiano attratto nei suoi quadri. Io gli rispondo che ho trovato curiosi gli elementi tipici del paesaggio salentino all’interno di rappresentazioni contemporanee come i “fumetti” che realizza.
D.:
So che attualmente insegni Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Lecce. Insegnante e artista prolifico. Quale delle due passioni è nata per prima?
R.:
“Necessitate virtute”, sarei tentato di dire.
Bisogna premettere che ci sono artisti che nascono da famiglie agiate e che hanno per questo la comodità economica che consente loro di frequentare l’Accademia di Belle Arti e gli artisti, di dipingere ed esporre tranquillamente. Per me è stato diverso perché, viceversa, vengo da una famiglia normale: mio padre operaio, mia madre casalinga. Io il maggiore di cinque figli. Aggiungici che in casa non c’era una tradizione scolastica, ciò significa che dopo la terza media si andava direttamente a lavorare presso il primo cantiere edile che fosse in cerca di manovalanza. Ma amavo disegnare, così a quattordici anni convinsi mio padre a iscrivermi all’Istituto d’Arte. Andò lui stesso in segreteria e dato che di professione faceva il fabbro/serramentista, quando gli dissero che tra i vari corsi c’era la sezione “arte dei metalli” lui non ebbe dubbi su quale fosse l’indirizzo degno di suo figlio. È superfluo aggiungere che avrei voluto fare pittura.
Chi ha frequentato questo genere di istituti sa che le classi, pur appartenendo a percorsi differenti – arredamento, ceramica, tessuto, ecc. –, si mescolano durante le lezioni delle materie comuni; trascorsi così cinque anni sbirciando nelle cartellette dei compagni, tra i loro appunti, nell’intento di carpire e apprendere informazioni su quella che già allora era la mia grande passione: disegnare.
In quegli anni, tra l’altro, presso l’Istituto d’Arte di Lecce insegnavano grandi maestri del colore come Oronzo Castelluccio e Alberto Moscara.
Il riscatto avvenne con l’Accademia perché mi iscrissi nel corso di decorazione. E qui mi riallaccio alla tua domanda perché la necessità di dipingere è sempre andata di pari passo con la possibilità di poterlo fare.
Iniziai a frequentare l’accademia delle Belle Arti di Lecce subito dopo il militare e nel frattempo, per mantenermi negli studi, lavoravo in un albergo come portiere di notte. Ora puoi immaginare benissimo che la mattina avevo giusto il tempo di levarmi dal collo la cravatta e indossare i jeans prima di entrare in aula.
Non ho mai avuto la possibilità di fare “l’artista a tempo pieno” ma studiai per esserlo anche quando dovevo guadagnarmi da vivere. E fu così che in albergo arrotondavo vendendo i miei primi quadri.
D:.
Chi acquistava le tue opere?
R.:
Solitamente erano i clienti dell’albergo, persone che venivano soprattutto dal nord Italia ad alcune delle quali ho arredato interi appartamenti solo con i lavori che realizzavo in accademia. Difatti non mi è rimasto quasi nulla di quel periodo, solo qualche rullino pieno di foto da sviluppare.
D.:
Ho letto che le prime cattedre furono nel nord Italia; per scelta o anche lì si è trattato di necessità?
R.:
Già quando nel ’94 – sotto gli insistenti consigli di un amico – feci la domanda per l’insegnamento era molto difficile essere presi qui nel meridione, così scelsi un’altra destinazione. All’epoca la provincia di Cuneo era stata completamente allagata da una tremenda alluvione e quindi pensai che fosse poco ambita. La deduzione si rivelò esatta e iniziai con la trafila delle prime supplenze. Poi non ero proprio solo perché in provincia di Asti avevo dei parenti coi quali trascorrere qualche fine settimana.
D.:
In una descrizione che fai di quel periodo lo definisci “esilio”. Sono stati dodici anni difficili?
R.:
Ho diversi amici che hanno fatto il mio stesso percorso, ma la maggior parte di loro ha avuto la fortuna di installarsi in un unico paese per insegnare, magari anche nella stessa scuola. Per me è stato diverso perché la provincia di Cuneo è la più estesa del Piemonte e forse d’Italia – per questo viene anche detta “la Granda” – dove ci sono città che distano anche cento chilometri l’una dall’altra. Io, puntualmente, ogni anno venivo trasferito in posti diversi ed ero costretto a fare una vita da zingaro. Tieni conto che nel 2000 è nato mio figlio e quindi tutta la famiglia si spostava con grandi difficoltà tra paesi e regioni.
D.:
A Lecce dopo quanto sei tornato?
R.:
A Lecce sono rientrato nel 2008 in “assegnazione provvisoria” per diventare definitiva dopo un paio d’anni. Adesso sono già al quarto anno scolastico presso il Liceo Artistico e da quest’anno curo tre rami differenti essendo stato inserito nei corsi di Grafica e Multimedia oltre a quello di Pittura, naturalmente. Sono onorato e molto soddisfatto perché l’istituto vanta colleghi insegnanti molto preparati e, cosa più importante, coltivo con i miei ragazzi una buona intesa.
D.:
Hai delle figure di riferimento dei tuoi anni da allievo?
R.:
Come dicevo, avendo frequentato controvoglia la sezione dedicata ai metalli, lì non ho subìto l’influenza di importanti personalità. L’unico grande maestro al quale fui legato era lo scultore Nino Rollo. Ricordo che mi chiamava fuori dalle sue ore di lezione, durante educazione fisica o religione, per stare insieme a disegnare. Purtroppo è deceduto nel 1992, non aveva ancora compiuto cinquant’anni.
Qualche traccia del suo ascendente sulla mia produzione la si individua più in alcune sculture in effetti, poiché nella grafica io ero attratto più dai fumetti. Rollo invece era amante delle forme pure, sull’onda di Constantin Brâncuși e Henry Moore, promotori di quello stile pulito ed essenziale.
In ogni caso, benché con Rollo avessi un rapporto affettuoso e collaborativo, si tratta di influenze marginali perché io credo che ogni artista debba individuare un proprio stile espressivo che è univoco e inequivocabile, una sorta di tratto calligrafico e non uno “scimmiottamento” dell’estro altrui.
D.:
Lo studio del tuo segno caratteristico ora si è fermato oppure è in evoluzione?
R.:
Ciò che realizzo è frutto di un gesto naturale, spontaneo e per nulla forzato, perciò attualmente credo di aver raggiunto uno stile abbastanza autentico e riconoscibile. Certo è che, a confronto, i miei primi disegni erano caratterizzati da contorni molto più spigolosi rispetto agli attuali e questo è sintomo di una costante evoluzione. Anche la produzione pittorica ha subìto delle importanti metamorfosi dal punto di vista tecnico: agli esordi creavo opere polimateriche che contemplavano persino l’uso di parti meccaniche o elettriche come ingranaggi o transistor e quindi completamente differenti dalla produzione attuale.
Oggi, nella mia mente, continuo a concepire una infinità di progetti che spaziano dal fumetto alla digital art, passando per la scultura ma a causa di diverse ragioni non tutte le mie idee sono destinate a vedere la luce.
D:.
Infatti guardandomi intorno non posso non notare opere realizzate in maniera totalmente differente; vedo tufo, pietra leccese, schizzi con penna biro, terracotta e ovviamente tele. Quanto conta la ricerca sulla materia per te?
R.:
L’arte è ricerca! Non esiste l’una senza l’altra e se non crei nulla di nuovo stai solo rifacendo te stesso oquello che altri hanno realizzato prima di te, quindi sei a un punto morto.
D.:
Tra i nomi dei grandi maestri quali sono quelli che maggiormente hai amato?
R.:
Negli anni ’80 il fumetto, per noi ragazzi, rappresentava una forma di creatività assoluta e a me piaceva molto Andrea Pazienza, forse perché anche lui era di origini pugliesi. Da Pompeo a Zanardi ho amato tutti i suoi personaggi. Morì a 32 anni ma aveva già realizzato dei capolavori assoluti. Restando nella sfera fumettistica non posso non citare grandi maestri come Manara e Pratt. Tra gli illustratori contemporanei trovo notevole Gipi, col suo segno volutamente istintivo e una narrazione avvincente.
Per quanto riguarda la pittura invece i nomi sono diversi ma sempre appartenenti al ‘900: Picasso, Matisse, Paul Klee, Mirò, Chagall tracciano in modo certo quello che potrei definire il mio punto di partenza.
D.:
Quanto ti hanno influenzato i fumetti da ragazzo?
R.:
Non mi posso considerare un accanito lettore ma hanno fatto comunque sempre parte della mia vita. A sedici anni, per gioco, partecipai a un concorso organizzato dalla celebre rivista Topolino realizzando una locandina per un film d’animazione della Disney. Vinsi il primo premio che consisteva in un viaggio negli Stati Uniti a Disney World. Forse quel piccolo evento mi ha influenzato in diverse scelte successive.
D.:
Quando disegni cos’è che ti stimola nella realizzazione di un quadro, un fumetto o una scultura?
R.:
Noi viviamo nel secolo in cui imperano i mass-media, quelli che ci bombardano con immagini, film, pubblicità e tanto altro ma per quelli della mia generazione la musica rappresentava e rappresenta ancora un forte catalizzatore della fantasia. Le storie raccontate da De Andrè, Fossati, Guccini, Lolli e tutti gli altri grandi cantautori hanno contribuito alla nascita di molte mie opere. Difficilmente dipingo se sono slegato da una vicenda o da un racconto, che sia persino mitologico. E quando dipingo amo sempre avere la compagnia della musica.
D:.
C’è una corrente artistica che descrive le tue opere?
R.:
Sinceramente non saprei in quale filone stilistico collocare le mie opere. Forse a caratterizzarle è un certo surrealismo ma questo non implica assolutamente il fatto che io sia un pittore surrealista.
D.:
Una domanda che mi pongo spesso è se collaborazioni tra artisti nel meridione siano complicate. Lo chiedo a te che ai ragazzi, a scuola, insegni la cooperazione.
R.:
Le collaborazioni sono importanti ma non obbligatorie. È bello vedere insieme le individualità che si amalgamano ma è molto difficile che si realizzino lavori a più mani dove nessuno sia prevalso sulle scelte degli altri. Per quella che è la mia esperienza, la persona con la quale sono riuscito a individuare un’intesa artistica che si protrae e si rinnova da anni è Raffaele Vacca, eccezionale scultore col quale, tra l’altro, nella primavera del 2013 organizzai una mostra doppia personale presso la Fondazione Palmieri di Lecce, dal titolo “IronicOnirico”. Le due parole, l’una l’anagramma dell’altra, descrivono anche gli aspetti che sostanzialmente ci accomunano.
D.:
Le mostre sono l’unico mezzo di promozione per un artista?
R.:
Non solo. Prendo atto che i social network, per esempio, costituiscono il mezzo più efficace per farsi conoscere, più del sito internet personale e delle mostre, devo ammettere. Per essere pratici, la vendita qui nel Salento è disagevole perché i più ricorrono all’acquisto di un’opera d’arte quasi esclusivamente in occasione di un regalo, per un matrimonio o circostanze analoghe. Non è diffusa la cultura del collezionismo delle opere d’arte e men che meno dell’investimento. Il paradosso, infine, è che chi acquista il più delle volte non è spinto da un’intima attrazione verso la raffigurazione ma banalmente sceglie artisti già deceduti – o che comunque hanno raggiunto il culmine del loro valore economico – per mera convenienza, anziché puntare invece sui giovani emergenti che cercano di elevarsi tra mille difficoltà.
D.:
Le gallerie, in questo senso, possono offrire visibilità a un artista?
R.:
Probabilmente sì, ma per quanto mi riguarda, grazie soprattutto allo stipendio di insegnate (pur non essendo questo il massimo del guadagno..) che mi fa da paracadute, lascio che sia l’imprevedibile casualità a interessarsi di me. Come d’altronde casuale è stato il nostro incontro.
Ho avuto la possibilità di intraprendere la collaborazione con una pinacoteca ma i vincoli troppo restrittivi mi hanno indotto a desistere: se avessi accettato di sottoscrivere il contratto non avrei avuto neppure la libertà di regalare a un collega lo scarabocchio abbozzato durante un consiglio di classe. Per non parlare dei tempi e delle scadenze entro le quali avrei dovuto consegnare un determinato numero di opere. Mi è sembrato un ragionamento piuttosto meccanico, da catena di montaggio. L’arte ha i suoi tempi e le sue ovvie libertà. Lavorare nella scuola mi ha liberato dall’obbligo di dover “produrre arte” a tutti i costi per vivere.
D.:
Ho l’impressione che ci sia un proliferare di astrattisti. Un artista che elabora rappresentazioni figurative come percepisce l’arte informale?
R.:
È un dato soggettivo, ma personalmente, il più delle volte, nell’arte difficilmente riesco a percepire quello che vedo come una immagine fine a se stessa. Faccio un esempio. A me piace molto Alberto Burri. Quando osservo una sua opera, che si tratti di combustione della plastica o di lacerazione di un sacco di juta, non la vedo esclusivamente come nuda materia e neppure come fattore estetico, io ci vedo una città vista dall’alto, una foresta, oppure un corpo lacerato dalla guerra. Quindi mi viene naturale rapportare ogni immagine alla realtà oggettiva. Per semplificare ulteriormente dirò che un quadro informale può essere letto o come un dettaglio della realtà o la realtà vista da molto lontano. L’uomo, egocentricamente, tende a vedere e riconoscere se stesso e la realtà che lo circonda ovunque: nella forma delle nuvole, nella corteccia di un albero, nella macchia su un muro. Questo non significa negare o limitare l’importanza dell’astrazione, anzi, attribuisco all’arte informale un grande potere evocativo, lo stesso potere sensoriale che ha la musica di far immaginare, al suo ascolto, un prato verde, un mare in tempesta o dei cavalli bianchi…
D.:
Esiste una possibilità che l’arte diventi veicolo per il miglioramento della società?
R.:
Negli ultimi anni sto costatando l’incrementarsi di una genuina sensibilità da parte della società rispetto a determinati temi (ecologismo, contrasto all’abusivismo, lotta contro il maltrattamento degli animali, ecc.) che una volta erano a uso e consumo esclusivi dei pensatori, dei letterati, degli artisti in generale. Evidentemente, se in ognuno di noi si è sviluppata quella parte sensibile, lo dobbiamo anche a loro. Una società che scommette nell’arte non può che progredire in meglio.