di Armando Polito
Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/ne sciati ddoi e nne turnati quattru./Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/lu sule è forte e bbu lu sicca tuttu./Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu/la ditta nu bbu dae li talaretti./Fimmine fimmine ca sciati a vindimmiare/e sutta allu cippune bu la faciti fare./Fimmine fimmine ca sciati alle vulie/ccugghitinde le fitte e le scigghiate. (Donne, donne che andate al tabacco, ne andate in due e ne tornate in quattro. Donne, donne che andate al tabacco il sole è forte e ve lo secca tutto. Donna, donne che andate al tabacco, la ditta non vi dà i telaietti. Donne, donne che andate a vendemmiare e sotto al ceppo della vite ve la fate fare. Donne che andate alle olive, raccoglietene le fitte e le rade!).
Questo canto popolare salentino è paradigmatico per ricordare alcune attività del tempo che fu, quale la raccolta del tabacco, dell’uva e delle olive, appannaggio quasi esclusivo un tempo delle donne, oggi per lo più di un oggetto rumoroso (altro che canto!) ma inanimato, sempre di genere femminile: la macchina, anche se pure essa rischia di diventare inutile per la raccolta delle olive a causa, dicono …, della xylella. Fortunatamente l’emancipazione femminile, che ha ridimensionato pesantemente gli effetti (e forse anche la produzione …) del testosterone nel maschio, ha reso pari a zero il rischio delle gravidanze più o meno indesiderate (ne sciati ddoi e nne turnati quattru) e oggi, forse, sarebbe il maschio a sottrarsi all’incontro sutta allu cippune …
Ciò che è obsoleto in sé, però, come tutte le testimonianze del passato, il più delle volte è illuminante per la corretta interpretazione del presente. È il caso di schigghiàte, participio passato femminile plurale di scigghiàre che semanticamente corrisponde all’italiano disordinare, togliere dal posto consueto. Tutte le forme di participio passato di scigghiare (scigghiàtu/scigghiàta/scigghiàti/scigghiàte), poi, possono essere usate anche con connotazione morale peggiorativa rispetto alla sfera semantica di partenza: così scigghiàtu può indicare la persona che non tiene in ordine le sue cose materiali (dai libri ai vestiti, dal cacciavite allo spazzolino da denti, e così via) ma anche i suoi pensieri e, quindi, può essere sinonimo di confusionario, se non sconclusionato.
Nella canzone popolare è evidente che scigghiate assume il significato di rade, sparpagliate, insomma l’esatto opposto di fitte. Dopo aver fatto notare come nell’epoca del consumismo, de il meglio del meglio e del tutto e in fretta è diventata obsoleta la filosofia del no ssi mena nienti (non si butta niente) e di ogni ppetra azza parete (ogni pietra rende più alto il muro), passo a a spendere qualche parola sull’etimo di schigghiàre, sperando di non rimediare alla fine la figura dello sciggiàtu.
Parto dal maestro indiscusso, il cui nome ormai sarà diventato familiare anche a quelli dei lettori assidui di queste mie scorribande etimologiche che lo ignoravano. Dal vocabolario di Gerard Rohlfs riporto i lemmi che ci interessano:
Come si vede, per scijare (di cui i successivi scijatu e sciju, nonostante nessun rinvio, sono, rispettivamente, participio passato e sostantivo deverbale) viene solo proposto un confronto con il napoletano scigliato=scompigliato. Per scije e sciji l’etimo proposto è dal latino auxilia, con, aggiungo io, la successiva evidente aferesi di au– e la regolarizzazione della desinenza, a partire da un neutro collettivo *scija inteso come singolare, analogamente a quanto è successo ad àcura=aguglia, che è da *àcora).
Nel suo Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990 (consultabile integralmente al link http://www.antoniogarrisiopere.it/31_000_DizioLecceItali_FrameSet.html) Antonio Garrisi:
scìgghie sf. pl. Oggetti vari tenuti in disordine; cianfrusaglie sparse; oggettini di poco valore * fig. Arnesi vari, attrezzi minuti, che durante l’uso vengono posati qua e là sul luogo di lavoro: ccuegghi le scìgghie e sçiàmuninde raccogli gli attrezzi e andiàmocene. [dal lat. (au)xilia, strumenti].
scìgghiu sm. Disordine; trambusto. [lat. exilium, liu>gghiu].
Con la sua distinzione tra scìgghie e scìgghiu ricalca il Rohlfs, da cui è tratto l’etimo del primo, ma, a differenza dello studioso tedesco, di scìgghiu propone come etimo il latino exìlium=esilio. Il Garrisi sarebbe arrivato (il condizionale si capirà dopo) alla parola latina facendo il percorso a ritroso, cioè tenendo presente che nel salentino per lo più sc– è ciò che rimane della preposizione ex e –gghiu di –liu [per esempio: fìliu(m)>fìgghiu]. L’etimo, dunque, appare ineccepibile sul piano fonetico; merita, però, un approfondimento su quello semantico, perché il rapporto tra scìgghiu ed esilio non è di immediata percezione. Prima di farlo esaminerò un’altra proposta.
Giuseppe Presicce in http://comunicazione3.wix.com/dialetto-salentino-1:
scijare:dal sostantivo “šciju” = oggetto lasciato fuori posto, disordine.
sciju: dal sostantivo greco “σκεΰος” = strumento, utensile, oggetto inanimato, cosa.
Non si comprende sul piano fonetico come dal dittongo greco ευ [l’esatta grafia della voce è σκεῦος e non σκεΰος, in cui pare di vedere un accento acuto tra due puntini (dieresi?)] si sia passati a ij, che, invece, al pari di gghi, come già ricordato dal Garrisi, deriva da un latino li. Sul piano semantico, poi, non si comprende come dall’idea di strumento si sia passati a quella del disordine.
Torno a scìgghiu per dimostrare, definitivamente o quasi …, che esso è figlio di exilium. Questa voce latina è connessa con exsul (da cui l’italiano esule).
Isidoro di Siviglia (V-VI secolo), Origines, I, 26, 5: Exul addita s debet scribi, exsul dicitur, qui extra solum est (Exul dev’essere scritto con l’aggiunta di s, si dice exsul, poiché è fuori del suolo); V, 27, 28: Exilium dictum quasi extra solum. Nam exsul dicitur, qui extra solum est (Si dice esilio come fuori del suolo. Infatti si dice esule colui che è al di fuori del suolo); X, 84: Exsul, quia extra solum suum est, quasi extra solum missus, aut extra solum vagus. Nam exsulare dicuntur, qui extra solum eunt (Esule, poiché si trova fuori del suo suolo, quasi mandato fuori del suolo o errante fuori del luogo. Infatti si dice che esulano1 quelli che vanno fuori del luogo).
Per Isidoro, dunque, exsul deriva da extra solum ed egli raccomanda di non scrivere exul (che, evidentemente, era in uso accanto o, forse, con prevalenza rispetto alla forma corretta) proprio per non perdere di vista l’etimo a causa della caduta di s– di solum. Non tutti gli etimi di Isidoro sono da accettare ad occhi chiusi e, oltretutto, alcuni possono essere considerati solo parzialmente suoi. Emblematico è proprio il caso di exsul fatto derivare da extra solum, in cui non è chiaro perché -tra sarebbe caduto.
Viene il sospetto che l’extra solum serve solo a non far apparire troppo evidente il suo plagio da Quintiliano (I secolo d. C.) che di exsul aveva dato la definizione e l’etimo in Declamationes, 366: : … et inde exul quoque dictus est, quasi ex solo patrio expulsus (… e perciò è anche detto esule, quasi espulso dal suolo patrio).
Credo che, nonostante tutti i dizionari considerino esule derivante da èxsule(m) ma quest’ultimo di etimo incerto, l’autorità e la collocazione cronologica di Quitiliano (quanto più ci si allontana dal momento della formazione di una parola tanto più sarà difficoltoso, almeno in teoria, individuarne l’etimo) autorizzino a rendere molto probabilmente aderente alla realtà dei fatti quanto affermato.
Ciò che appare evidente, però, tanto in Quintiliano quanto in Isidoro è l’idea della separazione, dell’allontanamento dal luogo di abituale dimora. Scigghiàre, perciò, avrebbe il suo esatto corrispondente nell’italiano esiliare (e scìgghiu in esilio), perché disordinare, fare confusione vuol dire allontanare qualcosa dal suo solito posto, così come esiliare vuol dire mandare lontano qualcuno dal luogo di vita che gli è abituale, qual è quello patrio.
Tutto chiaro e deciso, allora? Ma quando mai!, specialmente in etimologia, tanto più che i maestri spesso esprimono i loro dubbi in modo criptico, forse con l’intenzione di lasciare ad altri una traccia da approfondire. Come ho detto, il Rohlfs non dà l’etimo di scijare ma propone un confronto con il napoletano scigliato=scompigliato.
Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si discostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 17892 al lemma sciglio3si legge:
Il greco σκύλλω(leggi schiullo) messo in campo rivendicherebbe, dunque, anche per il nostro scìgghiu un’origine greca e non latina4. Ci sarebbe da aggiungere che da un punto di vista fonetico (quello semantico è inattaccabile) σκύλλω sarebbe più proponibile dello σκεΰος del Presicce. Tuttavia, se pure il nostro scìgghiu derivasse dal greco, sarebbe strano che esso non abbia dato sciddhu, dal momento che il greco –λλ– e il latino -ll- danno nel leccese come esito -ddh-: ἄλλος>addhu=altro; callum>caddhu=callo. Dovremmo a questo punto pensare che scìgghiu sia adattamento fonetico di scìglio, così come, ma apparentemente, fìgghiu rispetto all’italiano figlio? E se pure la voce napoletana fosse figlia di una italiana, per quanto antica?
Jacopone da Todi (XIII-XIV secolo), Laude, 16, 82-83: ch’e ne la croce è tratto,/stace su desciliato!; 52, 36-38: La morte dura me va consumanno;/né vivo e né mogo cusì tormentanno;/vo [e]sciliata del me’ Salvatore.
Laudario di S. Croce di Urbino (XIV secolo); cito dall’edizione a cura di Rosanna Bettarini, Sansoni, Firenze, 1969, p. 137: Rendete laude a lo mio fillo/ke ‘n vostre fraude mess’a consillo!/Lo cor ve gaude del So discillo,/èv’allegreça lo So tristore.
Zefirino Re Cesenate, La vita di Cola di Rienzo tribuno del popolo romano scritta da incerto autore del secolo XIV, Bordandini, Forlì, 18285, pp. 49 e 165: Messere Stefano la cedola pigliò e la sciliò e fecene mille pezzi …; … ora vedonsi per Roma sciliar le gote, ogni persona lagnata strilla, rancore e paura nascono …
Se desciliato e [e]scigliata di Jacopone hanno il significato di abbandonato, desolato il primo e separata, privata il secondo, se discillo del laudario ha il significato di desolazione, lo sciliò e lo sciliar dell’ultimo brano credo possano essere interpretati come sinonimi di separò dal sigillo o lacerò la busta, aprì il primo e graffiare il secondo e, quindi, collegarsi entrambi agli esempi precedenti con i quali costituirebbero un ulteriore esempio degli slittamenti metaforici di esilio e di esiliare.
In conclusione: l’ipotesi di Antonio Garrisi che scìgghiu derivi da exilium (o meglio, per quanto si è detto per exul/exsul, da exsilium) appare confermata, ma va detto, per dare a Cesare quel che è di Cesare e ad Antonio quel che è di Antonio che ciò era stato prospettato qualche decennio prima da Rosanna Bettarini nell’edizione del Laudario urbinate prima citato, ove (p. 265) si fa derivare sciliare da exiliare (meglio, per quanto già detto, exsiliare), senza darne il dovuto, secondo i miei gusti, conto.
Perciò aggiungo che già nel latino medioevale exilium ed exiliare (per exsilium ed exsiliare) hanno inglobato in sé l’azione della desolazione e della distruzione, presente anche nella voci francesi antiche essiler/eisillier/eissiller, come dimostra il lemma così come compare trattato nel glossario del Du Cange, che in basso riproduco con la mia traduzione a fronte e con il commento (più corposo del solito perché, oltre a cimentarmi col francese antico, ho voluto controllare le citazioni e non sono mancate , come vedremo, le sorprese …), dove le voci sottolineate corrispondono all’exilium, e suoi derivati, dell’originale.
Ricapitolando: molto probabilmente figli del francese essiler/eisilliereissiller sono i volgari desciliato/esciliato e sciliare, da cui il napoletano sciglio (perciò da considerare di origine deverbale) e i salentini scìgghiare e scìgghiu.
Voglio chiudere con una nota di malinconica allegria questo post che Crozza-Mentana avrebbe definito una maratona etimologica. E lo faccio cioè con Scìgghiu d’amore, una canzone dei Ritmo binario, che potete ascoltare al link https://www.facebook.com/241641255990921/videos/417646455057066/, anche se mi auguro che gli stessi musicisti immettano in rete una registrazione di qualità migliore.
_____________
1 Oggi esulare in italiano significa essere estraneo, non avere a che fare ma in passato aveva il significato di andare volontariamente in esilio, cioè lo stesso indicato da Isidoro.
2 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=NxcJAAAAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false.
3 L’attestazione più antica che conosco è in Giovanbattista Basile (XV secolo), Lo cunto de li cunti, passim: … vedenno lo sciglio e lo sbattere de lo povero ‘nnammorato …; … pe sciorte è toccato sta beneficiata a Menechella, figlia de lo re pe la quale cosa ‘nc’è lo sciglio e lo sbattetorio a la casa reale …; … né ‘nc’è chi m’aiuta, no ‘nc’è chi me conziglia, né ‘nc’è chi me conzola!” Ora, mentre faceva lo sciglio , eccote comparere …
4 Con suggestivi agganci mitologici, tanto per non farci mancare nulla …, con Σκύλλα (leggi Schiùlla)=Scilla, il mostro marino descritto da Omero (Odissea, XII, 112), le cui sei teste di cani con il loro abbaiare evocano il frastuono e con il triplice giro di denti la lacerazione, la divisione, lo smembramento e il dolore connesso. Non a caso Scilla (in provincia di Reggio Calabria; la foto che segue è tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Scilla_(Italia)#/media/File:Scilla_Castello.jpg) nel dialetto locale è ‘U scìgghiu.
Qnannu Intra lu paise te Noule se sintia l’ardore te lu tabaccu sembra ca se sente ncora moi . Termini usati per la lavorazione del tabacco:
Si inzia con le foglie che dopo raccolte venivano trasportate in teli chiusi, mante anche ceste, i cicli di raccolta venivano denominati: primo il franzone la pianta più bassa sempre curvi con la schiena, la terza , la seconda, la “Prima ” la pianta arrivava fino 2 mt. di altezza, per la lavorazione seguiva un filo di spago il tabacco si infilava intra lu filu cu la saccurafia formando la nzerta le collane della lunghezza di 1 mt. venivano fissate 20 per volta sul taraletto non dovevano toccare terra,
se ncignava a chiore si urlava fuci fuci iutame cu trasimu intra li taraletti .
10 nzerte formavano un pupolo che veniva movimentato nelle ore umide perchè le nzerte possano essere toccate senza sbriciolarsi e consegnate alle Fabbriche te lu tabaccu per la selezione, questo lavoro era svolto principalmente da donne nella cittadina di Novoli fu anche teatro di scontri per i diritti.
Cordiali saluti
Ersilio Teifreto http://www.torinovoli.it