di Armando Polito
Succede, prima o poi, di accingersi a gustare quel bel formaggio acquistato, siccome il biologico è di moda, presso una fattoria locale, insomma un prodotto artigianale confezionato con gli stessi ingredienti e procedimenti dell’antica arte casearia. Pregustiamo sapori paradisiaci a noi già noti ma di cui vogliamo rendere orgogliosamente partecipe, magari proprio quel giorno, l’ospite forestiero che qualche ora prima in quella stessa fattoria ha potuto finalmente mostrare ai propri figli persino le mucche che pascolano allo stato brado …
Noi salentini, poi, siamo piuttosto concreti e, quindi, ad assaggio avvenuto, non sottoporremo i nostri commensali alla tortura di una sfilza di vocaboli che evocano altri mondi, un po’ come succede, insomma, col sommelier che, se potesse, metterebbe in campo non il profumo di tabacco o di cannella ma quello di stella. A cose fatte ci limiteremo a cogliere nelle contrazioni residue dei muscoli facciali dei commensali il livello del loro apprezzamento.
All’improvviso il padrone di casa si ricorda che è primavera inoltrata. Mi pare di vedere il lettore chiedersi a questo punto se è più pazzo il padrone di casa o chi crede con quattro righe sconclusionate di immortalarne le gesta. Il fatto è che in questo periodo fiorisce, con tante altre, l’erba protagonista di questo post.
Preso da un dubbio atroce e incurante che qualcuno possa pensare che sia a digiuno da una settimana, con mossa fulminea ha già portato alla bocca una fetta adeguata di quel formaggio. Passano appena tre secondi e con un gesto certamente non raffinato quanto le sue papille gustative sputa nel piatto una massa ormai informe esclamando: Cce schifu! Sape ti furficicchia. E quel giorno il commensale dovrà accontentarsi di una fetta tagliata da una forma già collaudata, non senza aver prima chiesto al padrone di casa il motivo dell’uscita di scena di quel formaggio che già a guardarlo sembrava la fine del mondo.
Il motivo si chiama furficìcchia, nome dialettale salentino di un tipo di trifoglio molto appetito dalle mucche, ma che ha il difetto di rilasciare nel latte e successivamente nel formaggio che da quel latte viene ricavato un odore poco gradevole.
Furficicchia ha avuto l’onore di essere registrato (nella variante forficicchia) da Enrico Groves nel suo Flora della costa meridionale della Terra d’Otranto, estratto dal Nuovo Giornale Botanico Italiano, v. XIX, n. 2, aprile 18871, da cui è tratta l’immagine che segue.
Il Groves, dunque, identifica la nostra furficicchia nella Trigonella Corniculata L. (nella foto che segue tratta, come le altre relative alla nostra essenza, da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?&t=13577.
Del nome dialettale viene fornito un etimo secondo me non sufficientemente preciso, tanto da apparire poco convincente. Me ne occuperò fra poco, dopo aver rapidamente trattato l’etimo dei componenti del nome scientifico.
Trigonella è latinizzazione del greco τρίγωνος (leggi trìgonos)=triangolare [da τρι- (leggi tri-)= a tre+γωνία (leggi gonìa)=angolo], con aggiunta di un suffisso diminutivo. Il riferimento è al triangolo equilatero perfetto formato dalle foglie.
Corniculata è forma aggettivale moderna del classico cornìculum=cornetto, diminutivo di cornus. Il riferimento è alla forma del frutto.
È giunto il momento di occuparci dell’etimo di furficicchia. La voce, per la quale il Rholfs non propone alcun etimo, suppone un latino *forficìcula diminutivo del classico forfex/fòrficis il cui accusativo (fòrficem) ha dato l’italiano forbice e il corrispondente, più diretto, salentino fòrfice. Il Groves, come abbiamo visto, mette in campo la forbice a causa della forma del frutto. Dando per scontato che alla base ci sia, comunque, un rapporto di somiglianza (e che altro si può fare, anche se potrebbe essere fuorviante?), io direi che a prima vista ricorda la forbice più il gruppo di foglie che il frutto.
Tuttavia, il frutto cacciato, forse per mio eccesso di fantasia, dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra, grazie alla forfecchia (o forbicina), l’insetto, le cui pinze addominali servono per l’accoppiamento; e noi umani, che spesso scegliamo avventatamente il partner, ci consideriamo intelligenti, pure di fronte a questo animaletto che il partner se lo sceglie … con le pinze.
Forfecchia è dal latino forfìcula(m)=forbicetta, diminutivo del citato forfex. Appare chiaramente come parente di *forficìcula che sembra aver seguito la strada di lenticchia che è dal latino lentìcula(m), diminutivo di lens/lentis=lenticchia. Tuttavia, la somiglianza tra l’insetto e il frutto a parer mio rimane piuttosto vaga.
E l’Europa, cosa ci chiede questa volta?
Credo che non preveda la possibilità di commercializzare derivati da latte “contaminato” da furficicchia (“contaminazione” che, è bene dirlo, è assolutamente non dannosa), semplicemente perché, probabilmente, ne ignora pure l’esistenza. Ma, se dovessero venirne a conoscenza, i sublimi burocrati non perderebbero tempo a scrivere un altro capitolo della loro ridicola saga che già prevede regole precise sulla pezzatura degli ortaggi (come se essa fosse parametro di qualità e non il trasferimento alle specie vegetali della nostra idiota smania di apparire piuttosto che essere), e, in riferimento al settore lattiero-caseario, ha imposto per motivi igienico-sanitari, la sostituzione, per fare un solo esempio, delle tradizionali fiscelle di giunco, che nei secoli non hanno fatto mai male a nessuno, con quelle di plastica, soprassedendo criminalmente sul fatto che la plastica, sia o non sia per alimenti, rilascia sempre, a causa del calore che si sprigiona dalla pasta che vi si pone, qualche particella che a distanza di anni manifesterà il suo potere irreversibilmente malefico2. La cosa paradossale è che autorizzazioni in deroga sono concesse solo per alcuni prodotti di nicchia, il cui costo è notoriamente, e giustamente, più alto. Anche la salute, purtroppo, a questo mondo è una cosa da ricchi …
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1 Integralmente leggibile e scaricabile in https://archive.org/details/floradellacostam00grov.
2 In passato gli strumenti per la lavorazione del formaggio erano: un pezzo di tessuto per colare il latte detto stamegna (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/02/dalla-maglietta-di-lana-grezza-al-formaggio-dalle-batterie-alle-cellule-staminali-da/) una caldaia di rame detta càccamu [dal greco κάκκαβος (leggi càccabos)] per cagliare e riscaldare il latte, un bastone di legno per rompere la cagliata detto ruèzzulu, da ruzzulare (usato a Nardò esclusivamente nel significato di rimuginare borbottando), a sua volta (come l’italiano ruzzolare) da un latino *roteolare, da un *rotea, dal classico rota=ruota, un ripiano in legno poi sostituito dal marmo) detta mattra [dal greco μἁκτρα (leggi mactra=madia)], dei contenitori in giunco di varie dimensioni: la fesca (dal latino medioevale fisca e questo dal classico fiscus=paniere, sporta) e fiscareddha, diminutivo del precedente attraverso un derivato aggettivale fiscale(m).
Poi vennero l’acciaio inossidabile (per càccamu, ruèzzulu e mattra) e, quel che è peggio, la plastica per la fesca, e per la fiscareddha …
Per non tacere dell’ultima trovata. I burocrati europei minacciano l’Italia di sanzioni se non consente l’utilizzo di latte in polvere per “fabbricare” i latticini. Noi trogloditi italioti, pensate lo scempio, utilizzavamo esclusivamente latte. Quello liquido, biancastro, possibilmente fresco. Ora siamo più europei, dicono (i burocrari) che la nostra legislazione che pretende l’utilizzo di latte vero è contro la libera concorrenza (sic). Ah, siamo obbligati anche a commercializzare i “formaggi senza latte” che provengono dall’estero. Aspettiamo il pane senza farina e la pizza con pomodori di plastica? Leggo su La Gazzetta del Mezzogiorno:
In Puglia c’è malumore. «Un attacco alla qualità italiana e a tutta la filiera produttiva», afferma Umberto Bucci, presidente della Confagricoltura regionale. «È un attentato – prosegue – all’intero sistema lattiero-caseario pugliese che rischia il collasso. La vicenda mette a nudo la debolezza del ministro Martina, incapace di contrastare la follia comunitaria».