di Armando Polito
Anche il progresso tecnologico ha, come qualsiasi contingenza della vita, aspetti positivi e negativi. Così le macchine, da un lato, ci hanno liberato da sforzi non solo fisici ma anche mentali, dall’altro hanno favorito la sedentarietà fisica e cerebrale e, con l’automazione spinta, una riduzione impressionante dei posti di lavoro, da un lato hanno introdotto nella produzione dei beni uno standard qualitativo, dicono, altissimo, dall’altro hanno prostituito la creatività e l’originalità al mercato, tra l’altro spacciando e imponendo con forme pubblicitarie, dicono, sempre più sofisticate (ma se l’utente avesse conservato un minimo di capacità critica e un pizzico di libertà, per non dire di strafottenza, rispetto al comportamento dominante, si sarebbe accorto da tempo della loro rozzezza …) il superfluo come bisogno, in linea con la generale globalizzazione ed omologazione che, credo, qualche figlio di buona donna fra poco considererà sinonimi di fratellanza universale, nonostante il proliferare, già nei singoli paesi, di conflitti di ogni genere.
Se tornare indietro è difficile, anzi impossibile, a meno che non ci si riferisca alla scomparsa in tempi più o meno lunghi della nostra specie …, sarebbe però necessario, proprio in un’epoca in cui i cinque sensi contano più dei sentimenti (quelli nobili …), recuperarne almeno due, non facenti parte della fisiologia, in passato decisamente sviluppati: quello qualificato come buon e quello della misura.
Applicando l’uno e l’altro, infatti, si eviterebbe, per esempio, di sprecare litri e litri di acqua per lavarsi, magari, l’unico dente rimasto e, con l’acqua, anche l’energia elettrica e il detersivo (con tutte le conseguenze per l’ambiente che esso comporta) per mettere in lavatrice, in qualche famiglia succede, un paio di mutande e tre fazzoletti; eviteremmo di salire in macchina per andare a comprare le sigarette dalla rivendita che si trova a nemmeno trecento metri, di abbuffarci fino a scoppiare e poi di recarci ogni giorno in palestra …
A tal proposito trovo interessante che qualche competente studiasse il rapporto esistente in termini di gratificazione tra l’esercizio fisico connesso con il lavoro (cioè finalizzato alla realizzazione di un risultato produttivo, anche di natura economica) e quello “artificiale” che mi pare connesso solo con il benessere dell’organismo o asservito a criteri di natura estetica. Così, in rapporto all’argomento di oggi, la comparazione andrebbe fatta tra l’effetto degli odierni esercizi tesi a rafforzare la muscolatura delle braccia e quello esercitato in passato dallo stricaturu, cioè da quella tavoletta di legno con scanalature orizzontali utilizzata per trattare i panni prima della sciacquatura finale o come fase propedeutica al còfanu1. Per i più giovani: il trattamento dei panni consisteva non nell’assestare colpi su di loro con la tavoletta, ma tenendo immersa per metà l’una e gli altri nel limbu1 o nella pila, strofinarli dal basso in alto sulla tavoletta in modo che il contatto con le scanalature favorisse il rammollimento e l’espulsione dello sporco dalle fibre.
In attesa del buon fisiologo, oggi vi tocca sorbirvi, dopo il sociologo da strapazzo dell’inizio, il pessimo filologo di queste note di chiusura. Vanno di moda i tuttologi e volete che io, col cognome che mi ritrovo, possa restare a cuccia? Certo, siccome sono pure modesto, non pretendo di intendermi di tutto, ma di molto sì; polito, dopo la degradazione da Polito, per apocope diventa poli, che, come confisso (poli-), deriva dal greco πολύς (leggi poliùs)=molto; aggiungendo a poli- il confisso -logo, derivante pure lui dal greco λόγος (leggi logos)=parola, si ha polilogo che, se esistesse, significherebbe persona che sa parlare (intendersene è un’altra cosa …) di molti argomenti. Se, invece, al mio cognome degradato ma non mutilato aggiungo -logo, vien fuori politologo col significato di studioso, esperto di politica; questa volta la voce esiste, ma, ammesso pure che lo fossi, darei la più alta prova di intelligenza impiegando il mio tempo nello studio di altri temi …; tuttavia, come faccio a non riconoscere che i miei giochetti di parola sono una miseria di fronte a quelli del presidente del consiglio dei ministri (così evito di scrivere con l’iniziale maiuscola presidente e consiglio …), soprattutto dopo il recentissimo L’Italia non è finita, l’Italia è infinita?
Da dove deriva, allora, il nome di questo oggetto di archeologia domestica, cioè la voce stricaturu? Dal participio futuro (extricaturus/extricatura/extricaturum) del verbo latino extricare=liberare, cavar fuori con difficoltà, composto da ex=fuori+tricae=noie, fastidi. Alla lettera, dunque, stricaturu significa strumento per cavar fuori con difficoltà. Questa tecnica di formazione è consueta in nomi indicanti strumento: minaturu=matterello, da minàre=buttare; stindituru=stenditoio, da stindire=stendere, etc. etc. I fastidi che con lo stricaturu si cavano fuori con difficoltà, cioè a forza di braccia, sono costituiti dalla sporcizia. Voci correlate con tricae sono in italiano: stricare/strigare, intrigare, intricare, districare.
Il titolo contiene un’inesattezza. Quando ancora si usava lo stricaturu (fino agli anni 60 del secolo scorso) la lavatrice era già stata inventata da un pezzo, solo che quasi nessuno ne conosceva l’esistenza e l’economia di scala avrebbe fatto sentire i suoi effetti solo nei decenni successivi. Mi pare doveroso aggiungere che i primi esemplari di lavatrice (apparsi alla fine del XIX secolo), mossi prima a mano, poi con l’energia elettrica, basavano il loro funzionamento sullo stesso principio della nostra tavoletta: lo sfregamento; solo che la macchina, non sentendo la stanchezza (la sentiva però chi la manovrava a mano; il problema non si poneva per il modello elettrico) e non avendo neppure la sensibilità delle nostre mani, causava un rapido logorio dei tessuti. Poi sarebbero venuti i modelli ad agitazione con una caterva di detersivi (che hanno sostituito il vecchio sapone fatto in casa) per tutte le esigenze e gli ammorbidenti che sarebbero capaci (ma, insieme con i detersivi, a che costo per l’ambiente?) di rendere carezzevole e leggero come una piuma perfino il tocco della carta vetrata a grana grossa …
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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/12/a-proposito-di-cumitati-ecco-le-terracotte-salentine/
nei paesini nostri: di Monteroni -Magliano -Carmiano -Arnesano, si chiamava e si chiama ancora “llaturu”- il pezzo di legno, era ricavato generalmente dall’albero di olivo e lavorato dai bravi artigiani locali-in alcune famiglie lo si conserva come elemento decorativo -cordialità sempre- peppino