di Luciano Antonazzo
Il dipinto delle Anime Sante che nella chiesa matrice di Tricase adorna l’omonima cappella, di ex patronato della Confraternita dei morti, apparteneva alle monache Benedettine di Ugento. Fu da queste venduto nel 1796 a don Pasquale Piri (procuratore della stessa confraternita) in seguito alla ricostruzione della loro chiesa (ultimata nel 1793) intitolata, come il monastero, alla Visitazione della Vergine.
Dai documenti pervenutici risulta che nell’antica chiesa, tra gli altri, oltre l’altare intitolato alla Visitazione e quello dedicato al fondatore dell’Ordine, vi erano le cappelle della Madonna di Costantinopoli e quella di s. Anna, erette entrambe (coi relativi benefici) a cavallo dei secoli XVI e XVII, da Donna Anna Fernandez Pandone, nipote del conte di Ugento, Vincenzo[1], e quella della Madonna del Carmine, fondata nella prima metà del ‘600 da Donna Maria Vaaz de Andrada[2].
Nella rinnovata chiesa di fine ‘700 furono riedificati gli altari della Visitazione, di s. Benedetto e della Madonna del Carmine ed eretto quello della Madonna delle Vittorie. Per decorarli furono commissionate nuove tele, alcune delle quali furono realizzate dal pittore Onofrio Messina[3]. Quella del Carmine, firmata e datata 1793[4] andò a sostituire quella originaria che adornava l’antico altare eretto da Donna Maria Vaaz de Andrada.
Quest’ultimo dipinto si era portati a credere che fosse quello che le Benedettine vendettero alla Confraternita dei morti di Tricase, mentre, dato che non se ne trovava traccia, si riteneva fosse andato perso il dipinto dell’altare della Madonna di Costatinopoli dell’antica cappella eretta da Donna Anna Fernandez Pandone.
Sembre invece che il dipinto delle Anime Sante di Tricase fosse proprio quello della Madonna di Costantinopoli e che solo successivamente lo stesso fosse stato sottoposto a un rifacimento della parte inferiore, con l’aggiunta delle anime purganti, che lo ha commutato nella raffigurazione della Madonna del Carmine.
Nella tela, recentemente restaurata senza che venisse alla luce alcuna data o firma, è raffigurata la Vergine assisa su un trono di nubi che con la mano destra stringe la mammella corrispondente dalla quale sprizzano gocce di latte. Sul suo ginocchio sinistro è in piedi il Bambino nudo, con una folta chioma di capelli ricci e biondi, come quelle delle teste alate dei putti che contornano la Madre. La sua mano destra è in atto benedicente, mentre la sinistra regge il globo imperiale.
Nella parte superiore sono effigiati due angeli in atto di posare sul capo della Madonna una corona con incastonate delle pietre preziose, mentre in basso sono raffigurati altri due angeli che tendono la mano alle anime purganti sottostanti, rappresentate in primo piano da quattro figure femminili ed un ragazzino, nonché da un quinto volto, sempre femminile, in secondo piano. Al cantone inferiore sinistro del quadro (visto di fronte) si osserva la figura del presunto committente, che si accompagna ad una bastone, con lo sguardo rivolto verso la Madonna e l’indice destro proteso ad indicarla.
Manca nel quadro un elemento classico della rappresentazione della Madonna del Carmine, vale a dire lo scapolare (o abitino) che di norma la Vergine ed il Figlio porgono alle anime sottostanti; al suo posto il Bambino sorregge invece, come detto, il globo imperiale, di solito presente nell’iconografia della Madonna di Costantinopoli.
L’analisi della parte inferiore del dipinto denota una tecnica ed una cromia diverse rispetto a quelle della parte superiore, come ha evidenziato anche Giuseppe Maria Costantini che ha ne curato il recente restauro. Egli data la tela al XVII secolo, pur non escludendo la sua risalenza al XVI secolo, e nella relazione finale scrive che la parte superiore è di “buona fattura”, mentre “la fascia inferiore con anime purganti, appare meno accurata e felice rispetto al testo seicentesco, nonché di mano e tempi realizzativi eterogenei”[5].
La pulitura della tela ha evidenziato che il presunto committente indossa l’abito della Confraternita dei morti, come si evince dal simbolo sodale sulla manica destra raffigurante il teschio e le due tibie incrociate. Verosimilmente si tratta del priore, come si evince dal bastone[6], mentre le teste maschili che lo attorniano (nonchè quelle all’altezza della cornice inferiore) sproporzionate e sgraziate, probabilmente raffigurano dei suoi confratelli. Se così è ne deriva che tali figure non possono che essere state dipinte dopo l’acquisto della tela nel 1796.
Anteriore alla raffigurazione del priore e dei confratelli, ma posteriore alla rappresentazione della Vergine col Bambino e degli angeli, è invece la raffigurazione delle donne e del bambino che fungono da anime purganti. Lo si desume da quanto riportato nel fascicolo di un processetto del 1670 istruito per l’attribuzione dello ius patronatus del beneficio della Madonna di Costantinopoli, fondato da donna Anna Pandone in contemporanea con l’erezione dell’altare sotto lo stesso titolo[7].
Donna Anna, figlia di Carlo, rivestì ininterrottamente per un decennio la carica di badessa prima che mons. Guerrerio nel 1602 le facesse subentrare una consorella,[8] ed è documentato che assieme a lei, almeno dal 1598, dimoravano nel monastero le sorelle Massimilla, Geronima, Costanza e Beatrice[9]. Nel 1603 il fratello Pietro Antonio, UID in Napoli ed erede universale del padre Carlo, mediante procura a Ferdinando Pandone jr., figlio del conte di Ugento, assegnò loro il censo di dieci ducati annui dovuto al suo defunto padre da Marcello de Letteris e Francesco Antonio Rovito, di Ugento, per il capitale di 100 ducati. Stabilì in detta donazione anche che alla morte di una di loro dovessero subentrare le sorelle superstiti e che alla morte di tutte e cinque i dieci ducati dovessero andare a chi si fosse preso cura della cappella della Madonna di Costantinopoli ed impiegarli in “ annuo introito in favore di detta cappella construtta in detto monasterio”[10].
Nel 1608 troviamo ancora come badessa Donna Anna ma tra i nomi delle consorelle elencati nel documento non ritroviamo più quello di sua sorella Beatrice[11]. Questa era evidentemente deceduta, come ci conferma un altro documento del 1615 (contenuto in detto processetto) e dal quale risulta che Donna Anna, il 3 marzo del 1610, aveva chiesto ed ottenuto da mons. Guerrerio che alla propria morte il ius patronatus passasse alle sole sorelle Massimilla, Geronima e Costanza e che alla morte di costoro lo stesso ricadesse al monastero[12].
Donna Anna morì probabilmente nel 1629, anno in cui la troviamo menzionata nei documenti per l’ultima volta, ancora nella veste di badessa[13], mentre l’ultima delle sue sorelle rese l’anima a Dio poco prima del 1649, anno in cui furono la badessa, donna Petronilla D’Urso, e le consorelle a nominare, come cappellano del beneficio di S. Maria di Costantinopoli, l’arciprete di Salve don Tommaso Carluccio, vicario generale[14].
Da allora in poi, nella vacanza della cappellania, si ebbero diversi contenziosi circa la titolarità del ius patronatus del beneficio, tra cui quello che oppose le monache al marchese di Ugento Don Carlo Pandone e conclusosi nel 1653 in favore delle prime.
Ma fondamentale per il nostro assunto riguardo la ridipintura della tela con l’aggiunta delle figure muliebri è quanto riportato in una vertenza che si tenne nel 1711 e che vide contrapposte le monache al procuratore fiscale della Curia, che sosteneva non spettare al monastero alcun diritto in quanto da tempo, a suo dire, il beneficio e le rendite della sua dote erano state devolute alla Mensa vescovile. Il procuratore delle monache, don Mario Gigli, produsse documenti inoppugnabili e chiamò a testimoniare su diversi articoli, alcuni anziani, laici ed ecclesiastici.
Nel quarto articolo, oltre a dimostrare che la cappella ed il beneficio erano stati fondati da Donna Anna e che il diritto di patronato era successivamente passato alle sue sorelle e quindi al monastero, il procuratore chiedeva conferma di quanto correva per pubblica voce, cioè che “nel quadro dell’altare di S. Maria di Costantinopoli, vi sino pittate tutte dette Signore Pandone”[15].
La conferma la forniva il settantenne dottore fisico Michele Memmi il quale nella sua testimonianza dell’11 luglio affermava: “nel quadro di S. Maria di Costantinopoli, vi sono pittate alcune figure, che dicono essere le sorelle Bandone”.
Se dunque le sorelle Pandone furono immortalate nel dipinto della Madonna di Costantinopoli è impensabile che i loro volti potessero essere stati ritratti tra i fuggitivi della canonica casa (o città) in fiamme di norma dipinta ai piedi della Vergine. Da qui l’idea di ridipingere la parte inferiore della tela e raffigurare le sorelle tra lingue di fuoco richiamanti l’originale edificio in fiamme. Fu in seguito a questo intervento che venne snaturalizzata la rappresentazione originaria del dipinto e, data l’impressione che si trattasse di una raffigurazione delle anime purganti, ciò che indusse la Confraternita di Tricase ad acquistare la tela per la propria cappella.
E’ impossibile stabilire l’epoca del ritocco del dipinto, ma il fatto che una delle sorelle fosse stata raffigurata in posizione più defilata potrebbe stare a significare che la stessa fosse già defunta. Si tratterebbe allora della rappresentazione di Beatrice[16] deceduta tra il 1603 ed il 1608, mentre i volti in primo piano riprodurrebbero i lineamenti reali del viso delle sorelle sopravvissutele[17]. Se così effettivamente fosse il ritocco del dipinto non dovrebbe essere avvenuto dopo il 1629, stante la presunta morte di Donna Anna in tale anno.
Ancora più arduo risulta risalire all’autore del ritocco del dipinto; un indizio però potrebbe essere rappresentato dal fatto che tra il 1616 ed il 1618 è documentata la realizzazione di alcuni quadri per il monastero ad opera del pittore di Nardò Donato Antonio d’Orlando, tra cui quello raffigurante s. Maria Maddalena e s. Francesca Romana, commissionatogli nel 1618 da Donna Massimilla Fernandez Pandone, sorella di Donna Anna[18].
[1] I conti di Ugento non discendevano direttamente dai Pandone conti di Venafro ma da tale Diego Fernandez (giovane spagnolo venuto in Italia al seguito di un non meglio precisato capitano) che fu adottato dall’ultimo cavaliere della nobile famiglia Pandone. Questi alla sua morte (sul finire del XV secolo) lasciò come suo erede il giovane adottato, il quale prese per proprio nome quello della sua famiglia, Fernandez, e per cognome assunse quello dei Pandone. I suoi successori adottarono il doppio cognome Fernandez Pandone. (Cfr. B. ALDIMARI, Memorie historiche di diverse famiglie, così napoletane come forastiere , Napoli 1691, p. 114.
[2] Maria Vaaz de Andrada, verosimilmente primogenita di Michele, conte di Mola, barone di S. Donato e Signore di S. Michele Salentino, la troviamo ancora in vita nel 1657, nella veste di vicaria del monastero (v. ASLE, Sez, notai, 20/3, not. Marco Antonio Ferocino, protocollo del 17 marzo 1657, cc. 10r-12r).
Per quel che concerne l’erezione dell’altare della Madonna del Carmine in un atto di proprietà privata, del notaio Francesco Carida (di Morciano ma rogante in Ugento) del 16 agosto 1687, troviamo specificato che Donna Giovanna Bartirotti Piccolomini d’Aragona chiese ed ottenne di accrescere la dote della Cappella della Madonna del Carmine fondata nel monastero dalla defunta monaca Donna Maria Vaaz de Andrada “sua zia”.
[3] Pittore quasi del tutto sconosciuto la cui patria, Molfetta, risulta da un suo quadro autografo raffigurante il vescovo di Ugento mons. Giuseppe Corrado Pansini (1792 -1811). Nel dipinto il vescovo tiene fra le dita della mano sinistra un foglietto sul quale é scritto: Anno 1792 – Onofrio Messina da Molfetta». Il vescovo, anch’egli molfettese, ricorse verosimilmete al pittore per conoscenza diretta.Di questo pittore abbiamo rinvenuto una nota biografica in cui si dice: «Egregio pittore che da maestro aveva lo studio. Molti quadri dello stesso sono in Roma onorati di plauso. E’ egli tra viventi; ma da molti anni è cieco». (Cfr. M. ROMANO, Storia di Molfetta – dall’epoca dell’antica Respa sino al 1840, parte sedonda, Napoli 1842, p. 88). [ da Google libri].
[4] Alla base del quadro si legge: Onofrio Messina / Fece l’Anno 1793. Per lo stesso monastero il Messina realizzò anche il dipinto della presentazione di Gesù al tempio alla cui base si legge: Onofrio Messina / copiò l’anno 1793.
[5] G.M.COSTANTINI, Tricase, Chiesa Matrice Natività B.M.V., Restauro Madonna Del Latte (olio su tela – ca. cm 240 x 160 –sec. XVII-), Consuntivo Tecnico-Documentario con Piano Manutenzione, pag.37 – 25/10/2013 (Depositato presso: MiBAC-SBSAE PUGLIA, Bari; PARROCCHIA NATIVITÀ B. M. V., Tricase; DIOCESI UGENTO – S.M. di LEUCA, Ugento).
[6] Un segno distintivo del capo della confraternita era il cosidetto “bastone del priore”
[7] Cfr. ASDU, Benefici – Ugento/18 (ben. Madonna di Costantinopoli – 1670). Nel fascicolo, con carte non numerate, la documentazione ultima è della fine del 1700.
[8] Cfr. ASDU, Visite ad limina (mons. P. Guerrerio 1603).
[9] Le cinque sorelle le troviamo menzionate precedentemente in un atto del 1598 (cfr. ASLe, Sez. notai, 96/1, notaio P.Orlando, protocollo del 14 luglio 15987, cc. 38v- 41v.
[10] ASLe, Sezione Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 3 febbraio 1603, cc. 11r-13v.
[11] ASLe, Sezione. Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 2 novembre 1608, cc. 75r-76r.
[12] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit. In un atto del 1615 col quale le suore accettano la devoluzione del ius patronatus è detto che Donna Anna aveva eretto e dotate le due cappelle “di robbe proprie d’essa ab estra della monicatione e fatighe sue”. Questa espressione fa ipotizzare che la stessa Donna Anna fosse stata un tempo sposata dato che la sua disponibilità economica, indipendente dalla dote monacale, non poteva che derivarle dalla dote matrimoniale o dall’antefato.
[13] ASLe, Sez. Not., 20/1, not. L. De Magistris, protocollo del 9 febbraio 1629.
[14] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit.
[15] Ivi.
[16] La sua raffigurazione con i capelli cortissimi fa supporre che fosse deceduta poco dopo aver preso i voti, occasione in cui si procedeva al taglio della chioma dell’ex novizia.
[17] Per quel che riguarda poi la raffigurazione del bambino, inusuale nella rappresentazione delle anime purganti, verosimilmente si tratta, se non di un figlio di Donna Anna (v. sopra nota 10) di un nipote delle stesse sorelle Pandone.
[18]S. LANCILLOTTI, “Mercurio Olivetano – ovvero la Guida perle strade d’Italia per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani”, Perugia 1628. [Cfr. P. P. DE LEO (a cura), Viaggi di monaci e pellegrini, Ed. Rubettini, Soveria Mannelli 2001, p. 45, nota 4)].
Carissimo Luciano,
preciso come sempre e complimenti per l’indiscutibile ricostruzione storico-artistica di questa nuova chicca di storia locale.
Ciao Luciano, scritto molto interessante. Vorrei portarti all’attenzione un’altra tela nel Salento che raffigura la Madonna del latte insieme con le anime sante, ed avere un tuo parere. Dove posso contattarti? Grazie.