di Armando Polito
Se la traduzione in italiano riuscisse a conservare quello che nell’originale sembra, ed in fondo è, con la ricorrente allitterazione, un gioco di parole, il titolo potrebbe essere un valido slogan pubblicitario per uno dei prodotti alimentari tipici del Salento. Chi ha rovinato le sue papille gustative (e non solo quelle …) consumando, magari per decenni, uno dei tanti formaggi spalmabili di produzione industriale, non si lasci prendere dalla voglia di assaggiare: resterà, molto probabilmente deluso se non disgustato, inconsapevole che con le sue abitudini alimentari si è precluso la possibilità di godere di questo come di altri piacevoli sapori. Se, invece, nonostante tutto, la compromissione delle suddette papille non è stata totale e dovesse, perciò, apprezzare la nuova esperienza ed essere disposto a ripeterla ogni volta che se ne presenti l’occasione, non disdegnerà neppure di saperne di più su questo prodotto, a cominciare dal metodo di preparazione, dal nome particolare, dagli abbinamenti più obbligati.
Per la preparazione riporto (le note, però, sono una mia aggiunta) quanto si legge in Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 18551, pp. 151-152: Quivi le gregie sono fecondissime di agnelli e di latte, che fanno formaggi de’ migliori d’Italia, ricotte salate dette marzotiche2, cacicavalli, ed un’altra specie di ricotta, detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia, eccetto in questa provincia, saporosissima al gusto. Si fa questa ricotta mettendola fresca in certe mattre3 di legno fatte per questo artificio, e si lascia ivi inacidire aggiungendovi della fresca giornalmente. Inacidita, si tempra4 due o tre volte la settimana per due mesi continui, temprando e mischiando sempre alla massa quella che giornalmente si aggiunge, mettendovi, quando s’incomincia a temperare, tanto sale quanto si richiede alla confettura del pane per farlo saporito, e più o meno, secondo il gusto di chi la richiede5, e per ogni volta, che si tempra si lascia la pasta, e ben serrata: finita e perfezionata l’opera, risuda da essa ricotta una certa grassezza oleosa, la quale finita di risudare, si mette la massa della ricotta, e si conserva in alcuni vasi di creta nuovi, coverti di foglie di vite, o di fichi, ed i vasi si mettono a terra alla rovescia, acché ne trascolino le reliquie di quella grassezza oleosa, atta a corromperla, e si conserva per molti mesi ed anni, acquistando in certo tempo un colore cretaceo argilloso, ed un sapore abbruciante gratissimo al gusto.Si mangia questa ricotta volentieri col pane e le cipolle; se ne fanno diversi condimenti per il cibo alle mense, giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermini, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cader i vermi , genera sangue e nutrisce molto. Il medesimo fa la sua grassezza oleosa.
La procedura descritta fa comprendere che chiunque, partendo dal prodotto base genuino (la ricotta), può prepararsi in casa, magari utilizzando altri contenitori, la ricotta scante che, essendo a fermentazione naturale, non è, in pratica soggetta, com’è detto nel brano riportato, a scadenza, anzi col passare degli anni diventa più scura e più piccante, quindi adattabile modularmente al gusto personale. Io, che sono un barbaro, la consumerei stagionata pure da cinquant’anni, ma non ho avuto la fortuna di simile eredità ed ormai è troppo tardi per trasmetterla alle mie figlie che, oltretutto, hanno delle papille gustative la cui delicatezza sta a quella delle mie come la concezione del potere (teorica e, quel che più conta, pratica) di Josè Mujica sta a quella di una delle tante alte cariche (per non parlare dei tanti incarichi distribuiti alla corte …) della nostra povera Italia …
Ma la sua sarà l’unica ricotta scante illegittima, cioè prodotta e conservata trasgredendo (almeno in casa nostra siamo o no padroni di fare quello che vogliamo, soprattutto quando ciò che produciamo, e non si tratta certo nel nostro caso di droga, è destinato all’uso personale?) una delle tante idiote disposizioni europee (ancora più idiotamente lasciate passare dai nostri rappresentanti senza proferire una parola, anzi senza battere ciglio) che impongono la sterilizzazione con conseguente eliminazione dei fermenti e, aggiungo io, l’uso di chissà quali additivi.
Se ricotta s’è capito, rimane da spiegare scante. Deriva per aferesi da uscante (variante dell’uschiante presente nel brano di Marciano/Albanese), participio presente del verbo uscàre, che significa bruciare. Noi salentini avremo pure dei difetti, ma anche il pregio, unico, di continuare a parlare, in qualche modo, per lo più senza nemmeno rendercene conto, il greco e il latino. Uscare, infatti, deriva dal latino classico ustulare=bruciacchiare, forma iterativa da ustum, supino di ùrere=bruciare, per la trafila: *ustulare>*ustlàre>*usclàre6>*uscàre. Da ustum si è formato in latino ustio/ustionis (da cui l’italiano ustione) e ustor/ustoris (da cui l’italiano ustore; famosi gli specchi ustori che Archimede avrebbe utilizzato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi romane). Dal participio presente (combùrens/comburèntis) di combùrere (composto da cum=insieme+il già citato ùrere) è derivato l’italiano comburente e dal suo supino (combùstum) il latino tardo combustio/combustionis (da cui l’italiano combustione). Non manca neppure il toponimo: Ustica, isola la cui origine vulcanica è notoria.
In attesa che arrivino i pompieri possiamo, dunque, dire che scante e usca del titolo sono due forme (participio presente la prima, terza persona singolare del presente indicativo la seconda) dello stesso verbo.
E scantare? Per il Rohlfs ha l’esatto corrispondente nell’italiano schiantare, che dai filologi viene dubitativamente collegato al latino explantàre=spiantare. Se già in ambito italiano la proposta è ineccepibile sul piano fonetico ma discutibile su quello semantico (lo schianto è una conseguenza dell’eradicazione), non appare accettabile per scantare la corrispondenza proposta dal Rohlfs con l’ulteriore passaggio dal concetto di schianto a quello di spavento, anche perché come sinonimo di spiantare il salentino usa proprio schiantàre. Non si comprende come ad una i in più o in meno sia stato affidato il compito di differenziazione semantica, pur non mancando casi in cui questo succede, anche se non proprio con lo stesso termine: per esempio, chiamare è, come la voce italiana dal latino clamare, mentre scamare (=lamentarsi, gridare) è dal composto exclamare.
Credo, perciò, che molto più banalmente scantàre sia il contrario di ‘ncantare (incantare in italiano). E se ‘ncantare significa ammaliare col canto (la preposizione in indica immersione) scantare, invece, vuol dire uscire fuori dall’incantesimo (s– è ciò che rimane della preposizione ex con valore estrattivo), cioè recuperare il contatto con la realtà, il che, spesso, è tutt’altro che piacevole. Sotto questo punto di vista, dunque, il dialetto salentino appare più economico rispetto all’italiano perché mette in campo lo stesso verbo di base (cantare) per esprimere due concetti opposti, mentre l’italiano non conosce scantare ma spaventare, che è da un latino *expaventare formato sul tema (expavent-) del participio presente (expàvens/expavèntis) del classico expavère=temere. Se, poi, si vuol considerare disincantare come corrispondente italiano (non con pienezza semantica, fra l’altro) di scantare, il concetto della maggior economicità del dialetto persiste perché disincantare al verbo base premette la particella dis– e la preposizione in. Va detto pure per completezza che lo spantare usato nel Brindisino e nel Tarantino non è variante di scantare (anche se il significato è lo stesso) ma è voce di origine spagnola (da espantar, come l’italiano spaventare, dal latino *expaventàre ma con aferesi di e– e sincope di –ve-), come ci dice espressamente un suo illustre utilizzatore7.
Credo pure che a favore della mia proposta etimologica (la quale una volta tanto non rivendica un uso esclusivo della voce al dialetto salentino) vada quanto si legge in Ilario Peschieri, Dizionario parmigiano-italiano, Carmignani, Parma, 1841: “Ozèl scantà, o smalizià, Uccello accivettato. Quello che per aver veduta altra volta la civetta, o per aver dato altra volta nella pania, si tien cauto dappoi. E figuratamente si dice d’uomo, cui il proprio pericolo abbia renduto accorto”.
Tornando alla nostra ricotta scante, lascio al competente amico Massimo Vaglio il compito di illustrare i suoi vari impieghi nella nostra cucina. Io mi limito a dire che sostituisce ottimamente il formaggio nella preparazione delle recchie (orecchiette) o dei curti e gruessi (specie di cavatelli) col sugo di pomodoro, si amalgama ottimamente con i fagioli lessati (pasuli cu lla ricotta scante) ma il suo impiego senz’altro più immediato e stimolante prevede che sia spalmata su una fetta arrostita di pane casereccio e che su questo letto giallastro siano adagiate due o più alici. E un generoso rosso generosamente gustato sarà un ottimo alibi per spegnere qualche palato delicato che dovesse uscare. Si tratta della rivisitazione moderna e qualcuno direbbe nobilitata dell’antica sarda allu ràsciu (sarda al raggio), che costituiva il pranzo del contadino di un tempo: un cartoccio di sarde salate, qualche fetta di pane e ricotta scante. Al momento opportuno bastava spalmare la ricotta sulla fetta e poi stendervi una sarda dopo averla sbattuta contro un raggio della ruota del traìnu (carro) per scuotere i grani di sale più grossi.
Sembrerà strano ma fu, stando a quanto fino ad ora mi è risultato, un autore napoletano e non un salentino a fare della ricotta scante quasi la protagonista di una sua opera letteraria. Francesco Cerlone (1722-dopo il 1778) fu autore di commedie, tragicommedie e melodrammi, alcuni dei quali musicati da famosi compositori pugliesi come il tarantino Giovanni Paisiello (1740-1816) e il barese Niccolò Piccinni (1728-1800). Ecco i brani della commedia L’Armelindo, o sia trionfo del valore, in cui sulla scena compare il nostro prodotto, a ribadire, sia pure in funzione comica, un uso medicinale che ricorda quanto già letto nel Marciano/Albanese8:
Atto II scena X; personaggi: Zadir, Pulcinella, Ircano.
Atto II, scena XI; personaggi: Mossiù de Blo, Ircano, Zadir, Pulcinella.
Atto III, ultima scena; personaggi: Dorimaspe, Artalice, Celestina, Ircano, Pulcinella, Armelindo.
L’immagine fin qui ricorrente della ricotta scante e in particolare di quella invasettata ha finito per invasarmi9; non sono certo in grado di scrivere una commedia, ma qualche verso traballante sì e, per la serie me la canto e me la suono da solo, anche le note sono mie:
a Corrisponde all’italiano letterario (!) mentovare, che è dal francese mentevoir, a sua volta dalla locuzione latina mente habere=avere a mente.
b Da scuttare, corrispondente all’italiano sgottare.
c Alla lettera: integro, nel pieno delle facoltà fisiche e mentali.
d Da fitire, che è dal latino foetère=puzzare.
e Forma intensiva dell’italiano stèndere (che è dal latino extèndere): stindicchiare suppone un latino extendiculàre.
f Per capasa vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/.
g Corrisponde all’italiano letterario (!) roggia [dal latino rùbea(m)=rossa], ma usato con valore sostantivato: … e cui più roggia fiamma succia?” (Dante, Inferno, XIX, 33); Al campo dove roggio nel filare/qualche pamppano brilla … (Pascoli, Myricae, Arano, 1-2).
h Corrisponde all’italiano ampolle. Ampolla è dal latino ampùlla(m), diminutivo di àmphora=anfora, connesso con il greco ἀμφορέυς (leggi amforèus)=vaso a due manici, composto da ἀμφί (leggi amfì)=da entrambe le parti+φέρω (leggi fero)=portare, con evidente riferimento ai due manici.
ì Corrisponde all’italiano buscare (dallo spagnolo buscar, forse di origine celta) con aggiunta in testa della preposizione in, successiva aferesi e passaggio –n->-m-.
l Da ddifriddire, corrispondente all’italiano raffreddare, ma con cambio di coniugazione e sostituzione della particella ripetitiva ra- con la preposizione di.
m deverbale da ‘nghiuttire (corrispondente all’italiano inghiottire).
n gola (evidentissima similitudine).
o Il riferimento è al noto episodio biblico (Esodo, XVI, 16-18) in Dio somministrò una sostanza commestibile così chiamata agli Israeliti durante la loro peregrinazione nel deserto subito dopo l’uscita dall’Egitto
p corrisponde all’italiano erutto, con sostituzione di e– (dal latino ex=fuori) con de con lo stesso valore di moto da luogo.
q nessuno; la voce è dalla locuzione latina qui velles=chi tu voglia; esiste pure l’omofono ed omografo ceddhi, plurale di ceddhu=uccello, corrispondente all’italiano uccello, col quale condivide l’etimo: dal latino tardo aucellu(m), da un *avicellus, maschile di avicella, diminutivo di avis.
r andare; scire corrisponde all’italiano letterario (!) gire.
Come poeta sono un fallimento e il tentativo di emulare l’autore napoletano è andato totalmente a vuoto? Vuol dire che mi rifarò come pittore. Ecco con quale mia opera, peraltro già venduta, ma mi sono riservato il diritto di poterla all’occorrenza esibire, qualora intendessi partecipare a qualche (sono piuttosto schizzinoso … devo scegliere) concorso internazionale: il titolo, tenendo anche presenti, fra l’altro, le proprietà afrodisiache (almeno così si dice …) della ricotta scante, è Spatolata erotica.
Ecco cosa ne ha scritto recentemente il grande critico Vladimir Maialowski: Lo spazialismo del Fontana assunto come concetto di riferimento nella lettura di “Spatolata erotica” del Polito sarebbe riduttivo e fuorviante, ove non si considerasse la sua originale e rivoluzionaria rivisitazione, che si sublima in un lacerante messaggio Dante corpo allusivamente plastico all’informe magma delle umane contraddizioni.
Non ci ho capito niente, ma mi sta bene lo stesso, anche se debbo nel mio piccolo rimproverare al grande Maialowski l’essersi lasciato sfuggire (può darsi, però, che sia un errore di stampa) quel Dante con l’iniziale maiuscola …
Il solito invidioso si è già fatto avanti e, ringalluzzito dalla mia pertinentissima (o, sopprimendo una t e anagrammando, pernientissima?) osservazione ortografica e irrispettoso dell’autorevolezza di Maialowski, sta già dicendo: – Si capisce subito che è una foto! -? Il classico ficcanaso ha già aggiunto che magari non l’ho scattata nemmeno io? Qualcuno, poi, col pallino (ma anche con le palle …) del detective di razza afferma che l’ho tratta, insieme con quella di testa, da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=524289734379064&set=a.336146466526726.1073741828.100003941273343&type=1&theater e da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=524287641045940&set=a.336146466526726.1073741828.100003941273343&type=1&theater e qualcun altro, che conosce il mio grado di parentela con l’autore degli scatti (ma perché non si fa i c…ognati suoi?), rincara la dose aggiungendo che andrei incriminato pure per pubblicità occulta?
Calma, ho già messo in moto (ho speso una cifra perché la sua batteria era esausta) il mio avvocato di fiducia, tal Costante Perdente, principe del Foro del muro di cinta di casa mia e mi ha rassicurato il fatto che, quando ha saputo che imputata era non solo la ricotta scante ma anche la sarda, mi ha detto testualmente: – Vuol dire che nel momento conclusivo del dibattito invece dell’arringa tirerò fuori una bellissima aringa -.
Ad ogni modo, sarò pure una frana su tutti i fronti (sono sì un pacifista, però franano, inesorabilmente e per fortuna, pure i guerrafondai …), ma uno sfizio nessuno mi può togliere, quello che mi accingo a soddisfare: col suo profumo il pane abbrustolito mi avverte che lui è pronto, le alici sott’olio sono già saltate fuori dal vasetto, la ricotta scante mi occhieggia in tutta la sua corposa, cremosa, saporita sensualità e non aspetta altro che io arrivi …
P. S. Per una volta tanto trasgredisco al principio più volte sbandierato del pudore dei sentimenti. Questo post, iniziato a scrivere e terminato mentre stava già molto male, è dedicato a mia suocera, che è mancata qualche giorno fa; una donna che a 90 anni suonati era la mia fonte privilegiata di fatti e parole del passato (e questo può apparire scontato) ma anche la prima a capire (e ogni mio controllo nel sospetto che ciò non fosse avvenuto ha dato sempre esito negativo, con mia puntuale vergogna) le mie uscite ironiche, che certe volte lì per lì non capisco nemmeno io, e a rimproverarmi affettuosamente per quelle meno brillanti o per qualche termine un po’ “forte”. L’ho lasciato, perciò, così com’è nato, doppi sensi compresi, ora pedante, ora irriverente, ora serioso, ora leggero, come la vita, convinto che forse sia questo il modo più corretto e rispettoso di ricordare le persone alle quali abbiamo voluto bene. Non ho fatto in tempo a leggerglielo ma, nonostante non sia un credente nel senso corrente del termine, mi piace immaginare i suoi occhi scorrere queste righe da un posto in cui, forse, per leggere non servono gli occhiali, a qualsiasi età, né lo stesso scritto, e sorridermi con la complicità di sempre.
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1 Il testo è dell’umanista Girolamo Marciano (1571-1628) di Leverano e fino a quella data era rimasto manoscritto. L’oprera fu pubblicata, come si legge nel frontespizio, con le aggiunte del medico e filosofo Domenico Tommaso Albanese di Oria (morto nel 1685), tratta da una copia manoscritta posseduta da Michele Tafuri (XIX secolo). È difficile distinguere la parte originale da quella interpolata e, di conseguenza, la paternità dei brani.; quello citato, comunque, rimane la più antica attestazione letteraria a me nota di questo tipo di ricotta, anche se è legittimo supporre che essa sia sta inventata (o più probabilmente scoperta per caso) molti secoli prima.
2 Forma aggettivale sostantivata da marzo+il suffisso –otico (di origine, tanto per cambiare, greca) presente in italiano in poche voci (per esempio: cervellotico) con funzione dispregiativa; in marzòtica, invece, il suffisso ha la funzione di connotazione cronologica approssimata, dal momento che la specialità si produce nel periodo febbraio-aprile.
3 Sulla mattra: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/02/la-mattra-e-il-suo-albero-genealogico/.
4 Temprare in dialetto salentino è scanare, dal latino explanàre=spianare; da notare, invece, l’esito -pla->-chia- in ‘nchianare=salire, dal latino *inplanare. Analogamente per –cla-: scamare=gridare, da exclamare.
5 Il sale, che notoriamente fa male, non è un componente indispensabile e la sua assenza non incide minimamente sulla conservabilità del prodotto, tanto meno sul suo sapore, di per sé già oltremodo deciso.
6 Sulla tendenza del latino parlato al passaggio -tl>-cl- dopo una sincope vedi L’appendix Probi (III secolo d. C.) laddove si ammonisce: vètulus, non veclus; vìtulus, non viclus. La tendenza è confermata pure, tra gli altri, dal meridionale minchia (che è dal latino mèntula=pene>*mentla>*mencla>minchia; da secchia (che è dal latino sìtula>>*sitla>*sicla>secchia; nel latino medioevale è attestato siclus), etc. etc.
7 Torquato Tasso, Intrighi d’amore, atto IV, scena XIII: Pe’ ‘stinto naturale nuie aute Cavalieri Neapolitani solimo sempre favorì chilli, che se danno ala devozione nostra; como fazzo io a lo presente, che sendole sottopuosto lo Segnore Cammillo alla nostra protezione, è necessario, ca la favorisca ‘ntorno alo suo negozio, quale è, ca io travestito, come già vao, e co chesta barba posticcia, parlanno ala Spagnuola, fazza spantare Magagna, pe’ sapè da isso , ‘n che luoco si trova ‘na cierta Ersilia …
Il salentino spantare, perciò, appare adattamento, dopo importazione, del napoletano spantà. La terra del Vesuvio utilizza spantecà col significato di soffrire per amore; lì per lì la voce potrebbe sembrare forma iterativa di spantare, ma secondo me è più probabile una sua maggiore fisicità, nel senso che la voce potrebbe derivare dal latino ex (con valore intensivo) e *panticare (usato nel Tarantino col significato di aspettare ansiosamente), denominale da pantex/pànticis=intestino; da, panticare, poi il neretino pànticu=spavento, preoccupazione.
8 Cito da Francesco Cerlone, Commedie, Masi, Napoli, 1828, tomo XV, pp. 108-109, 138-141, 159 (per la lettura integrale: https://books.google.it/books?id=Q784AQAAMAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)
9 Invasettata … invasarmi: al gioco di parole non corrisponde identità etimologica perché invasettare deriva da in+vasetto, diminutivo di vaso; di invasare, invece, in italiano ce ne sono due: il primo (col significato di turbare profondamente, dominare totalmente, al limite impazzire) deriva da invaso, participio passato di invadere, dal latino in=dentro+vàdere=andare) ed io ho avuto l’ardire di usarlo in tal senso; il secondo invasare (col significato di mettere in un vaso, montare la struttura per varare una nave, riempire d’acqua un bacino o un serbatoio) deriva da in+vaso (quindi è parente di invasettare). Qualcuno, però, dopo aver letto la poesia, sosterrà che è meglio considerare invasettata e invasarmi come aventi lo stesso etimo; in tal caso si parlerebbe di figura etimologica; ma quello stesso qualcuno dirà che l’importante è, dopo avermi gettato nel vaso, tirare la catena o premere il pulsante dello scarico o, nei bagni più sofisticati, dare l’adeguato comando vocale: addio, stronzo! …
Nessuno accenna mai al “padre” della ricotta forte (che mio padre pugliese mi fece conoscere, ahimè, troppo presto perché potessi apprezzarla (i bambini, si sa, non sopportano i sapori forti), mentre oggi ne vado pazzo. Intendo il kopanisti greco, una ricotta o formaggio fermentato ancora più forte e picccante e odoroso della ricotta squant. Vi assicuro che il kopanisti (meglio se quello di Micono) merita da solo un viaggio al Pireo, fino alle due o tre botteghe di soli formaggi che esistono vicino al mercato. Nel mio ultimo viaggio in Grecia riuscii a ingurgitarne un etto intero in pochi minuti, su pane integrale (la morte sua: è inconcepibile il pane di farina bianca raffinata che si usa oggi in Puglia, grano tenero o duro che sia). Bell’articolo.
Stabilire tout court anche per i cibi, come spesso a prima vista accade tra gli umani …, rapporti di parentela certi, magari sull’unica scorta di una somiglianza più o meno accentuata, ha in sé il rischio di giungere, bene che vada, a risultati scarsamente attendibili.
La “ricotta scante” e il “kopanisti” non fanno eccezione e della compagnia fa anche parte la “friseddha”, pure alla quale a suo tempo dedicai un post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/).
La loro preparazione, infatti, è diversa (lo sospettavo quando ho letto quella del Kopanisti, ne ho avuto conferma quando ho sottoposto la questione a mio cognato, gran produttore di ricotta scante) e l’unico dettaglio che li accomuna, a parte il sapore forte (per certi palati, non il mio, troppo forte per essere sostenuto), è la necessità del rimestamento ad intervalli regolari. Non a caso “kopanisti” è dal greco classico “κοπανίζω” (copanizo) che significa “pestare”.