di Alessio Palumbo
Da piazza della Repubblica fino a via Belvedere era (ed è) tutta una salita. Sulle pendici di quella che fino alla fine dell’Ottocento era stata una bassa collina tutta ulivi, vigne, mandorli e pietre più o meno accatastate a formare muri e casupole, la mano dell’uomo aveva disegnato, nel giro di una cinquantina di anni, un dedalo di vicoli stretti, slarghi, corti, viuzze delimitate da basse case dalle pareti di calce o al più tinteggiate con cupi rossi e pastosi gialli ocra.
Dal punto di vista urbanistico, piazza della Repubblica rappresentava l’unica vera piazza del paese, una sorta di lago rettangolare,limitato da quattro vialoni a due a due paralleli. Le viuzze della serra si tuffavano come tanti torrenti disordinati su una delle due direttrici che andavano da sud a nord, denominata via Collina. Gli altri viali segnavano invece il confine tra il paese e la campagna. Una campagna ricca, punteggiata di masserie e villini di nobili e commercianti gallipolini. Il borgo dunque si era sviluppato sull’altura, cercando frescura, brezze marine e piacevoli vedute: dalla cima, il mare e la città di Gallipoli si stagliavano nitidi subito dopo la vasta distesa di campi. Il dedalo di stradine che incideva il lato della collina si faceva un po’ più regolare sulla vetta, pur accrescendosi la ripidità. Via Belvedere rientrava tra queste strade di recente tracciato: rette asfaltate che si inerpicavano sull’ultimo tratto collinare per sfumare negli uliveti.
Dall’inizio del tragitto alla fine, da piazza della Repubblica a via Belvedere appunto, correvano (e corrono) un paio di chilometri, una mezza dozzina di strade, a voler fare il percorso breve, ed un dislivello di una trentina di metri. Raffaele Caputo, per tutti mesciu Rafè, percorreva lo stesso medesimo tragitto ogni sera che Cristo mandava in terra: andata e ritorno, col caldo o col freddo, d’inverno e d’estate, con il cielo terso o sotto il diluvio. Le mani ben salde l’una nell’altra dietro la schiena, la testa pesantemente piegata in avanti e il passo malcerto, soprattutto al ritorno. In alcuni momenti del suo andare, specialmente a metà delle salite più ripide, le gambe sembravano perdere sicurezza: mesciu Rafè ondeggiava, faceva un paio di passi all’indietro, un paio di lato e poi, riprendendo la camminata, riavviava anche il borbottio che accompagnava le sue passeggiate serali. Un borbottio regolare, con un volume che variava dall’intensità del sugo che sobbolle, a quella di una vespa col carburatore ingolfato. Un soliloquio quasi ininterrotto, se non per una scatarrata di tabacco di tanto in tanto.
Ecco, un altro elemento che non poteva mancare nelle scarpinate serali di mesciu Rafè: il sigaro. Non fumava mai da seduto o da fermo; lo faceva solo in movimento, masticando con rapidi movimenti delle labbra un mezzo toscano immarcescibile: accesso, fumante ma, chiunque lo avrebbe giurato, sempre della medesima lunghezza. In realtà, il sigaro di mesciu Rafè lo avevano visto in pochi: tra il buio della notte e la testa chinata nella tipica andatura, si poteva individuare giusto la brace della punta e le piccole nuvolette di fumo che circondavano il testone ingombro di mille pensieri.
Pensieri confusi, inutili, raramente consequenziali l’uno all’altro: pensieri ispirati dal vino. Del resto quali altri pensieri, nel senso di preoccupazioni, poteva avere mesciu Rafè: non aveva moglie, né figli, né parenti abbastanza prossimi; di salute stava più che bene e in quarant’anni di carrettiere aveva messo da parte una buona cifra, si era costruito una casetta su via Belvedere ed un’altra sulla parallela, via Trieste, che ora affittava ricavandone la rendita necessaria per mangiare, pagare le tasse e bere, ovviamente. Altre esigenze non ne aveva.
Quella sera di fine giugno, vuoi il caldo, vuoi l’eccezionale carico di vino che trasportava nell’otre che il padreterno gli aveva impiantato al posto dello stomaco, impiegò più tempo del solito per raggiungere casa. Arrivò all’imbocco di via Belvedere che i lampioni erano già spenti e per strada non c’era nessuno. La sua casa era la seconda sulla sinistra e la raggiunse con un ultimo sforzo. Piazzatosi a gambe larghe di fronte alla porta di legno pesante che lui stesso aveva dipinto di verde, si mise a trafficare con la serratura. Al buio rischiarato a tratti da una mezzaluna che entrava ed usciva dalle nuvole sfilacciate, cercò, senza successo, di far scattare la serratura. Non ci fu nulla da fare. Il meccanismo non girava. Il borbottio di mesciu Rafè si fece più intenso e cominciò a condirsi di bestemmie via via più articolate. In una sorta di crescendo rossiniano cominciò a chiamare in causa San Rocco con relativo cane, San Nicola, tanto quello dei paesi vicini quanto quello di Bari, quasi fossero tanti fratelli sparsi per la Puglia, madonne di vario tipo, esistenti e non. Niente: la porta rimaneva chiusa.
Spossato dal caldo Valentino, detto Ndinu, sedeva al centro del camerone che dava sulla strada. La stanza era grande e vuota, non avendo ancora nulla con cui arredarla, per questo l’aveva momentaneamente adibita a deposito. Valentino era il dirimpettaio di Raffaele, carrettiere anche lui, ma relativamente giovane e soprattutto in attività. All’indomani sarebbe dovuto uscire di casa alle quattro, ossia da lì a cinque ore, ma il sonno non veniva e per non disturbare la moglie incinta si era messo a sedere nel magazzino, visto che a restare steso nel letto non aveva ottenuto altro che un’accresciuta agitazione. Il borbottio di Raffaele, percepito da lontano, gli aveva fatto capire che oramai si era fatta sera tarda e ciò lo aveva reso ancor più nervoso. Figurarsi poi la litania di bestemmie recitata ad alta voce che aveva preso il posto dei mugugni. Non riuscendo più a sopportare la voce greve del dirimpettaio si rizzò in piedi, aprì con foga la porta e balzò fuori casa.
Ora bisogna sapere che, per quanto Valentino possa essere un nome delicato, con richiami poetici con corredo di brocche di biancospini, o cinematografici grazie al celebre Rodolfo, il Valentino in questione non aveva nulla di tutto ciò. Alto poco più di un metro e sessanta, massiccio come un macigno nei suoi centoventi chili, forte come un bove, gli occhi perennemente arrossati da una congiuntivite mal curata, un immancabile fazzoletto rosso attorno alla gola e la testa tonda e calva, non aveva nulla di poetico.
Attraversò con due balzi il breve tratto di strada che lo separava da mesciu Rafè. Questo, intento a lottare con la serratura, non percepì la presenza del dirimpettaio, che quindi lo afferrò di sorpresa per le spalle, lo fece ruotare violentemente e lo scosse ben bene, come un albero di gelsi.
“Mesciu Rafè, pe la culonna, ce sta faci?”
“Nu se apre?” fece il carrettiere ingenuamente, indicando la serratura.
Ndunu lo mollò sgarbatamente, lo scansò, si avvicinò alla porta e, dopo aver osservato con attenzione la serratura, estrasse da questa un mozzicone di sigaro oramai quasi distrutto del tutto. Lo sollevò incredulo e voltandosi lo mise sotto il naso dell’ubriaco. La luna illuminò l’oggetto piazzato ad un centimetro dal naso rubizzo del vecchio carrettiere.
Valentino non parlava, ansimava per la rabbia. Mesciu Rafè guardava un po’ lui un po’ il sigaro: anche lui boccheggiava, ma soprattutto sembrava pervaso da un’eccezionale stupore. Poi un barlume attraversò gli occhi acquosi del vecchio
“Compare Valentino” disse placido “o’bbiti ca m’aggiu fumatu la chiave?”