di Eliana Forcignanò
È esistenza e resistenza la narrazione. Si tratta dell’atto più felice che l’individuo possa compiere nei confronti di se stesso e della propria comunità di appartenenza, un atto dovuto anche quando ciò che s’intende narrare non sembra avere contorni allegri, tuttavia, se attribuiamo credito alla nozione cassireriana di uomo quale “animale simbolico”, il raccontare e il raccontarsi, collocando il proprio Io in un contesto spazio-temporale ben definito, costituiscono linfa vitale che ci consente non soltanto di riesaminare il nostro passato, bensì anche di comprendere le radici del presente e di progettare i sogni del futuro, ma – come scriveva Agostino – il passato non è più e il futuro deve ancora venire, dunque solo il presente esiste: esso ha un’entità, com’è inscritto nel participio praesens il cui suffisso prae- è seguito proprio dal sostantivo ens la cui traduzione è univoca: “ciò che è”. Ora, se il presente è ciò che immediatamente è, anche il passato può tornare all’essere e l’unica strategia per ottenere questo passaggio è la narrazione, vero luogo di presentificazione del passato, benché – secondo quanto insegnato dalla scuola psicoanalitica freudiana – il passato non sia mai davvero morto: esso dimora sovente nell’abisso dell’inconscio che, liberandosi a volte dalle strette maglie della censura, riesce a provocarne l’emersione. Jung è, invece, del parere che non la censura di per sé, bensì la nostra attenzione, rigorosamente selettiva, lasci in ombra determinati contenuti associati a complessi profondi o a costellazioni archetipiche irrisolte.
Uno psicoanalista alle prime armi interpreterebbe, forse, i racconti di Rocco Boccadamo come un tentativo di riscatto dalla modesta vita di provincia che l’Autore ha condotto fino al termine dell’adolescenza, ma sbaglierebbe il nostro psicoanalista a pensarla in questo modo, poiché ciò che a tutta prima appare un morso al freno del passato è esattamente il contrario. Boccadamo ricorda la sua infanzia e adolescenza trascorse nel piccolo, modesto borgo di Marittima non per compiacersi dei successi professionali e sociali ottenuti in seguito, bensì tentando di proporre al lettore un quadro veridico della vita dei piccoli ceti contadini e manifatturieri che, pur vivendo con poco, riuscivano a esprimere costantemente la loro creatività e la gioia di esserci (l’heideggeriano Dasein) di stare al mondo.
C’era davvero poco allora per molti, ma prevaleva il senso di comunità che rendeva il borgo una grande famiglia come l’Autore scrive chiaramente nel racconto dedicato a Valeria e Angelo, una modesta coppia di lavoratori che, al pari dei vicini, lasciavano la porta di casa aperta quasi a voler accogliere l’altro nella piena osservanza del rituale di ospitalità vissuto nell’antica Grecia e infranto da Paride che rapì la stupenda Elena per portarla a Troia. I riferimenti mitologici, per il racconto di Angelo e Valeria, sono d’obbligo: questa donna che non ha potuto concepire un figlio e ora cuce la dota per la prole delle altre compaesane ha in sé, pur nell’estrema semplicità con la quale è tratteggiato il personaggio, qualcosa di ancestrale che richiama due figure mitologiche: Penelope, moglie del viaggiatore Ulisse, e Lucrezia, moglie di Collatino. Penelope rappresenta la figura dell’attesa e del rimpianto che non può trovare argine quando si vede improvvisamente costretta a sposare uno dei Proci; Lucrezia rappresenta, invece, la figura della dignità: questa donna, violentata brutalmente dal figlio di Tarquinio il Superbo, è costretta a darsi la morte, non prima di aver denunciato al marito la vergogna che ha dovuto patire. Attesa e dignità, dunque, sono i tratti peculiari del carattere di Valeria, benché occorra precisare che anche gli uomini, nei racconti di Boccadamo, siano parimenti capaci di attendere per anni un figlio disperso in guerra o di mantenere la dignità nonostante manchino i soldi per ricomprare un paio di scarpe. L’estrema curiosità del titolo di questo libro – Compare, mi vendi una scarpa? – meritoriamente edito da Capone, non è semplicemente un paradosso, un motto di spirito, ma la simbolizzazione della necessità. La trama del racconto che dà il titolo al volume è semplice, ben costruita, perché Boccadamo ha uno stile che è, nel medesimo tempo, fluido e ricercato quanto basta per non cadere in un linguaggio arcaico che toglierebbe vitalità alle narrazioni.
Un contadino accompagna in treno fino a Napoli il figlio che deve arruolarsi. A bordo del treno che lo ricondurrà a Lecce, il padre del ragazzo tenta, esausto, di prender sonno e si slaccia le pesanti scarpe di cuoio che gli servono per il lavoro ed, eventualmente, per le rare volte in cui si concede una passeggiata. È il suo unico paio di scarpe e può considerarsi fortunato, perché la maggior parte dei contadini cammina a piedi scalzi. Al risveglio, ancora a bordo del treno, il contadino si accorge di avere una scarpa sola. L’altra gli è stata sottratta e non c’è modo di riaverla. Si reca, allora, al mercato sperando di trovare chi sia disposto a vendergli una scarpa sola. Nessuno intende spaiare le scarpe in vendita e il protagonista rimane per lungo tempo “monco” di una scarpa. Un racconto, uno squarcio di vita – giacché è questo l’atteggiamento letterario di Boccadamo: non una scrittura di lungo respiro, ma squarci brevi e incisivi, non la novella ma il quadro che l’Autore ritocca con abili pennellate stilistiche – uno squarcio di vita, si diceva, che suscita ilarità e tristezza insieme. Perdere una scarpa può apparire agli occhi di un lettore contemporaneo una situazione limite fra divertissement letterario e antico dramma satiresco. Boccadamo, però, racconta la verità: una verità dolce e amara al tempo stesso. Se è dolce questo padre che accompagna il figlio fino a Napoli per salutarlo prima che sia arruolato, è struggente la descrizione di quest’uomo che chiede di poter comprare una scarpa sola, perché, probabilmente, non ha i soldi per comprarne un paio. Eppure, vi è lievità nel racconto, spira una calma olimpica che scaccia ogni patetismo. Rocco Boccadamo sembra dirci: “Un tempo era così, ma non angustiatevi troppo, perché alla povertà materiale odierna che insiste in forme più larvali e subdole, era preferibile quella del Secondo dopoguerra in cui la speranza di un cambiamento era all’ordine del giorno”. Oggi non speriamo più: il panorama di macerie è costantemente sotto i nostri occhi. Da lì dobbiamo trarre la forza per ricostruire, ma quando?
Chiudo il mio intervento con una nota di colore suggeritami dal racconto Una matinée al Santa Lucia: dietro i due adolescenti protagonisti che marinano la scuola per rifugiarsi in questo cinema, da qualche anno, purtroppo dismesso, c’è tutto il profumo dell’amore in tenera età: le attenzioni, la voglia di un’innocente trasgressione, la leggerezza che solo quell’età vissuta in quella particolare temperie storica potevano garantire. E poi, Lecce – secondo il racconto di Boccadamo – era una città diversa: il Santa Lucia è chiuso da non molti anni, ma confesso che, pur avendolo vissuto poco per ragioni anagrafiche, ogni volta che mi accade d’incrociarlo sulla mia strada, percepisco una stretta al cuore. Quante estati sono trascorse e quanto rimpiango le proiezioni all’aperto, i cineforum, le rassegne! Chiudono i cinema, le biblioteche, i teatri. Chiudono. Ecco perché raccontare è resistere alla piattezza di una vita che ci vorrebbe consumatori felici e ordinati o macchine da guerra dietro a un computer. Di fronte a quest’alienazione, dobbiamo trovare non una forma di sopravvivenza, ma di esistenza: io credo, con l’amico Rocco Boccadamo, di averla individuata nel racconto. E voi?