di Rocco Boccadamo
A distanza di due anni e sospinto da un irrefrenabile campanellino interiore, in questa soleggiata ma fredda è ventosa mattina d’aprile, decido di ritornare a Frigole, aggraziata – e, forse, poco apprezzata rispetto ai meriti della sua cornice naturale – marina leccese.
Tengo bene a mente, al punto che mi si ripropone quasi familiare, l’impatto con il viale d’accesso al piccolo nucleo abitativo, contraddistinto, sui lati, da lussureggianti e svettanti piante sempreverdi; pochissime le persone in giro, caratterizzate da movimenti pacati, come se vivessero in un atmosfera da siesta.
Ma è assolutamente fugace la sbirciatina a quel mondo d’altri tempi da parte del visitatore curioso, la sua metà ponendosi precisa e determinata: il porticciolo della località.
Indubbiamente bello si rivela il nuovo approccio con i soliti battelli da pesca ormeggiati lungo il molo, tutti ricoperti, all’interno, da inanimati mucchi di reti.
Sennonché, merito o colpa della tramontana vivace, al di sopra e nei paraggi delle barche non si scorge anima viva, nemmeno l’ombra, tanto per citare, del giovane e gioviale lavoratore del mare Samuele, incontrato in occasione della precedente puntata a Frigole.
Sarà giacché al largo tira aria di burrasca o per via, come accennato prima, della temperatura niente affatto primaverile e, invece, nella media del nostro pieno inverno, il luogo in questione è presidiato unicamente dal più assoluto silenzio umano, rotto dai sibili di Eolo e dallo scivolare rapido e spumeggiante delle onde increspate, sino al loro infrangersi a ridosso dell’arenile e dei massi che proteggono il molo e le altre superfici di terraferma.
In un simile contesto, a me non resta che indirizzare una sorta di dialogo ideale alla distesa d’acqua, nella sua accattivante tonalità tra il verde e l’azzurro, con lo sguardo e la mente protesi soprattutto in direzione dell’orizzonte.
E, passare in rassegna volti, vicende, episodi inanellatisi, nel tempo, sullo scenario del mare di casa nostra, giustappunto il Canale d’Otranto che ho di fronte: sequenze cruciali della trama, gommoni e altri mezzi di fortuna carichi di clandestini disperati o di trafficanti, purtroppo con una serie di correlati naufragi e sacrifici di vite umane.
Un pensiero, dedicato con animo più sereno, anche per i popoli dell’altra parte del Canale, specie per le genti del Paese delle Aquile, una nazione, come è noto, già alle prese con decenni di buia dittatura e ora in promettente fase di sviluppo su modello democratico ad impronta occidentale.
Riconducendo la mente e lo sguardo alla terraferma e al porticciolo, mi piace accarezzare in particolare uno dei natanti attaccati al molo, quello portante il nome di battesimo di “Santa Maria Goretti”, la giovanissima Vergine dell’Agro Pontino, venerata, a quanto appreso, anche in seno alla comunità di Frigole.
Dopo di che, il vivace vento di tramontana non incoraggia più di tanto la mia sosta e, tuttavia, non mi sento abbastanza appagato per ritornare tout court in città.
Fortunatamente, un lampo mi si accende dentro, da un pezzo vado coltivando il proposito di vedere e conoscere la foce del fiume Idume, piccolo, e in qualche modo anche misterioso, corso d’acqua che scorre sotto l’abitato di Lecce, in lento movimento verso l’Adriatico, emergendo alla luce del sole poche centinaia di metri prima della distesa salata, in un luogo non molto distante da Frigole, precisamente all’altezza del cosiddetto bacino di Torre Chianca, altra marina del capoluogo del Salento ubicata appena più a nord.
Ecco alcune brevi note di geografia fisica e di carattere storico.
Il fiume Idume taglia il centro di Lecce, facendo capolino nei sotterranei di diversi antichi palazzi nobiliari, come quello degli Adorno, fatto costruire dal genovese Gabriele Adorno intorno al 1568.
Si dice che, in periodi andati, una famiglia ebrea dimorante nel citato palazzo usasse purificarsi proprio all’interno della falda acquifera posizionata nel corrispondente sottosuolo.
Il passaggio del fiume è testimoniato anche da iscrizioni sulle antiche pietre dell’edificio.
Si tratta di uno dei corsi d’acqua più importanti del Salento e la zona che circonda il suo bacino, definita “Le macchie dei Rizzi”, offre uno spettacolo naturale davvero suggestivo. Colori brillanti della vegetazione uniti al profumo intenso delle ginestre, incredibile trasparenza dell’acqua soprattutto in primavera.
Così la righe descrittive.
Riprendendo invece i ritmi dell’odierna mattina d’aprile, è automatico il proseguimento in auto, da Frigole, in una definita direzione, ci vuole poco per arrivare, la tramontana seguita a soffiare, anche nella nuova meta regna la solitudine, salvo una donna, accompagnata da cagnolino, che sfida le raffiche per il suo, evidentemente irrinunciabile, footing.
A me basta un gesto con la mano da parte della predetta signora e mi trovo sul greto, su una delle sponde dell’Idume, intorno piccoli e bassi canneti, il rio serpeggia dolcemente fra le distese di terra rossa, le acque, posso confermarlo, appaiono di eccezionale lucentezza e cristalline, un quadro d’insieme, seppure in miniatura, che sembra irreale.
La visione mi suscita dentro una ridda di riflessioni e pensieri, del genere più svariato, che si affastellano in copiosità, ma la reazione dominante e prevalente è quella di accostare questo modesto tratto fluviale della terra natia alle visioni di ruscelli e fiumi con cui mi è stato dato, in passato, di familiarizzare a latitudini ben diverse, ai piedi di montagne o fra boschi e pinete.
Rivedo e sento ancora accanto tali immagini naturali di anni lontani, nel loro ruolo di testimoni di momenti pieni e, insieme, spensierati e leggeri del ragazzo di ieri.
Al presente, insieme e in unisono con lui, in aggiunta a mare, vela, fiumi, montagne e ricordi, scorrono altre stazioni (non stagioni) della vita.
Vita che, però, sia come sia, continua o meglio – volere, sempre volere, fortissimamente volere, riprendendo Vittorio Alfieri – deve continuare.