di Gianluca Fedele
Entrare in un laboratorio d’arte provoca sempre piacevoli sensazioni di stupore, a maggior ragione se si tratta di uno studio di scultura, dove la tridimensionalità delle opere invade lo spazio circostante.
Renzo Durante mi è stato presentato recentemente e ho apprezzato nell’immediato la tecnica, ma soprattutto la sensibilità, con la quale, modellando le figure, restituisce loro quasi movimento. Versatile: non vi sono materiali naturali sui quali non provi a cimentarsi, plasmandoli secondo le immediate ispirazioni. All’interno del lungo viale che conduce all’opificio sono esposti anche elementi decorativi per edilizia; questi ultimi prevalentemente in pietra leccese. Ci sediamo circondati dalle sculture che fanno bella mostra un po’ dappertutto e un paio di gatti si accomodano su di noi. La plasticità di alcuni corpi marmorei fornisce una compagnia fisica oltre che concettuale.
D.:
Quali sono state le circostanze per le quali hai intrapreso il complesso percorso della scultura?
R.:
Parto subito col raccontare come il mio primo approccio con l’arte, e il conseguente desiderio di cimentarmi con la scultura, durante gli studi liceali furono caratterizzati da alcuni ostacoli: quando mi iscrissi al primo anno dell’Istituto Statale d’Arte di Lecce, infatti, il corso di scultura era saturo e dovetti così ripiegare su quello di ceramica. Mi servì l’approccio con la modellazione in argilla per instradare i miei sensi al concetto del volume ma sentivo comunque che non era il ramo confacente alle mie abilità. Nell’anno successivo ancora una volta non mi fu data la possibilità di cambiare specializzazione e forse per reazione mi ritirai dalla scuola per una sorta di anno sabbatico.
In realtà non volevo sprecare il mio tempo sottraendolo agli studi e così intrapresi temerariamente un corso di scultura presso la Galleria Maccagnani di Lecce gestito dal prof. Antonio Miglietta.
Passato questo breve ma intenso periodo rientrai al solco degli studi regolari perseguendo il filone che tanto avevo rincorso sotto la guida dei professori Giovanni Scupola e Vito Russo; con quest’ultimo il caso ha voluto che dopo vent’anni mi ritrovassi a partecipare a una mostra collettiva di scultura.
A entrambi devo molto per la fiducia e la stima che mi hanno saputo infondere consigliandomi paternamente di proseguire.
D.:
Fa piacere incontrare una persona che doppia gli ostacoli per inseguire la propria inclinazione. Cosa hai fatto terminati gli studi?
R.:
Devo dire che sono sempre stato molto istintivo nella vita: a diciannove anni ho preso le mie poche cose e sono partito per Firenze a lavorare. Nei primi periodi trovai subito impiego presso un laboratorio di scultura a Prato; negli anni successivi invece fui assunto all’interno di una cava di marmo (pietra serena, nello specifico) tra le colline di Fiesole. Qui, insieme ad altri colleghi scalpellini, ero impegnato nelle operazioni di sgrossatura dei pezzi che poi sarebbero diventati elementi decorativi perlopiù da edilizia e restauro.
D.:
Della città di Firenze che ricordi conservi dal punto di vista artistico?
R.:
Firenze, secondo me, è attualmente spesso sopravvalutata poiché galleggia sugli albori di un’era svanita ormai quasi del tutto. Le botteghe della concezione rinascimentale, quelle nelle quali si creava arte e artigianato, sono ormai una realtà in via di estinzione. Ciò mi ha in parte deluso perché mi attendevo di trovare ancora ricerca, speravo di potermi contagiare di quei fermenti artistici che hanno fatto grande il capoluogo toscano.
D.:
Quanto tempo ci sei rimasto?
R.:
Quell’esperienza durò quasi sei anni trascorsi i quali decisi di far ritorno nel Salento.
Che qui il rapporto lavorativo-retributivo non sia per nulla paragonabile a quello del settentrione d’Italia è cosa ben nota, si farà presto quindi a desumere che le mie prime collaborazioni artigianali al sud non furono particolarmente entusiasmanti. Strinsi comunque i denti cercando di trarre insegnamento da ogni esperienza; testai le mie capacità attraverso pietre durissime come la cosiddetta “pietra viva” o quella di Minervino sulla cui superficie persino gli scalpelli spesso avevano la peggio. Proseguii fino a raggranellare l’indispensabile che mi consentisse di acquistare l’immobile dove attualmente svolgo la mia attività.
Sono già trascorsi cinque anni da quando il mio sogno si è concretizzato!
D.:
Ora che finalmente realizzi opere ispirate quali fattori scuotono maggiormente la tua emotività?
R.:
Le ispirazioni sono sempre in divenire, continuano a mutare in maniera diretta rispetto all’evoluzione interiore. Talvolta è la materia stessa a fornirmi l’emozione che si trasforma in idea. Questo ad esempio è capitato per una delle ultime sculture sulla quale sto ancora lavorando, in parte realizzata modellando la fisionomia di un volto umano su una pietra pomice rilasciata sulla battigia dal mare. Sto tentando infatti di rappresentare la tragedia dei naufraghi che continua a ripetersi al largo delle nostre coste.
Da qualche tempo comunque mi lascio ispirare dagli indomabili e imprevedibili flussi organici che la natura e il suo caos sviluppano. L’opera “Rinascita” è la testimonianza più concreta in merito a questo studio poiché è realizzata su un tronco d’ulivo dato alle fiamme prima e reciso poi insieme ad altri dalla brutale mano dell’uomo. Il dramma – e la mia denuncia – sta nel fatto che sul terreno dove insistevano questi contorti colossi attualmente è presente un impianto fotovoltaico con tutto il suo aberrante scempio ambientale.
Infine c’è il mare, mia grande passione, eternamente inquieto, il quale omaggio con piccole onde come souvenir dei nostri incontri.
D.:
Che non ci siano materiali sui quali tu non ami cimentarti mi è chiaro ma ne prediligi qualcuno in particolare nella scultura?
R.:
Ogni materiale che lavoro ha le proprie peculiarità che, come dicevo, spesso hanno una stretta correlazione col concetto che intendo rappresentare.
La pietra leccese, molto più istintiva rispetto al marmo, mi ritorna utile perlopiù quando ho bisogno di impressionare il pensiero con una certa immediatezza: la sua consistenza tenera ovviamente ne facilita la lavorazione. C’è da dire inoltre che spesso aggredisco il blocco senza passare per bozzetti preparatori allo scopo di non inquinare il pensiero che di getto mi attraversa la mente.
Le mie sfide però restano tuttavia il marmo e soprattutto l’umile “pietra viva”; questa roccia, una volta utilizzata in ambito rurale per la costruzione dei tipici muretti a secco, oggi è stata rivalutata persino nell’artigianato. Le sue porosità rossastre le conferiscono una sorta di ulteriore dimensione interna.
Sui legni poi ci sarebbe da aprire un capitolo a parte per la sempre differente conformazione delle venature e dei nodi che vanno esaltati volta per volta. Ho lavorato tronchi di noce, quercia, cedro, cipresso e qualche radice ma rimango fortemente legato all’ulivo anche per ciò che simbolicamente incarna del nostro territorio. A maggior ragione ora che è minacciato da un pericolo subdolo chiamato Xylella fastidiosa.
D.:
Quali sono stati gli artisti che ti hanno influenzato?
R.:
Il primo maestro che mi viene in mente è certamente Umberto Boccioni: ha generato l’input attraverso il quale mi sono aperto alla concezione del dinamismo, filosofia questa che mi rappresenta molto anche nel quotidiano. Per lo stesso motivo si rilevano in ciò che faccio anche contagi dalla pittura futurista e cubista o della scultura moderna di Henry Moore e Medardo Rosso.
Per comprendere certe superfici sfaccettate delle mie opere bisogna invece rintracciare le influenze dello scultore Ossip Zadkine
D.:
Ti senti un po’ futurista?
R.:
Non amo le etichette, mi piace solo prendere ispirazione da quel movimento che ancora per certi versi è avanguardia; sarebbe anacronistico se io oggi mi professassi futurista. Ho motivo di credere che i filoni artistici siano soprattutto il risultato di una serie di fattori sociali e politici, prima che creativi. In quest’ottica è chiaro che il triste periodo che stiamo attraversando, e la conseguente incapacità di intraprendere nuovi percorsi culturali, si ripercuotano fisiologicamente anche sull’arte.
D.:
Potrebbe attecchire qui, nella Terra d’Otranto, il virgulto di una nuova corrente?
R.:
Potrebbe! Anche se la mediocrità è imperante rimango convinto che le possibilità e le menti ci siano ma occorrerebbe che queste eccellenze fossero capaci di costruirsi un adeguato contenitore, e non solo di un circoscritto luogo geografico. Noi artisti meridionali viceversa, tendenzialmente individualisti, siamo aperti alle contaminazioni ma sempre poco inclini alle collaborazioni.
D.:
Il proliferare di associazioni culturali è positivo secondo te?
R.:
Personalmente ho contribuito, assieme a un gruppo di amici, alla fondazione dell’associazione culturale Mujmuné a Leverano (LE) con la quale abbiamo spesso promosso eventi coinvolgendo persino artisti internazionali. Questa nostra esperienza, come tante altre, si inserisce all’interno di una recente riscoperta di valori di accoglienza ma incoraggia oltretutto la consapevolezza delle potenzialità di una terra sino a oggi bistrattata persino da chi la abita.
Lo spirito col quale si intraprendono le nostre iniziative è quello di creare una sensibilità collettiva, riaprendo le finestre del cervello troppo spesso serrate.
D.:
Attraversando il viale che porta al laboratorio ho notato sculture che non portano la tua firma. Come mai?
R.:
Quelle tre opere sono parte dell’eredità che alcuni artisti hanno lasciato al comune di Leverano al termine di un simposio internazionale di pittura e scultura organizzato dall’associazione di cui sopra, in collaborazione con altre associazioni cittadine. Sulla scorta di mie esperienze simili abbiamo invitato tre scultori e tre pittori a cimentarsi in una produzione estemporanea d’arte: un evento partecipato anche dalla cittadinanza e certamente riuscito. Prossimamente due delle tre sculture verranno installate nel centro storico e la terza nell’aiuola antistante il comune.
Le opere pittoriche invece, verranno collocate temporaneamente nella biblioteca in attesa di trovare un luogo da destinare a pinacoteca comunale.
D.:
Partecipi spesso a eventi analoghi?
R.:
Quando ne ho la possibilità, e se gli impegni me lo consentono, intervengo sempre con piacere a questi workshop d’arte. Per me rappresentano appaganti momenti di confronto e in qualche occasione mi è capitato di fare la conoscenza con giovani e brillanti artisti provenienti da tutto il mondo. In determinati ambiti si innesca anche la sana competizione con gli altri concorrenti ma soprattutto con le mie individuali potenzialità.
Partecipare a queste manifestazioni mi consente inoltre di viaggiare – sono stato in Umbria, in Trentino, in Toscana, e all’estero in Slovenia e Croazia – nonché mietere rilevanti soddisfazioni personali come quella di vedere esposta la propria opera nel museo all’aperto di una pista da sci.
D.:
Soltanto in questo modo promuovi le tue sculture?
R.:
Allestisco anche delle mostre qualora me ne venga data la possibilità – perché spostare un blocco di marmo non è come trasportare dieci tele. Di recente alcuni miei lavori sono stati ospitati per lungo periodo presso il Comune di Copertino.
Viceversa non amo assolutamente le gallerie, che reputo piccoli magazzini di commercio, inadeguate per contenere l’energia che sprigiona l’arte. E per di più trovo oltremodo condizionante, nei confronti della creatività dell’artista, il sistema che i mercanti adottano per imporre quantità di produzione o talvolta addirittura stili e tematiche.
D.:
Alludevi al trasporto delle opere dall’ottica economica: è costosa l’arte?
R.:
Un’opera ha un valore pari all’emozione che provoca e il costo è connesso di riflesso al dispendio energetico ed economico attraverso il quale è stato possibile realizzarla.
Gli artisti sono in qualche modo dei missionari: hanno il compito di aprire le coscienze di chi fruisce la loro arte.
Renzo fa viva la pietra e scolpisce le sue odii.
Spettacolo grande renzo!
LU MEJU!!!
stupenda ” passato e presente”, la forza della scultura suggerita dai volumi riesce a scaturire dall’interno. complimenti.
Grazie!