di Rocco Boccadamo
Nel mio personale sentire, sin dalla lontana infanzia, questa ricorrenza ha esercitato sempre una grande fascinazione; in altri termini, l’ho considerata, attesa e vissuta alla stregua di autentica anteprima della Pasqua.
Sul piano concreto, ripassando col pensiero una serie di specifiche usanze e consuetudini correlate all’evento – abitudini risalenti a stagioni antiche e tuttavia, ad onore del vero, almeno nei confini della località natia, in parte ancora oggi mantenute e rispettate – rivedo indistintamente la quasi totalità dei compaesani, di mestiere contadini e/o agricoltori, nell’atto di recidere dagli alberi d’ulivo, il giorno prima, cospicui fasci di rami, ricchi di tenere foglioline color verde argento, poi trasportati a casa, a spalle o sul manubrio di una bicicletta o su un carretto, con il preciso e irrinunciabile scopo di trasferirli, la mattina successiva, sul sagrato della chiesa parrocchiale per la benedizione e la processione comunitaria.
Accanto al luogo sacro, veniva così a formarsi un suggestivo, grande è alto tappeto di rami, sigillo distintivo di un’intera popolazione.
Dopo le anzidette celebrazioni, seguite in raccolto silenzio dagli astanti d’ogni età, i singoli fasci ritornavano, con naturale ordine, nelle mani dei rispettivi titolari e, immediatamente, avanti che scoccasse l’ora del pranzo, le “palme” erano collocate sui tetti delle case, oppure piantate nei campi, nei giardini e nelle aiuole dei cortili domestici, con convinte dedicazioni propiziatorie, soprattutto di buona salute e di fecondi raccolti agricoli.
Al riguardo, atteso che il mio genitore aveva cessato il mestiere di contadino per assumere l’impiego presso l’anagrafe comunale, la mia diretta testimonianza passa attraverso il nitido ricordo delle prime “palme” donate e piantate dal nonno Cosimo, classe 1879, e, successivamente, la sequenza della medesima operazione compiuta dallo zio Vitale e infine, da un po’ d’anni a questa parte, dall’amico Toto, il quale è anche il prezioso e amorevole “badante” del mio gatto certosino, nei mesi in cui io e mia moglie non risiediamo alla “Pastorizza” di Marittima.
A latere del rito fondamentale delle liturgie con i rami d’ulivo, quella domenica mattina se ne svolgeva un altro, basato su una materia prima differente, ossia dire le tenere foglioline pennate, tra il giallo e il verde, di palme da dattero.
Erano poche, anzi pochissime, al paesello, le piante di tale specie, allignavano solamente in qualche giardino e campo delle poche famiglie benestanti, giacché la gente comune non si poteva permettere il lusso di coltivare, sui risicati terreni di proprietà, alberi che non dessero alcun frutto.
Difatti, le palme da dattero venivano in auge e avevano il loro momento di gloria esclusivamente nel giorno delle Palme, quando, mediante le anzi richiamate foglioline, attentamente e abilmente ripiegate e incastrate a mano, si fabbricavano minuscoli “panierini”, che i più piccoli donavano alle loro mamme, i ragazzi alle compagne e i giovanotti alle fidanzate.
Però, accanto ai “panierini”, arrivavano a far bella mostra alcune grandi realizzazioni artistiche ottenute con le medesime foglie, palme ad intreccio o altre raffigurazioni, per opera delle famiglie dei “signori” che disponevano di propri arbusti: ricordo particolarmente quelle del Maestro Don Peppino Margiotta e del Patrunu Giacomino.
Nel contesto complessivo, vigeva anche l’abitudine di offrire una delle grandi “palme” artistiche in parola, in segno d’omaggio, all’Arciprete, il quale la teneva in mano e appoggiata sul petto durante la processione.
Noi ragazzi, sistematicamente ogni anno, ci portavamo di buon’ora in una tenuta agricola sulla via provinciale fra Diso e Ortelle, denominata “Lafiusca Bottazzi”, proprietà di un illustre scienziato, Filippo Bottazzi, nativo di Diso, che, però, viveva quasi sempre fuori, terreno che, accanto a una casa di villeggiatura ancora oggi esistente, comprendeva due rigogliose palme da dattero.
Ci arrampicavamo lesti fra tronchi e rami, riuscendo, così, a far, ciascuno, una piccola incetta di foglioline pennate giallo verde, da destinare alla fabbricazione di “panierini”, magari poi venduti ai compagni in cambio di sparute lirette.
Semplici e marginali digressioni da ragazzi a parte, la Domenica delle Palme d’un tempo aveva per fulcro la funzione di manifestare reciprocamente, in seno a familiari, parenti, amici e compaesani, gesti simbolici di rapporti pacifici, di buon vicinato e di comune e disinteressata solidarietà.
Fuor di demagogia, come sarebbe bello se, pure adesso, si avvertisse ed esercitasse un’analoga spinta spontanea! Forse, in tal modo, tanti dei problemi e/o ambasce che ci circondano e assillano potrebbero essere, se non risolti, perlomeno attenuati.
Da ultimo, ricollegandomi alle note preoccupazioni, legittime e forti, che corrono e angosciano con riferimento alla nota malattia o epidemia (Xilella) che sta colpendo i nostri ulivi salentini, pur consapevole delle gravi conseguenze che potrebbero derivarne sotto molti aspetti, mi sento però di non condividere e, anzi, di respingere l’idea, da qualcuno affacciata, che, nella ricorrenza delle Palme 2015, non si proceda alla tradizionale benedizione dei rami d’ulivo e ci si astenga dal concorrere ad addobbare con i medesimi, che sono un tratto distintivo della nostra identità storica, la piazza di San Pietro a Roma.