di Paolo Vincenti
Un timido sole su Lecce. Nonostante sia febbraio, il caldo è umido e fastidioso, i muri sono tappezzati da manifesti di concerti, assemblee pubbliche, bandi comunali e dagli immancabili batti e ribatti della polemica politica fra maggioranza ed opposizione. Nel parco cittadino trionfa un color zafferano che richiama luci di altre vite, rimanda bagliori di lontane atmosfere. Che ci faccio in una mattinata così a Lecce? Lavoro e un appuntamento culturale. Quando posso, cerco di unire le due cose, che sono le costanti di una vita arlecchinesca.
Vado a piedi, fra i perditempo che si gingillano nei bar e le piccole fiammiferaie sui boulevards percorsi da giovani annoiati in cerca di avventura e affaristi che vanno di corsa nei loro mocassini testa di moro. Il sole, come malato, lancia i suoi raggi che cadono sghembi sulle teste delle persone e intarsiano i loro volti con striature violacee. Tutto è in cammino, come sempre, ma le nuvole che sporcano il cielo sembrano correre più veloci; nell’acqua della fontana di Piazza Mazzini si delinea un volto malevolo, qua un caporale maggiore che si affretta verso la caserma, là degli studenti che hanno bigiato e osservano chi li guarda con sospetto, ora un leggero mulinello fa turbinare quattro foglie giallo malinconia, poi il fruscio di una fiammella esce dalla porta della chiesa di Sant’Irene e si perde nella strada. Da un retrobottega, sguscia un miasma pestifero di polvere e collanti. L’extra comunitario nero nerò lancia una maledizione al passante che è passato troppo velocemente senza accorgersi di lui, e intanto che si alza profumo di polli arrosto, all’angolo di Via Lupiae, la donna in fusò e spolverino bianco appena uscita da casa sblocca con sollievo la password del telefonino. Attraverso Porta Napoli e Davide, l’amico che mi accompagna, osserva che il frontale del Teatro Paisiello ricorda quello di un tempio pagano. Il sole si è nascosto dietro la tendina di nuvole e si respira come un’aria di attesa, di sospensione, che fa tendere i nervi. Percorrendo Corso Vittorio Emanuele, che da Piazza Sant’Oronzo porta al Duomo, fra le scintillanti vetrine dei negozi dietro le quali pingui commercianti sorbiscono il cappuccino insieme ai loro emaciati commessi, sotto braccio con un uomo dall’aria altolocata, un padre gesuita rammenta, a sé stesso oltre che al magnanimo amico, che siamo fatti di carne e che non ci porteremo mica i nostri averi nell’aldilà, che scienza, sapienza, ragione, senza Dio, sono solo nubi passeggere come quelle che inzaccherano, contadine, il bel cielo cittadino, e che perciò è inutile adornarci come damerini se, dopo morti, i vermi divoreranno le nostre carni nella tomba. Poi, introducendosi nel bar della libreria Feltrinelli, i due amici ordinano un caffè d’orzo mentre sbirciano i titoli dei giornali. “Hei, amico, dammi qualche spicciolo, dai, almeno per un panino”, mi intima l’extracomunitario, appollaiato all’entrata dei portici come un falco che aspetta il passaggio del cervone. Il mio amico Davide è un musicista dilettante, suona la chitarra. Dunque la conversazione vira sul Festival di Sanremo da poco concluso. “Hai guardato il festival?”. Alla mia risposta affermativa, Davide si meraviglia non poco: “pensavo che uno come te non guardasse certe trasmissioni”. “Davide, ti dico che in tutta sincerità a me piace molto la televisione nazional-popolare. Sono soprattutto attratto dalle derive trash che spesso questa prende. Trasmissioni come quelle di Maria De Filippi per esempio hanno una valenza sociologica niente male, perché ci dicono verso quale abisso di squallore e vuoto mentale sta andando il Paese. O almeno, un certo Paese. E poi, per quanto riguarda Sanremo, a me piace la musica. Quindi cosa c’è di meglio che guardare il festivalone per sfogare il mio razzismo culturale?” . “Ah ah…”, Davide ride ma non sa se scherzo o dico davvero. E in fondo non lo so nemmeno io. “A me è piaciuta molto Malika Ayane e anche Nek. A te?” . “ A me Malika Ayane piace per la voce, ma la sua canzone era inconsistente. Così pure per Nek. Ha scritto canzoni molto migliori di questa”. “E che ne dici dei ragazzi de Il Volo?”. “Per carità, Davide, quelli sono televisione, marketing, al limite musica, ma non arte. Ci avrei scommesso fin dall’inizio che avrebbero vinto loro perché erano tipicamente sanremesi. Andavano sul sicuro puntando, con la loro canzone, su casalinghe e pensionati, cioè lo zoccolo duro del pubblico del festival. Però mi chiedo: come si può cantare una canzone che si intitola “Grande amore”? È aberrante negli anni duemila. E lo è ancora di più, se si pensa che sono ragazzini di vent’anni. Cioè questi, alla loro età, dovrebbero fare rock satanico, sfasciare gli strumenti, attaccare il sistema rappando, non indossare occhiali e smoking e cantare per le mamme. Il loro manager Michele Torpedine è un genio del male!”. “Anche a me fanno cagare, ma i tenorini portano avanti la tradizione melodica del nostro paese”. “ Ma secondo me un conto è conservare la grande tradizione musicale italiana, operazione che i tre ragazzi fanno meritoriamente, un altro è invece scrivere una canzone, oggi, con quegli stilemi. Il recupero della canzone napoletana è cultura, “Grande amore” è anacronistica, furba, falsa, sdolcinata, una chiavica!” . “Vero. Ma non salvi nessuno del Festival allora?”. “ Sì, se proprio devo salvare qualcuno, prendo il duo dei Soliti Idioti, anche se esprimevano, nella loro “Vita d’inferno”, un concetto vecchio quanto il mondo: è meglio non esser mai nati e una volta nati morire nella culla. Lo dicevano già gli antichi greci. Delle nuove proposte, salvo i Kutso (che si pronuncerebbe “cazzo”). Ma in assoluto, la proposta più interessante e innovativa delle cinque serate è stato il chitarrista tenore. Quello che ha suonato Puccini. Come si chiamava?”. “Federico Paciotti” “Lui! L’androgino. Mi è sembrato un mix eccezionale fra tradizione e innovazione. Anche il suo look era super! Ho letto che da ragazzino faceva parte dei “Gazosa”. Beh, è la dimostrazione che gli sbagli si possono sempre recuperare. Ora studia al Conservatorio Santa Cecilia di Roma ed ha un grande avvenire davanti”.
Intanto, viene giù un’acquerugiola subitanea che titilla le teste pelate dei passanti i quali corrono al riparo per paura che, risuonando a vuoto la pioggerella sulle loro zucche, evidenzi come esse siano cave. “Cave canem” è scritto sul cartello della cancellata di un palazzo nobiliare nei pressi di Porta Napoli, mentre ritorno insieme con il mio amico a riprendere l’auto e, con invidiabile finesse, sul Viale degli Studenti, un tamarro lancia imprecazioni a una donna incinta che ha occupato metà corsia con la sua macchina in sosta. Tutto passa e tutto torna. Ho sbrigato solo alcune delle commissioni che mi ero riproposto e Mauro e Piero, che dovevamo incontrare al Fondo Verri, all’ultimo momento ci hanno dato buca. Ma alla radio, mentre ritorniamo in macchina, passano le canzoni di Sanremo: “Dimmi che sei. Che sei il mio unico grande amore!!!”
in “S/Pagine”, 8 marzo 2015