di Gianluca Fedele
Ci sono persone che abbiamo conosciuto già prima di averle incontrate. Magari siamo cresciuti inconsapevoli della loro esistenza – in certi casi ignari perfino della prepotenza con la quale sono entrati a far parte del nostro quotidiano.
Angelo Lupi Tarantino per me si staglia benissimo in questa descrizione poiché da bambino ho convissuto, come tanti altri, con una delle sue grandiose opere: Momenti dall’Ultima Cena . Questa importante tela insiste all’interno del convento della chiesa di San Francesco da Paola a Nardò dove, assieme ai miei coetanei, frequentavo le lezioni di catechismo.
Oggi, per mezzo delle interviste nelle quali continuo a cimentarmi, ho l’occasione di incontrare il suo autore.
Il padrone di casa mi invita già dai primi istanti a curiosare tra quelli che definisce “i miei quadretti”: opere di quasi due metri. Ci sono vasetti di ogni colore, dipinti accatastati, vere e proprie piramidi di libri e poi un paio di cavalletti sui quali si ergono le recenti opere su cui sta lavorando. Ci accomodiamo.
D.:
Ebbene, siamo finalmente insieme all’interno di questo variopinto scrigno.
In apertura vorrei domandarti dove hai maturato la tua passione.
R.:
Potrei affermare che il disegno e la pittura sono stati per me una necessità ancor prima dell’urgenza di nutrirmi e del respirare: ricordo che già all’età di quattro anni sottraevo a mia madre – che era un’insegnante – dei grandi manifesti sul retro bianco dei quali avrei potuto scarabocchiare liberamente. Quei fogli più grandi di me io li riempivo di colori e raffigurazioni particolarmente enigmatiche per i miei anni. Non è quindi solo un modo di esprimermi, la pittura, ma il viscerale bisogno di espellere universi che stazionano nel mio intimo invadendolo; essi nascono chissà dove ed esistono a prescindere dalla razionale volontà.
Giunto ora alla mia non più giovane età devo riconoscere alla modesta arte che produco il pregio di aver mantenuto perlomeno quella sincerità.
D.:
Quando non è sincera, l’arte?
R.:
Di certo, ad esempio, quando è commissionata subisce una forzatura. L’arte è una pulsione che nasce dall’intimo, non è concepita per piacere a ogni costo poiché non tutto ciò che avremmo da dire potrebbe piacere ai nostri interlocutori. Talvolta mi è capitato di pensare, ad esempio, agli inquilini delle grotte di Altamira, di trentamila anni fa, e all’innata volontà di raffigurare il paesaggio che li circondava, se stessi, la vita e la morte insomma anche solo con impronte di mani sporche di carbone soffiato. Non sapremo mai se cantavano ma della loro propensione alla rappresentazione grafica abbiamo prove tangibili e meravigliose. Ciò che è altrettanto certo è che non vi era nessuno lì, in quelle cavità buie, a suggerire loro cosa fare.
D.:
Credi che i galleristi oggi rappresentino quella forzatura?
R.:
La realtà è che il sistema delle gallerie, pur essendo stato concepito su premesse intellettuali e culturali più nobili, nell’Ottocento parigino, attualmente è finalizzato quasi esclusivamente al mero scopo di lucro. In Italia, poi, dal dopoguerra ad oggi, non è un segreto che la qualità abbia lasciato il posto alla quantità.
Poi esistono le eccezioni anche da noi e sono quelle ad aver fatto conoscere tanti artisti veri e tante cose serie. Il primo aspetto però l’ho appurato personalmente: mi è capitato infatti, agli esordi, intorno agli anni ’70, di avere a che fare con mercanti d’arte che esigevano da me una produzione di quadri elevatissima – stiamo parlando di circa sessanta tele al mese – pur non intendendo, talvolta, neppure il messaggio in essi contenuto. Fu lì che compresi come la grande bellezza del dipingere risieda nel poterlo fare liberamente, coi propri tempi e prima di tutto per sé stessi.
In questo posso dire di avere avuto fortuna e tanto coraggio unito all’incoscienza.
D.:
Durante questi anni così pieni quali sono stati gli artisti che hanno maggiormente influenzato la tecnica maturando lo stile del pittore Lupi Tarantino?
R.:
Direi che partendo da Giotto e arrivando al ‘600 ho preso in prestito tutto quello che ho potuto, senza però mai copiare da nessuno. Potrei fare nomi eccelsi ma in realtà sono attratto molto di più da tutti quegli artisti minori che hanno contribuito, con la loro ricerca, a creare il tessuto così fecondo di quell’epoca sulla quale poi sono emersi gli iceberg immensi che tutti conosciamo.
Mi ha sempre appassionato quel genere di arte che si formava all’interno delle botteghe del ‘300, dai Primitivi toscani in poi; luoghi dove nonostante fosse essenziale la fatica delle mani e il sudore della fronte si cercava comunque di mantenere la misura dell’uomo. In più, come è ovvio, tutto fino alle avanguardie storiche.
D.:
C’è un filone stilistico nel quale ti riconosci?
R.:
Francamente no. Duccio Trombadori di me disse che negli anni ’70 facevo il post-moderno qui nel meridione, isolato, senza saperlo e senza che nessuno mi conoscesse.
Ora potrei ritenermi forse un figurativo ma anche lì si aprono decine di sottocategorie (neo figurativo, vetero figurativo, post figurativo) che onestamente ho anche difficoltà a comprendere. Ciò che realizzo è talmente complesso, dal punto di vista tecnico e stilistico, da farmi indugiare sull’effettiva sua natura. E poi, di certo, questa è l’ultima delle mie preoccupazioni perché, piuttosto, il mio sguardo si apre sull’abisso della rappresentazione del “nulla fatto con mezzi intellettuali e materiali del niente” che è gran parte di quella che chiamiamo Arte; il vero mio stupore è nel fascino che emana questo vuoto e che mi appare inquietante.
D.:
Mi pare di capire che per te gli artisti dovrebbero sentirsi liberi di spaziare negli stili senza essere necessariamente vincolati a un contenitore.
R.:
Liberi di spaziare, certo, ma sicuramente vincolati a un rigore morale e tecnico che garantisca il rispetto stilistico profondo, non apparente; Michelangelo, quello della Pietà Rondanini, fu più moderno di tanta modernità che senza lui non sarebbe esistita, e più classico di grandi scultori greci; soprattutto fu corretto nello stile, stile che gli veniva dal naturale indebolimento dei suoi sensi unito alla irraggiungibile esplosione del suo pensiero e della sua anima.
D.:
Per prepararmi al nostro incontro ho fatto una breve ricerca attraverso il blog angelolupitarantino.blogspot.it e sono rimasto impressionato dalle numerose esperienze accumulate nel corso degli anni. Quali sono i passaggi più significativi della tua carriera?
R.:
Tutto ciò che ho fatto ha forgiato il mio essere e di riflesso la mia umile arte ma certamente città come Lugano, Milano e Roma custodiscono i miei ricordi più appassionanti.
Venticinquenne mi ritrovai in Svizzera, terminato il liceo artistico, per dipingere e allestire una mostra ma le serate più interessanti le vivevo seduto al tavolino del “Bar Pedrini” dove qualcuno sostiene, peraltro, che Pietro Gori abbia scritto la famosa canzone “Addio Lugano bella” (n.d.r.). Sapere che in quel posto si fossero incontrati rivoluzionari della portata di Lenin dava alla permanenza fuorisede un sapore agrodolce, per me che mi sono sempre ritenuto libero da posizioni ideali acritiche a meno che non fossero quelle di una umanità formata sulle radici della nostra cultura e della fede.
Ricordo che lì vendetti tre quadri e il ricavato mi permise di soggiornarvi per circa un anno.
A Milano invece ci arrivai per una casualità: una sera andai con amici al Teatro alla Scala per vedere “Peter Grimes” di Benjamin Britten; affascinato dallo spettacolo, dalle scenografie, dal canto e dalla musica – in breve: dalla magia della Scala – partecipai a una selezione e mi trovai a dipingere scene, a formare sculture false che diventavano vive in scena. Tra tanti e bravi professionisti ebbe inizio una delle esperienze maggiormente formative: saltavo dai laboratori di scenografia alla miniera passando per l’allestimento della mostra del bicentenario a Palazzo Reale. In quello stesso periodo conobbi Renato Guttuso e per lui curai, in palcoscenico, i particolari dell’allestimento dell’opera “La forza del destino”.
D.:
Hai fatto riferimento anche a una esperienza romana importante, giusto?
R.:
Si. Molto semplicemente un amico nel 2003 mi consentì di esporre i dipinti a Teatro dell’Opera in concomitanza con l’allestimento di “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai.
Mi prestai ben volentieri ricordando d’essere cresciuto – ancor prima dell’avvento della maledetta televisione – con mia madre che la sera leggeva a noi familiari riuniti la Divina Commedia.
D.:
Cosa mi racconti del dipinto “Momenti dall’Ultima Cena”?
R.:
È una tela delle dimensioni di metri 6 x 3 che nel 1975 un amico, Luigi Ruggeri, accollandosi le spese mi consentì di dipingere. Fu per me motivo d’orgoglio creare, in quel luogo così ricco di storia, un’opera sacra destinata a rimanere lì per lungo tempo; se non altro perché la porta della sala in cui è esposta è alta poco più di due metri e dislocarla vorrebbe dire spaccare le pareti.
Poco nota in verità, tant’è vero che un conoscente recentemente mi ha invitato a visitarla sostenendo che fosse un quadro di dubbia paternità.
Il motivo di questa scarsa conoscenza potrebbe risiedere nella inadeguata comprensione dell’opera anche da parte di qualche ecclesiastico.
D.:
Le ragioni della fede hanno influenzato la produzione artistica?
R.:
Per ciò che mi riguarda non dipingerei quello che dipingo se non fosse stata così presente e non mi avesse formato fino in fondo con tutti i limiti spaventosi che ho.
D.:
Quali sono ora le tematiche che ti spingono a dipingere?
R.:
Dal 2003 lavoro costantemente su tre fronti: la caduta, il paradiso perduto, e corpi di donna.
Quest’ultimo filone l’ho intrapreso perché con esso sognavo di tirarmi fuori dalla gabbia dei primi due ma mi accorgo che è stato inutile dal momento che ancora oggi mi ritrovo a produrli, ad approfondirli.
Dopotutto, benché durante l’ideazione le opere debbano inevitabilmente essere sottoposte al setaccio della fredda conoscenza, la loro genesi è imprescindibile dall’inconscio e dall’anima tanto da ritrovarmi spesso a dipingere bozzetti della crocifissione con la quale termino la mia visione del Paradise Lost, dei miei vulcani e dei corpi di donna.
D.:
Queste creazioni sono chiaramente impegnative, perlomeno dal punto di vista concettuale. Il territorio come le accoglie?
R.:
Di sicuro i miei quadri non potrebbero essere venduti come complementi d’arredo. Solo un altro folle potrebbe mettersi in casa Satana, per esempio. Di tanto in tanto, qualora qualche sprovveduto abbia preteso da me immagini più ordinarie e commerciali, mi sono preso il gusto di invitarlo a procurarsi un poster piuttosto che un mio dipinto.
L’arte, per tanti uomini, in termini spiccioli non serve a un tubo; l’uomo può sopravvivere benissimo senza. Ma, per l’appunto, di sopravvivenza stiamo parlando, ai limiti del bestiale.
La vita è ben altra cosa ed è ricca di emozioni che solo la raffinatezza dell’arte sa esprimere con tanta potenza. Questo aspetto qualcuno sta cominciando a capirlo; però, come per tutte le cose che riguardano l’uomo, con calma, molta calma.
Caro Angelo, specchio della nostra fervida ambigua neretinità, rimani il misterioso illuminato segugio di sempre, vagolante tra forme feminanti e tauromatiche, umanissimi colori materiati e divinanti, barlumi e baleni tra fuoco, buio e luce.