di Armando Polito
Era tra i principali ferri del mestiere del calzolaio e del ciabattino, sempre a portata di mano sul suo deschetto. Oggi fa mostra di sé in qualche museo di archeologia artigianale e il ricordo stesso della parola è destinato ad affievolirsi nel trapasso generazionale. La voce italiana subbia sopravvive ancora ad indicare uno scalpello a punta piramidale, quadrangolare o conica, adoperato dallo scalpellino per sgrossare le pietre, distaccandone scaglie abbastanza voluminose.
Sùbbia è dal latino sùbula(m)=lesina, scalpelletto, a sua volta da sùere=cucire, come fàbula=racconto da fari=parlare. Subbia suppone un passaggio intermedio con sincope [*subla(m)], come nebbia deriva da nèbula(m) attraverso *nebla(m). Nel neretino ssugghia, a parte la geminazione espressiva di s-, l’originario gruppo -b(u)l- si è sviluppato normalmente in –gghi-, come a nebbia corrisponde nègghia.
Anche il sinonimo lèsina (probabilmente dal gotico alisna con errata discrezione dell’articolo) è condannato allo stesso destino di sùbbia, ma, almeno fino ad ora, ha il piacere di vedere ancora in vita, cioè in uso, il verbo derivato lesinare usato nel significato di risparmiare quanto più è possibile.
È difficile immaginare che ieri, come oggi, un artigiano, per quanto bravo, navigasse nell’oro; è altrettanto difficile, però, intravvedere un qualche rapporto tra la sua situazione e il verbo appena messo in campo, che sembra concettualmente sconfinare nella taccagneria. Infatti tutto nasce da Della famosissima Compagnia della lesina, un libro di grandissimo successo, come dimostrano le edizioni succedutesi in poco meno di un secolo:
Eredi di Perin libraro, Milano, 1589
Colaldi e Aquilini, Orvieto, 1598
Bordone & Tradate, Milano, 1599
Barezzi & C., Venezia, 1600
Colaldi, Orvieto, 1600
Cislagho, Milano, 1601
Fratelli De Cavalleris, Torino, 1601
Alberti, Venezia, 1603
Spineda, Venezia, 1610
Spineda, Venezia, 1613
Bonfadino, Venezia, 1619
Fratelli Imberti, Venezia, 1627
Baglioni, Venezia, 1647 e 1664
Armanni, Venezia, 1666
Brigonci, Venezia, 1666
Curti, Venezia, 1677
Indrich, Venezia, 1693
Protagonista del libro è una compagnia di avari che aveva assunto come proprio simbolo la lesina perché, tra le altre spilorcerie, aveva l’abitudine di ripararsi le scarpe da sé.
Nell’immagine che segue il collage dei frontespizi di alcune edizioni.
Addirittura la fama del libro varcò i confini nazionali, come dimostra il frontespizio di un’edizione francese del 1618; e quel traduction nouvelle de l’Italien (in cui nouvelle potrebbe anche indurre a tradurre non recente ma ultima traduzione dall’italiano) fa pensare ad una diffusione all’estero anteriore a tale data.
Da notare il motto della marca tipografica OMNIA VINCIT SUBULA. Non so quanto sia voluta l’equivocità di vincit che in latino può essere terza persona singolare del presente indicativo attivo di vìncere=vincere ma anche di vincìre=legare. Certamente l’uso del verbo vìncere, molto diffuso nelle marche tipografiche e il celeberrimo omnia vincit amor (Virgilio, Bucoliche, X, 69) spingono a privilegiare l’amara traduzione La lesina vince ogni cosa [cioè la taccagneria soffoca lo sviluppo della conoscenza, dell’arte e del valore, simboleggiati, rispettivamente, dal mappamondo e dai libri, dal liuto e dalle armi; è difficile, infatti, immaginare che scienziati, artisti ed eroi siano accomunati dalla taccagneria e che il motto vada, perciò inteso, ancor più amaramente, come La lesina unisce ogni cosa].
E, chiusura altrettanto amara, come faccio, in tempi in cui l’ombelico rischia di unirsi alla spina dorsale, a non pensare alla locuzione stringere la cinghia? La morte delle parole, come quella di chi mi è caro, mi riempie di tristezza. Torneremo ad usare la ssùgghia per fare un ulteriore buco alla nostra cinghia? Non era, però, questo il tipo di sua riesumazione che avevo in mente quando ho cominciato a scrivere queste poche righe …
E se la scomparsa di questa parola fa tristezza a lei, immagini quanta ne faccia a me. Mio nonno era un ciabattino e dunque aduso ad utilizzare questi strumenti, come la ssùgghia. Mio padre, da artigiano è diventato imprenditore e titolare di un calzaturificio che io stesso ho diretto fino a qualche anno fa. All’interno, nel reparto modelleria, si faceva taglio, orlatura e montaggio. Io, dunque, rappresentavo (non sfugga il tempo del verbo usato) la terza generazione, nella mia famiglia, nel settore calzaturiero. Purtroppo la concorrenza dei paesi a più basso costo di mano d’opera (India e Cina) ci ha costretti prima ad un brusco rallentamento e poi alla chiusura dell’attività. Ma la ssùgghia, insieme a tanti altri “ferri del mestiere” rimane, oggi che faccio un altro lavoro, prezioso giacimento memoriale, e lo rimarrà sempre.