di Paolo Vincenti
(“La bella lavanderina che lava i fazzoletti per i poveretti della città ” – Tradizionale )
Da qualche tempo, il fenomeno delle lavanderie a gettoni si è allargato e dal Nord Italia ha preso piede anche qui da noi al Sud. Non c’è paese che non abbia almeno una lavanderia self service. Dici bubble wash e pensi all’America, naturalmente. Tutti ricordano quel famoso spot della Levis trasmesso negli anni Ottanta, in cui il modello Nick Kamen entrava in una lavanderia a gettoni e, sotto lo sguardo stupito e imbarazzato dei presenti, si spogliava e metteva a lavare i suoi jeans, mentre in sottofondo andavano le note di “I heard it through the grapevine” di Marvin Gaye. All’epoca le lavanderie a gettoni non esistevano ancora qui da noi ma esistevano già le lavanderie industriali. E dire lavanderie industriali, per uno che è cresciuto davanti alla tv negli anni Ottanta, riporta subito alla mente un nome: quello di George Jefferson. La serie “I Jefferson”, trasmessa dalle tv della Fininvest, era molto seguita e riscuoteva un enorme successo di pubblico grazie ai siparietti comici fra il sulfureo e intrattabile George ( star indiscussa della serie) e la governante Florence, con la moglie di lui, Louise-Wizzie, a far da paciera. Esilaranti anche i diverbi fra l’inimitabile George e i vicini di casa, la famiglia bianco nera dei Willis, sui quali l’imprenditore (tipico self made man americano) esercitava la propria pesante ironia, definendoli “zebre” per il fatto che si trattava di un matrimonio misto (un caso dunque di razzismo inverso, esercitato dai neri sui bianchi). Inoltre, per sommo disappunto del vulcanico omino, il figlio Lionel era fidanzato proprio con la figlia dei Willis.
Se volessimo andare alle origini del settore delle lavanderie, troveremmo le lavandaie. Dal Medioevo fino all’Ottocento, non esistevano certo le lavatrici, e quello di lavare i panni era un compito manuale ed un’occupazione esclusivamente femminile. Lungo le rive dei fiumi, dove si incontravano per lavare il bucato, le donnine chiacchieravano allegramente fra di loro oppure si scambiavano informazioni di ogni tipo e molto spesso intrecciavano canti della tradizione popolare. Il lavare infatti è sempre andato molto d’accordo con il cantare. ” E cadenzato dalla gora viene/lo sciabordare delle lavandare/con tonfi spessi e lunghe cantilene” scrive Giovanni Pascoli nella poesia “Lavandare”.Un mestiere duro ed umile ma molto diffuso, e continuò ad esserlo anche quando comparve la prima forma rudimentale di lavatrice meccanizzata nel 1850. Le lavandaie eseguivano il lavoro a domicilio, oppure presso i lavatoi pubblici. Le loro forti mani, sformate dall’artrite, operavano energicamente sull’asse di legno (“lu lavaturu” era chiamato qui da noi) per smacchiare e sbiancare indumenti di ogni tipo. Nel Salento arcaico, le massaie facevano lu cofanu (dal nome del contenitore di creta che conteneva il bucato). Sistemavano nella parte bassa del recipiente le robe bianche e in quella superiore le colorate, separate da uno strato di teli su cui veniva messa la cenere. Con un recipiente più piccolo versavano più volte colate di acqua bollente procedendo a successivi risciacqui, fin quando i panni non ritornavano come nuovi. Dall’acqua di scolo poi, che fuoriusciva da un foro praticato nel cofanu, veniva ricavata la lissìa (lisciva) riutilizzata per lavare gli abiti più scuri e come shampoo per i capelli delle donne. Oggi questa pratica sopravvive solo nei musei delle tradizioni popolari e in alcune messe in scena tenute durante i presepi viventi a Natale. il mestiere delle lavandaie viene rappresentato dall’impressionista Gauguin nelle opere “Lavandaie a Pont-Aven” del 1886 e “Lavandaie al Canal Roubine du Roi” del 1888 e in letteratura da Verga ne “I Malavoglia”. Più o meno nello stesso periodo, anche Zola fa di una lavandaia e stiratrice, l’umile Gervaise, la protagonista del suo romanzo “L’ammazzatoio”. Honoré Daumier dipinge molto realisticamente nel 1863 “La lavandaia”.Ma forse il più bel dipinto che ritrae le dure condizioni di vita di queste lavoratrici è “Il ponte di Langlois” di Van Gogh.
La lavatrice moderna viene inventata in America nel 1906 e introdotta in Italia solo nel 1946. Dunque passa tanta acqua sporca sotto i ponti prima che il progresso della tecnica possa affrancare la massaia da una fatica tostissima. La prima lavatrice che io ricordi a casa mia, fine Anni Settanta, è una Zoppas. Come quasi tutte, si caricava dalla finestrella centrale (pochissime avevano la carica dall’alto), ed era bianca zincata. Essa, insieme al frigorifero e alla cucina Ariston, rappresentava plasticamente il sopraggiunto benessere economico nella mia famiglia. Gli anni Duemila hanno portato enormi trasformazioni sociali, oltre che economiche e politiche. Sono cambiate le abitudini della gente, cambiato il modo di vivere le nostre giornate. L’ultima frontiera del lava e asciuga è la lavanderia self service, che da principio era appannaggio degli studenti universitari fuori sede, dei militari o degli extra comunitari, così massicciamente stanziati nelle nostre città. Ora invece tante famiglie ricorrono alla lavanderia a gettoni, e non solo per il cambio stagionale (piumoni, coperte, giubbotti voluminosi) ma anche per la biancheria, per il cambio di ogni giorno. È il segno dei tempi (si dice sempre così no?). il segno, in semiotica, è l’unione di significato e significante. E se il significato è il contenuto, quello di lavare ed asciugare panni e biancheria, il significante è la forma, dunque le bolle blu delle speedy wash, che diventano addirittura una nuova icona pop (come il gruppo delle dj svedesi Caroline Hjelt e Aino Jawo, quelle che cantano “I love it!”).
Alcune lavanderie a gettone sono veramente spoglie ed essenziali, altre invece sono attrezzate anche per intrattenere i clienti in quel lasso di tempo necessario alla lavatura ed asciugatura dei capi. Ecco dunque, in alcune bubble wash, l’angolo giochi per i bambini, la tv sempre accesa che trasmette i cartoons, o la musica in filodiffusione, altre ancora addirittura posseggono un angolo lettura, dove l’utente può sfogliare il giornale o leggere un testo dalla piccola libreria che è all’interno. Sono sicuro, si finirà per fare delle presentazioni di libri nelle lavanderie self, e alla lunga, anche delle conferenze o dei piccoli raduni e convegni. Diverranno luoghi di ritrovo sociale, o i templi di una nuova popsophia, che qualche giovane e rampante pensatore nipotino di Derrida non tarderà a formulare. Viva le bubble wash, dunque, e viva la filosofia pop!
in “S/pagine”, 18 gennaio 2015