di Armando Polito
Questa volta il titolo è costituito da cinque endecasillabi, ma vi poteva andare peggio, considerando quello chilometrico di tanti testi dei secoli passati. Però, non ho neppure finito di partorirli che già sento il bisogno di controbilanciare ogni loro velleità artistica (!) con i versi di un poeta autentico.
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
(Giacomo Leopardi, Canti, XXVII, 1-9)
Dopo essermi reso ulteriormente conto che questa contrapposizione confonde ancor più il lettore, entro subito in argomento e mi auguro di svilupparlo così bene che alla fine ognuno si rimprovererà di non aver capito tutto da principio. Chi, invece, ha già capito dove andrò a parare, si affretti ad aprire uno studio di chiaroveggenza; vuol dire che, messa da parte la mia totale avversione a maghi, indovini e oroscopisti, diventerò un suo cliente assiduo …
Quando un intellettuale non esperto di un determinato campo della conoscenza (nel nostro caso la filologia) si lascia incantare da un’ipotesi (nel nostro caso di natura etimologica) formulata, tra l’altro in modo sicuro e perentorio, da un altro intellettuale, nemmeno lui esperto in quel campo, solo per asservirla ad un asserto, (in questo caso filosofico) senza sottoporre quell’affermazione a chi ne sa più di lui (nel nostro caso anche qualche vecchio professore di liceo che non sia il sottoscritto), si prepara il terreno per una spaventosa epidemia dell’errore, contro cui è difficile approntare una cura, anzi impossibile, visto che la rete consente la propagazione istantanea e continua della conoscenza e, ahimé, pure delle fesserie, qualunque ne sia la paternità.
Faccio subito nomi e cognomi, anzi, nome e cognome, visto che il suo portatore tirerà immediatamente in ballo l’altro. In Umberto Galimberti (non un Armando Polito qualunque), I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 16 si legge:
Non sto a discutere quanto fondamento abbiano le conclusioni cui Galimberti giunge utilizzando l’etimo del Brown, un filosofo scomparso nel 2002, sul quale per il lettore che ne sente parlare per la prima volta sarà sufficiente il necrologio che troverà in http://archiviostorico.corriere.it/2002/ottobre/05/Norman_Brown_filosofo_che_piaceva_co_0_0210052443.shtml. Né starò a discutere le conclusioni cui lo stesso Brown giunge sfruttando l’etimo da lui partorito. E sull’etimo in sé che voglio concentrare la mia attenzione.
Secondo il Brown amore sarebbe composto dal prefisso greco a– privativo=senza+il latino mors=morte. Alla difficoltà di immaginare questo accoppiamento greco-latino qualcuno potrebbe pensare di ovviare ipotizzando invece l’unione tra la preposizione latina a=lontano da+mors=morte. Quel qualcuno dovrebbe sapere (probabilmente Brawn lo ignorava) che le parole di origine neolatina derivano dall’accusativo della corrispondente voce latina. Ora l’accusativo di mors/mortis è mortem, per cui avremmo dovuto avere, da amortem, amorte e non amore. Quest’ultima voce, invece, deriva da amorem, accusativo di amor/amoris, dalla radice (am-) del verbo amare, come dolore è da dolorem, accusativo di dolor/doloris dalla radice (dol-) del verbo dolère.
L’amore e la morte, in greco Ἔρως καὶ θάνατος (leggi Eros cai Thànatos)1, sono (sensazionale intuizione!) divinità e fenomeni antichissimi e lo sono pure le loro intersezioni, come quella espressa nella vecchia locuzione neretina ti ògghiu tantu bbene ca ti ccitìa (ti voglio tanto bene che ti ammazzerei) e nel proverbio ci no bbuei cu mmuèri ccisu no ffare l’amore cu lli mmaritate (se non vuoi morire ucciso non fare l’amore con le donne sposate), oltre agli esempi concreti che la cronaca di questi ultimi anni premurosamente registra. Se le intersezioni esistono a livello antropologico, non si può, tuttavia, pretendere, per convalidarle, di estenderle anche a livello linguistico ipotizzando, come nel caso di amore, un etimo suggestivo sì, ma scientificamente improponibile.
Per capire quanto ulteriore danno possano provocare i copia-incolla o le attestazioni di stima basate sulla simpatia o sulla fiducia (fenomeno tanto più frequente quando i due attori, l’inventore e il citato, appartengono ad un campo di ricerca, è proprio il nostro caso, diverso da quello al quale pure appartiene il dato utilizzato; è più facile, insomma, trovare d’accordo due filosofi ai quali fa comodo lo stesso dato linguistico, piuttosto che due filologi disposti sempre, e non è certo un male, ad operare sottili distinzioni, che in qualche caso coinvolgono addirittura un singolo fonema), sono costretto a parlare di un fenomeno che, in atto già da tempo, sta proliferando in modo esponenziale perché fa leva sulla vanità umana, cioè sulla presunzione di dover lasciare qualche traccia del nostro passaggio terreno pubblicando qualcosa. Ecco, allora, il businnes delle case editrici che sono pronte a pubblicare qualsiasi schifezza tu abbia partorito a rappresentarti agli occhi degli altri. Puoi scegliere tipo di carta, formato di pagina, colore della copertina e tutti quei dettagli che contribuiscono a rendere più redditizio l’impatto visivo, nonché il numero di copie. Il contenuto, a qualsiasi argomento esso si riferisca, non è una discriminante, se non in rapporto al numero di pagine, cui sarà direttamente proporzionale il costo. Già, perché basta pagare per far sapere anche agli altri ciò che prima sapevano solo i familiari, cioè la nostra presuntuosa stupidità. Certo, bisogna pur dire che rimane ancora un’editoria seria (in grado, cioè di operare un controllo preventivo sulla bontà del prodotto: la censura è un’altra cosa …) sempre più soffocata, però, dall’esigenza, per sopravvivere, di spalancare e poi strizzare l’occhio alle esigenze del mercato e costretta troppo spesso a chiuderlo totalmente di fronte al merito.
Ecco alcuni esempi, con riferimenti concreti al tema di oggi. Mi è sembrato avvilente, pure per me stesso, commentarli, tant’è che, anche per non sprecare tempo, li riporto in formato immagine.
Maria Grazia Lopardi, La divina commedia e il simbolo nascosto, Il cammino alchemico dal caos all’armonia, Youcanprint Selph-Publishing, Tricase, 20072 (senza numerazione delle pagine):
Grazia Romei, Coppia con la mente e con il cuore, Wide edizioni, Milano, 2011, p. 403:
Ervin Lazslo, Pier Mario Biavia, Il senso ritrovato, Springer, Milano, 2013, p. XX4:
L’etimo del Brown oltre che sulla carta stampata non poteva certo mancare anche in questo o quel blog. Anche qui pochi esempi:
http://forum.sciamanesimo.org/viewtopic.php?t=439
Ah, l’Amore! Mi affascinò la traduzione lessicale della parola amore: dal latino a-mors. “a”: particella privativa e “mors”: morte. Senza morte…
La parola è composta dalla A che è un alfa privativo greco, cioè un suffisso che nega la parola che segue, come morale/amorale seguito da MORS che significa morte. Significa sconfiggere la morte. L’amore è l’unica energia in grado di farlo perché da la vita, quindi non siamo noi a creare l’amore.. ma l’amore a creare noi.. e solo amando si è realmente VIVI – Dario Roselli
https://giuseppemerlino.wordpress.com/2010/10/20/lesoterismo-di-dante/
D’altra parte la parola latina Amor (Amore) è l’antitetico della parola Mors (Morte): a-mors (alfa privativa) ed entrambe le parole derivano dalle analoghe parole in sanscrito, la lingua originaria degli Indoariani.
https://www.facebook.com/onceuponatimetherewaslove/posts/414166095360801
“La parola “amore” deriva dal latino “a-mors”. Alpha privativo e “mors” morte. Letteralmente significa “senza morte”. Qualcosa che non muore mai.” cit.
http://www.agionline.org/gullilibero/index.php?topic=2551.55;wap2
a = alfa privativo (derivazione sicuramente greca). mors = dal latino mors,mortis (e cioè morte, infelicità). Pensare che la parola Amore sia un misto di greco e latino è una cosa affascinante… questa l’ipotesi etimologica della mia “stravagante” prof.ssa di italiano e latino, Annamaria Zizza.
http://minipedia11.altervista.org/interessi.htm
La parola “amore” è composta dalla A che è un alfa privativo greco, cioè un suffisso [sic!] che nega la parola che segue, MORS che significa morte. Significa sconfiggere la morte.
http://www.associazioneanthea.it/blog/?id=l1gr4he6
L’etimologia della parola amore deriva dal sanscrito KAMA cioè desiderio, passione, attrazione. E il verbo amare ha proprio questa radice KA da cui (c)amare, desiderare in modo totale, in modo viscerale. Anche il verbo greco MAO traducibile come desiderare è considerato una possibile interpretazione etimologica della parola amore, intesa come un’attrazione totale senza razionalità, mentre l’attrazione razionale, mentale e spirituale era espressa dal verbo DILIGERE. Un’altra interpretazione etimologica di amore scompone questa parola in A MORS: senza morte. Dove A è un alfa privativo greco che nega la parola che segue. Questa interpretazione, quasi certamente la più improbabile è affascinante.
Unico a salvarsi, pur nella sua genericità, mi è sembrato quello che segue e col quale avrei chiuso, per così dire, quasi in bellezza se l’autore avesse chiarito il significato di quel finale anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo, che, così com’è, sembra essere proprio (in linea con l’indirizzo …) un responso oracolare della Pizia …
http://oraculumpythiae.blogspot.it/2014/10/amors.html
Una leggenda metropolitana vuole però che il termine amore derivi proprio da questo sedicente alfa privativo unito al sostantivo mors, la morte; senza morte, dunque. Un’etimologia fantasiosa, palesemente costruita ad hoc, ma non per questo meno affascinante, così come lo è l’indubbia assonanza tra i termini amor e mors, che anche grammaticalmente parlando sembrano essere legati a doppio filo.
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1 Da lì Sigmund Freud trasse la teoria espressa nel 1920 in Jenseits des Lustprinzips.