di Armando Polito
Ci sono parole che in un attimo evocano ricordi dell’infanzia e molte di loro già oggi sono condannate a non essere ereditate dalla memoria dei più giovani. Il consumismo, tutto calato nell’edonismo del presente, ha fatto sì che considerassimo inutile guardare al passato e pensare al futuro, se non di quelli che verranno, almeno al nostro. Eppure, non guasterebbe riflettere ogni tanto, senza le altisonanti teorizzazioni filosofiche o sociologiche che puntualmente dobbiamo sorbirci da parte di tutti i media, tv in primis, ma impiegando solo un pizzico di buon senso, che, poi, è il padre della saggezza e senza vergognarci di trasmettere agli altri le nostre emozioni filtrate dal tempo, noi che non ci facciamo riguardo a pubblicizzare su facebook pure l’amorazzo del momento o l’andata al bagno di qualche istante prima …
È probabile che ciò che dirò distrarrà, ahimé per poco tempo, chi ha più o meno la mia età ed ho solo una fioca speranza che esso susciti nei più giovani una curiosità metodologica, cioè non strettamente connessa con un interesse contingente, che da quello trae il suo alimento momentaneo, sì, ma che, per dirlo in breve, consente con i successivi, nel rispetto dei diritti naturali di ognuno, lo sviluppo corretto della nostra umanità.
Solo un temerario come me poteva affidare questo compito così difficile, quasi disperato, ad un oggetto piccolissimo che credo non venga più fabbricato perché il progresso e il mercato hanno decretato, come per tanti altri suoi compagni di destino, l’inutilità e quindi la morte. Si verifica per loro un fenomeno nel quale ognuno di noi dovrebbe riconoscersi. Come la memoria di ogni essere umano “normale” dopo la sua morte dura sì e no il tempo della generazione successiva (ah, i vecchi comò con la loro bella carrellata dei ritratti degli ascendenti, magari fino alla quinta generazione …) e per riesumarne il nome bisogna recarsi all’anagrafe comunale o, per fare più presto, al cimitero, a patto che la sepoltura sia ad uso perpetuo (?) …, così parecchie voci, non solo dialettali, indicanti oggetti non più in uso, cioè morti, sopravvivono solo in vecchi dizionari o nelle opere letterarie in cui hanno avuto l’onore di essere utilizzate in passi particolarmente significativi. E quest’ultimo dettaglio le accomuna al destino non dei “comuni” mortali ma a quello dei “grandi”, per i quali il Foscolo spese l’idea di un’immortalità tutta laica. Sulla reale o presunta grandezza ci sarebbe, secondo me, da discutere, ma non è questo il tema di oggi, anche se ora parlerò della siminsella che certamente rispetto ad altre varietà della sua specie non brilla per dimensioni, tutt’altro, come dimostra, meglio dell’immagine di testa, quella che segue, in cui essa occupa l’ultimo posto.
La siminsella era un chiodo molto piccolo utilizzato dai calzolai nel processo di fabbricazione o di riparazione di una scarpa. Oggi c’è chi butta nella spazzatura un paio di scarpe praticamente nuovo e poi, magari, si reca in chiesa a partecipare alla messa dopo aver calzato il paio comprato il giorno prima … ah, se i finanzieri si appostassero presso i cassonetti e solo dopo accurate indagini consentissero ai poveri cristi di rovistarne il contenuto!
Negli anni della mia infanzia al bambino, che pure aveva un ruolo privilegiato, veniva comprato un paio di scarpe eccedenti di una o due misure (o numeri) perché esse sarebbero dovute durare almeno due anni. Nelle famiglie numerose, poi, c’era un ininterrotto passaggio di scarpe (e non solo di quelle; nemmeno le mutande erano indenni) dal fratello più grande al più piccolo e si comprende come questo oggetto tanto importante da diventare un’eredità, per quanto indesiderata, degli ultimi arrivati, dovesse per forza essere sottoposto ad un certo numero di interventi di restauro da parte del ciabattino. E in questo la siminsella aveva un ruolo fondamentale nella sostituzione della metà anteriore della suola (minzettu), che era la più soggetta ad usura, o della parte terminale del tacco (sobbrataccu).
Ho ancora davanti ai miei occhi di bambino l’immagine del signor Marzano che aveva la sua bottega in via Giacomo Matteotti, quando il cliente veniva accompagnato nel retrobottega e le sue richieste venivano ascoltate dal ciabattino che senza perdere un solo istante si era già rimesso a lavorare al suo deschetto su cui campeggiava, in una disposizione che quasiasi profano avrebbe giudicato confusionaria (mentre digito questa parola lancio, chissà perché, un fugace sguardo d’insieme alla mia scrivania …) una miriade di attrezzi del mestiere.
In quel piccolo ambiente, pervaso dall’odore di cuoio, colla e vernici, lo guardavo incantato, come si guarda un prestidigitatore, nell’atto di mettersi in bocca una manciata di siminselle e poi, con movimenti rapidissimi, estrarne una alla volta con la sinistra e, dopo averla leggermente infilzata al punto giusto, dare con la destra un solo ma decisivo colpo di martello per fissarla …
Mi chiedevo perché mai lui sì poteva correre il rischio di ingoiarne una (oggi posso dire di credere che non gli sia mai successo …) mentre a me era precluso pure da genitori forse un po’ troppo apprensivi (ma si era verificato più di un tragico caso …) di giocare con un palloncino per il rischio che nell’operazione di gonfiaggio e sgonfiaggio lo fagocitassi con le conseguenze facilmente immaginabili.
Se le due parole dialettali prima ricordate per indicare i due dettagli della scarpa fisiologicamente più soggetti al restauro (per l’abilità di certi artigiani, compreso il signor Marzano, mi pare riduttivo parlare di riparazione) non hanno bisogno di alcun commento pensando al loro teorico corrispondente italiano (rispettivamente sovrattacco e mezzetto), per siminsella voglio spendere qualche parola in più.
La voce trova, come il napoletano semmenzella1, il suo corrispondente formale nell’italiano obsoleto semenzella, diminutivo di semenza, che è dal latino medioevale sementia(m), dal classico sementis, variante di semen, a sua volta dalla radice sa/se del verbo sero/seris/sevi/satum/sèrere=seminare.
Tra siminzella e semenzella ho parlato di corrispondenza formale perché, mentre la voce salentina designa solo il chiodino da calzolaio, quella italiana era usata, insieme con la variante sementella come sinonimo di santonina, polvere vermifuga estratta dal fiore del santonico.
Mi servirò ora dell’immagine e non della trascrizione della fonte per rendere più agevole e rapida a me la fedele documentazione e più diretta al lettore la fruizione.
Semenzella appare pure come traslato nel significato di piccola creatura destinata a produrre essa stessa in Panormitana beatificationis et canonitationis venerandi servi Dei Aloysii La Nuza, Tipografia della reverenda Camera apostolica, Roma, 1756, p. 203:
come una varietà di grano nella zona di Catania (chissà se almeno i locali ne conservano il ricordo …):
come voce tecnico-militare (anche nella variante sementella oltre che nella forma seminella):
Il lettore ormai spossato si starà chiedendo: – Ma questo, quando la finisce? -. Lo accontento subito, dopo, non la pubblicità …, aver ricordato il simpaticissimo detto napoletano Quannu nu’ ssai fa’ ‘o scarparo nu’ rrompere ‘o cazz e semmenzelle (Quando non sai fare il ciabattino non rompere il cazzo ai chiodini).
Se il detto al momento potrebbe riguardare me … non v’è dubbio che la precedenza (e la do volentieri) spetta ai tanti politici, e loro manutengoli, disonesti, anche se, per come siamo combinati, l’utilizzo di questo cataplasmo, previa applicazione di un potentissimo apparecchio acustico a questi signori (?) abituati, soprattutto per colpa nostra, a fare orecchio da mercante, dovrebbe durare qualche decennio …
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1 In Dante assume il significato traslato di stirpe: Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza (Inferno, XXVI, 18-20).
2 Nel napoletano semmenzella e semmentella (quest’ultimo diminutivo di semente) sono usati nello stesso significato della voce salentina (chiodino da calzolaio) ma anche come sinonimo di santonina (vedi il citato semenzella); in quest’ultimo significato in una testimonianza letteraria antica (XVI-XVII secolo) compare sementella (che credo italianizzazione di semmentella dovuta ai copisti):
A riprova, infine, dell’origine tutta meridionale della voce ricordo il siciliano simintedda:
Siminsella… Il calzolaio (ciabattino) con la bocca piena di chiodini… Ricordi anche miei, nella fattispecie il calzolaio del mio paese era un omino piccolo, quando si alzava dal deschetto si faticava a capire che era in piedi. E quei chiodini… che si chiamavano in dialetto “smensete” semenzine, appunto. In realtà ce n’erano due ciabattini, l’altro si trasferì “in città”, lui però non lo disse mai, era muto. A parlare per lui la biondissima moglie. Accidenti però, se negli anni ’60 un neritino veniva a Solero (ameno paesino in provincia di Alessandria) con ciabattino non muto si intendeva al volo. Anche se, debbo dirlo, uno era muto e l’altro parlava solo quando aveva qualcosa da dire, cioè raramente, soprattutto non rideva mai! E ricordo l’odore di fumo della stufa a legna nel laboratorio, ma questi co porterebbe lontani dalla siminsella (smenseta).
Anche in questo caso ci troviamo quasi parenti. Anche in piemontese c’è la parola “smens” per denominare “i chiodini” che potevano essere quelli del calzolaio, ma anche quelli del tappezziere. Naturalmente “smens” significa anche “semente”. e “sëmné” seminare: Mentre la “santonina” in piemontese si chiama proprio “smensëtta”. Qui, a Torino, i calzolai stanno nuovamente riprendendo piede (mi sembra adatta questa formulazione); la cosa mi fa piacere.