di Armando Polito
Si dice che il numero fa la forza ma riconosciamo pure che non sempre la quantità si coniuga felicemente con la qualità. Lascio, perciò, ai diretti interessati, ai Minervinesi, l’applicazione di quello che più fa loro comodo dei due principi appena enunciati, anche se la scelta può sembrare scontata, tenendo conto che il numero degli abitanti al 31 dicembre 2013 risultava essere (traggo il dato da http://demo.istat.it/bilmens2013gen/index.html) 3717, di cui 1997 femmine e 1720 maschi. Un piccolo (in quest’aggettivo non è da cogliere, almeno da parte mia, nemmeno l’ombra di una sfumatura negativa, anzi …) centro, dunque, ma cinque secoli fa le cose dovevano stare diversamente se l’architrave del portale laterale della Chiesa di San Pietro reca l’epigrafe visibile nella foto di Michele Bonfrate, tratta da facebook.
Dico subito che non si tratta di un capolavoro di scrittura epigrafica. Ecco cosa appare tracciato:
co mo Lu Li o ne etIO re de ll a
nimali · cu si me ner bi noe tl o
re de li ca sa li · a · d · m · CCCC · LXXIII ·
regn(ante?) o (?) Rey(?)fer di nan doS ·
Così, invece, dovrebbe essere letto:
como lu lione eti o re dell’a-
nimali cusì Menerbino eti lo
re de li casali a(nno) D(omini) MCCCCLXXIII
regn(ante?) o (?) Rey (?) FerdinandoS(?)
In italiano corrente sarebbe: Come il leone è il re degli animali, così Minervino è il re dei casali. Nell’anno del Signore 1473. Regnante (?) il re (?) Ferdinando S(?)
E tutti i punti interrogativi dell’ultima linea? Non è che i dubbi relativi allo scioglimento delle abbreviazioni siano stati definitivamente fugati (l’ultima parola potrebbe essere Ferdinandos, una sorta di correzione popolare spagnoleggiante parallela al precedente rey), ma la data che è inequivocabilmente 1473 mi suggerisce che il Ferdinando nominato nell’epigrafe non può essere che Ferdinando I d’Aragona, alias Ferrante, re di Napoli dal 1458 al 1494.
La fabbrica merlata che si vede al centro simboleggia il casale e la sua importanza rispetto agli altri ma potrebbe alludere a qualche opera di difesa sponzorizzata dal sovrano (contro gli assalti dei Turchi?). Di più difficile interpretazione, almeno per me, sono le quattro chiavi disposte in due coppie a formare due croci di S. Andrea. Una volta escluso qualsiasi riferimento di carattere religioso (negli stemmi papali sono due) dovrei pensare ad un significato laico: quasi una consegna simbolica della città nelle mani del sovrano? E perché due coppie?
Non è finita, perché nella seconda chiave della seconda coppia la parte che entra nella toppa è in posizione opposta rispetto alla stessa parte della seconda chiave della prima coppia: tale dettaglio ha un qualche significato oppure, come credo, lo spostamento si è reso necessario per lasciare spazio alle tre lettere sottostanti?
Ciò che è indiscutibile, comunque, nell’epigrafe è il suo piglio decisamente campanilistico e la sua doppia importanza storica dal momento che costituisce uno dei rari esempi di volgare in terra salentina. Metricamente l’epigrafe può essere considerata un distico in cui ognuno dei due versi, rimati fra loro (animali/casali), è formato da due settenari. Se li dispongo separatamente vien fuori:
Como lu lione eti
o re dell’animali,
cusì Menerbino eti
o re de li casali
e, oltre alla rima animali/casali vien fuori anche la parola-rima eti.
Ringrazio fin da ora chi, avendo avuto occasione di esaminare l’epigrafe, è arrivato a qualche conclusione o è venuto a conoscenza di qualche studio fatto al riguardo e vorrà cortesemente rendercene partecipi.
Chiudo intanto con qualche immagine relativa a quello che dovrebbe essere, salvo clamorose svolte, il protagonista dell’epigrafe: il re Ferrante.
L’immagine è tratta da Armand Adolph Messer, Le codice aragonese, Champion, Parigi, 1912. Nella didascalia si dice che è il disegno del busto in bronzo attribuito a Guido Mazzoni (1450-1518) e custodito nel Museo Nazionale di Napoli (immagine successiva).
I tratti somatici sono confermati dai documenti numismatici. Mi limiterò a due monete.
Coronato coniato dal 1472 al 1488 circa; al dritto il busto del sovrano con il motto CORONATUS Q(UI)A LEGITIME CERT(AVI)=coronato poiché legittimamente combattei; al rovescio la croce potenziata e la legenda FERDINANDUS D(EI) G(RATIA) R(EX) SICI(LIAE) IE(RUSALEM) U(NGARIAE)=Ferdinando per grazia di Dio re di Sicilia, Gerusalemme, Ungheria.
Ducato coniato nello stesso periodo del precedente coronato. Al dritto il busto del sovrano con il motto RECORDAT MISERICORDIE S(UAE)=si ricorda della sua misericordia; al rovescio stemma coronato quadripartito palato al 2° e al 3° con legenda, già vista nel precedente esemplare, FERDINANDUS D(EI) G(RATIA) R(EX) SI(CILIAE) IE(RUSALEM) U(NGARIAE).
Curiosa è la rappresentazione dello stemma che appare specularmente invertito nel foglio 12r di un’edizione manoscritta della traduzione del Panegirico di Traiano di Plinio il giovane dedicata a Ferrante da Lippo Brandolini (1454 circa-1497) e custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (Dipartimento dei manoscritti italiani, manoscritto n. 616), integralmente leggibile e scaricabile al link
http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8433304h/f33.item
da cui ho tratto l’immagine che segue.
Ritornando per l’ultima volta, almeno in questo post, alla nostra epigrafe, come faccio a non sospettare un suo collegamento con il nomignolo che i Minervinesi si portano appresso da chissà quanto tempo: cappiddhuzzi (cappellucci)? Come tutti i nomignoli di questo tipo, appioppati dagli abitanti dei centri vicini, ha una valenza dispregiativa e vuole stigmatizzare l’eccessiva importanza che i Minervinesi attribuivano al loro territorio ed a se stessi. E il cappello (cappièddhu, di cui cappiddhuzzu è diminutivo), copricapo nobile rispetto alla coppola (còppula), diventa l’emblema del sarcasmo, per giunta aggravato dal diminutivo. Poi, siccome la cattiveria popolare non ha limiti, fu fatta circolare una seconda versione che più che di boria tacciava i Minervinesi di stupidità: una volta sarebbe giunto a Minervino un venditore di cappelli che avrebbe convinto gli abitanti a consegnargli i loro cappelli vecchi con la promessa che con una spesa irrisoria li avrebbe rimessi a nuovo. A chi gli rimproverava di ritardare la restituzione affermava di avere pazienza finché non li avesse raccolti tutti, tanto li avrebbe rimessi a nuovo tutti insieme in pochissimo tempo. Non appena a Minervino non rimase neppure un cappello da rimettere a nuovo, il cappellaio sparì …
(pubblicato su Il Delfino e la Mezzaluna n°3-2014)
mi sono occupato del restauro del portale nel 2009, l’epigrafe era in condizioni disastrose. analizzando la pietra ci siamo accorti che, pur trattandosi sempre di pietra leccese, l’epigrafe ed il portale sono stati realizzati con pietre diverse(provenienti da cave diverse) infatti il portale è settecentesco, coevo alla chiesa, mentre l’epigrafe più antica proviene sicuramente da un edificio preesistente e reimpiegata nel nuovo.Scrive infatti Cosimo De Giorgi che esisteva un castello, nell’area antistante la chiesa di S.Pietro( lui ne vede ancora i ruderi) sicuramente l’epigrafe era collocata li.
Jacopo da Volterra riferisce dell’assedio turco a Minervino nel 1480 e del successivo sterminio della popolazione. In quell’area esisteva certamente una fortificazione e forse quella lapide incisa è effettivamente l’unico elemento superstite
La suddetta epigrafe su Minervino compare anche sul libro “Il dialetto Leccese” di Antonio Garrisi (disponibile online su http://www.antoniogarrisiopere.it/ ) e segnalata come il più remoto documento tipico dell’idioma popolare leccese.
Saluti