di Paolo Vincenti
Che si scriva per rabbia o per amore, si scrive, che si scriva per colmare un vuoto, per una mancanza o per un empito, per un eccesso di vita, si scrive. Che si scriva per fare i conti con i propri demoni, si scrive; oppure si dipinge, come fa la protagonista di “La pittora dei demoni” (2014), ultima prova narrativa di Antonio Errico, per Manni Editore. Ambientato nel Seicento, fra Napoli e altre località non meglio precisate dell’Italia meridionale, questo romanzo affronta un periodo caratterizzato da grande fermento artistico, attraverso le cupe e tormentate vicende dei suoi personaggi. Una pittrice e un violinista: vite parallele seminate di luci e ombre, inseguite da rimorsi, tallonate da colpe. Due vite parallele, di amore e morte, che ne sussumono altre, nell’ampia orchestrazione creata dall’autore, che è anche raffinato intellettuale, saggista, dirigente scolastico. Due vite, quelle dei due artisti , destinate a correre come due rette parallele senza incrociarsi mai, se non intervenisse invece il fato, l’elemento insaputo, l’arcano, a sconvolgerle e renderle perpendicolari. La scrittura di Antonio Errico scorre piana, circolare, e anche stavolta il senso di questo romanzo è negli aggettivi, nei sinonimi e nei contrari, e soprattutto negli spazi bianchi fra una parola e l’altra, tra una frase e l’altra. Anche stavolta si tratta di un libro che si impone all’attenzione non solo per la sua resa artistica ma anche per la sua proposta originale nell’indagine psicologica così attenta a cogliere ogni emozione dei suoi personaggi, ogni sussulto, ogni momento rivelatore della coscienza.
Il genere letterario nel quale si colloca il libro infatti è quello del romanzo psicologico, nato agli inizi del Novecento in seguito agli studi di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. Da Svevo a Pirandello, il punto di forza di questa forma di romanzo è lo scandaglio interiore, l’attenzione ai moti dell’animo dei personaggi che si muovono sulla scena, alle loro pulsioni, alla loro vita interiore. Così nei romanzi di Errico la narrazione si frantuma, si disgrega in una sorta di flusso di coscienza ininterrotto, alla Joyce. La descrizione del mondo esterno, se c’è, non è mai oggettiva, ma sempre filtrata dalla sensibilità di chi lo guarda. E’, la sua, una narrazione di odori, colori, pensieri, memorie, riflessi, fortemente impressionista. Non una scrittura di cose, insomma, ma di sensazioni. Questa tecnica narrativa si serve del monologo interiore, diventa sospesa, rarefatta , onirica, vagamente metafisica.
Una grandiosa impalcatura sorregge la storia di questa pittrice, Marianna, donna che deve fare i conti con i propri demoni interiori. La tensione drammatica contrappunta le pagine del romanzo, bilanciato in perfetto equilibrio fra dato storico e dato inventivo. Una meditata e lunga fase preparatoria, come rivela lo stesso autore, e poi l’abrupto, l’accensione della fantasia, resa con plastica evidenza nella trama complessa della sua fabula. Tutti i libri di Errico sono, per così dire, romanzi storici, il ché sottrae l’autore dai rischi che si corrono quando si scrive di contemporaneità, vischiosa, fluida, insidiosa, proprio in quanto tale. Errico invece mette al centro del suo racconto l’uomo, con le alterne fortune, il cumulo di speranze, di vittorie e sconfitte, con le sue passioni, rabbie, gioie, dolori, incongruenze. Per questo, i suoi sono drammi universali, scardinate anche le categorie di tempo e di spazio, a volte il protagonista non ha nemmeno un nome, oppure lo si apprende molto dopo, verso la fine del libro, come nel caso in questione. La sintassi viene spezzata in mille proposizioni brevi che, se non fanno a meno della punteggiatura, certo la riducono all’essenziale, del tutto inesistenti i punti esclamativi ed interrogativi, i puntini di sospensione, ecc. Così pure non sono mai presenti, nel libro, dei sottotitoli o la classica divisione in due tempi della narrazione, che invece consta di capitoletti brevi, tutti quasi della stessa lunghezza. Come ho già avuto modo di scrivere, lo stile di Antonio Errico è ormai del tutto riconoscibile per via della sua originalissima prosa lirica, di cui caratteristiche sono: l’ossimoro, “histeron-proteron”, cioè il paradosso intrinseco alla sua scrittura, di vita-morte, presenza-assenza, fuga-ritorno; poi l’anafora, l’iterazione , le numerose rime interne, assonanze, consonanze, e i neologismi. E poi ancora, la sua scrittura si caratterizza per alcuni “sconfinamenti,” per usare un termine caro allo stesso Errico, per un “dereglement de sens”, cioè una libera fluttuazione delle parole sulla pagina e, a volte, in ceri passaggi di più vorticoso narrare, direi quasi che rasenta la scrittura automatica, nel senso heideggeriano secondo il quale non è l’autore a dominare la scrittura ma la scrittura a dominare l’autore, il significante che predomina sul significato.
Quandoquoque dormitat Homerus, diceva Orazio: a volte sonnecchia Omero, cioè non sempre produce capolavori. E anche se questa massima non è applicabile in alcun modo al presente volume di Errico, a mio modesto avviso, il suo capolavoro finora insuperato resta “Stralune” del 2008. Ciò detto, “La pittora dei demoni” è un colpo messo a segno, un ulteriore tassello nella pluripremiata carriera letteraria del suo autore. Da leggere e meditare.