di Salvatore Chiffi
In Nardò, verso la metà degli anni ’50, sulla strada “ti mare”, proprio di fronte a “lu torrino” (cisterna sopraelevata dell’acquedotto) viveva un ricco signore molto conosciuto per la sua stazza, ben oltre i duecento chili, che lo costringeva a stare sempre seduto su una “poltrona” appositamente costruita per lui e lo limitava nei movimenti.
All’epoca la zona era ai margini della città, quasi in aperta campagna, e la sua abitazione era situata al centro di un podere di terra coltivata prevalentemente a vigneto e frumento che si estendeva per oltre cinque ettari.
Alla casa, di stile colonico,si accedeva attraversando un lunghissimo “stradone”, i cui margini erano delimitati da un rigoglioso pergolato di uva bianca a “candellino”, alberi di albicocche, cachi, prugne, pesche e terminava davanti ad una spaziosa aia ombreggiata da un secolare albero di “zezzi” (gelsi) che, innestato da mani sapienti, produceva due varietà di frutto: quello bianco più comune e quello rosso più raro, molto grosso e più gustoso.
Aveva preso in moglie una delle cinque sorelle di mio nonno, le altre quattro erano rimaste zitelle, e mia madre, la più vicina di casa fra i nipoti, non mancava di andare di tanto in tanto nei pomeriggi estivi a trovare gli zii.
Io, ragazzetto, l’accompagnavo spingendo la carrozzina con mio fratello Luigi e, mentre la mamma aiutava la zia in qualche faccenda domestica come ad esempio separare i fagioli dai “mammuni” (gorgoglioni, bachi delle leguminacee) per poterli cucinare “alla pignata”, le noci appena raccolte dal mallo o stirare le lenzuola fresche di “cofanu”, mi intrattenevo a giocare sull’aia rincorrendo lucertole o cercando di acchiappare qualche cavalletta fino a quando lo “zio panzone” non mi affibbiava qualche incarico.
“Salvatò, e nno ti faci dare ti la zia lu cestinu e mi ccugghi to zezzi ti quiddhri russi? Però, mi raccumandu, cunnossia va ti li mangi ca cinò ti tingi l’occa ti russu e bisogna cu ti llavanu la lengua cu lu sapone!”.
Detto fatto. Felice per l’incarico, mi arrampicavo sul gelso, agile come uno scoiattolo e cominciavo la raccolta.
“Salvatò, cce scola faci?”.
“Aggiu spicciatu la prima e mo’ a ottobre ccumenzu fare la seconda”.
“Bbrau, bbrau, e ci ete lu mesciu tua?”.
“Lu mesciu Spanu”.
“Naaah, quiddhru ca sona lu violinu. E canzuni no’ bbi ‘ndae ‘mparate?”.
“Sine, tante, puru l’innu di Mameli”.
“Bbrau ,bbrau, l’innu ti Mameli lu sacciu puru iò. E no’ mmi lu canti cu bisciu ci ete lu stessu?”.
Ed io, a squarciagola, “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’Elmo di Scipio …………………. ……. dov’è la vittoria ………………….. stringiamoci a coorte ……………. …… l’Italia chiamò”.
“Bbrau, bbrau, ete comu quiddhru ca sacciu iò. Lu cestinu no’ ll’hai chinu ancora?”.
“Sine l’aggiu chinu”.
“Beh, bastanu bastanu, scindi e mi raccomandu attentu quando scindi cu no’ ti cadinu li zezzi, ci no addiu fatica”.
Sceso velocemente e consegnato il cestino colmo…
“Lu sai ca tieni ‘na beddhra voce! Cce t’hannu tagghiutu li tonzille?”.
“No, no, li tegnu li tonzille”.
“Non ci creu! Fammile itire”
Spalancavo così la bocca e il furbo “tricheco” poteva controllare che la mia lingua non avesse preso lo stesso colore delle dita divenute violacee per la raccolta “ti li zezzi”.
Verso la metà di ottobre di quell’anno, l’avaro rese l’anima a Dio.
“Li ‘enne ‘nu corpu”, dissero, e da morto diede più fastidio che da vivo.
Intanto toccò alla moglie e alle sue quattro sorelle il gravoso compito di lavare la salma e di rivestirla con l’abito “da morto” e data la mole del de cuius possiamo immaginare quanto il compito debba essere stato “pesante”; poi la veglia funebre recitando rosari, Ave Maria e atti di dolore intervallati ad arte dalle “lodi” al defunto, urlate da qualche “prèfica” e dagli isterici scoppi di pianto della neo vedova.
Com’era allora usanza, per tutto il pomeriggio, la notte e il mattino del giorno successivo alla dipartita la casa rimase aperta per permettere ai familiari di ricevere le visite di condoglianze da parte di amici e conoscenti. Poi, verso le 15.30, iniziarono le “grandi manovre” per il funerale.
La bara costruita in fretta e furia risultò essere un po’ strettina e i parenti, a cui era devoluto l’arduo compito di sistemarlo nella bara, oltre alle ovvie difficoltà del “peso morto” dovettero ingegnarsi non poco a farlo “entrare” nel “tautu”; ma alla fine “’ncarra ti qua e ‘ncarra ti ddhra”, riuscirono nell’intento (qualcuno raccontò che dovettero persino salire in due sulla salma e saltarci sopra con i piedi per farla entrare e permettere al coperchio di chiudersi).
Le maledizioni lanciate durante l’operazione di “incassamento” si moltiplicarono quando fu data la notizia che lo “stradone” era troppo stretto e che “lu carru fuci fuci” (il carro funebre), trainato da quattro cavalli, non riusciva a passare attraverso le due colonne che reggevano il cancello d’ingresso.
Il feretro doveva essere trasportato a spalla sino alla strada e, siccome la chiesa dei Cappuccini dove si sarebbe officiata la messa funebre era proprio accanto a “lu torrino”, i malcapitati avrebbero dovuto pure allungare il percorso di un altro centinaio di metri.
In quel momento qualcuno degli astanti avrebbe voluto scomparire, ma non potette, così sei tra le persone più giovani presero in spalla il feretro e si avviarono lentamente verso la chiesa.
Il trasporto non fu facile soprattutto perché i sei baldi “volontari” non erano tutti della stessa altezza e oltretutto ogni tanto qualcuno sbagliava il passo. Sui due più bassi, posti sul davanti, gravava quasi tutto il peso del “tavutu” e così, tra un “ahiaiai la spaddhra”, “no’ spingiti ca mo casciu”, “sciati chianu chianu ca sta’ scinucchiu”, “spetta pocu pocu cu spostu lu pisu”, “cu pozza scoppiare, quantu pesa”, si riuscì a depositare la salma in chiesa.
Dopo la Messa, l’operazione per sistemare il feretro nel carro fu molto più facile, e il funerale si concluse al cimitero con l’ennesimo conferimento delle condoglianze alla vedova e ai parenti più stretti, ma… ma quel “cu pozza scoppiare”… arrivò a buon fine.
Qualche giorno più tardi, infatti, i parenti furono informati che, a causa della gran quantità di gas prodotto dalla decomposizione, il de cuius era letteralmente esploso e che l’esplosione aveva danneggiato anche alcune tombe adiacenti.
… e a me, grazie alla “tirchiaggine” di un furbacchione e alla mia ingenuità, dopo tanti anni, non fu mai dato a sapere “cce sapore tiniànu ddhri zezzi russi!”.
Complimenti a Salvatore Chiffi anche per questa perla di fresca narrativa che preserva testimonianze e personaggi della nostra cultura popolare.