di Maria Grazia Presicce
C’era una volta… ma, c’è ancora c’è ancora! un giardino in cui sorge un palazzo…un magnifico palazzo abitato tanto tempo fa da un poeta. Palme, melagrani, oleandri, cipressi proteggevano allora come guerrieri i cespugli di rose che ne inghirlandavano muri e vialetti.
Tralci di rose s’ inerpicavano sulle facciate e parevano voler raggiungere la camera di chi tanto le amava per fargli godere dei loro effluvi anche di notte quando percepivano il bagliore filtrare dai vetri delle imposte socchiuse e incuriosite si spingevano su, sempre più su per spiare il suo tacito fare.
Si chiamava Girolamo il proprietario di questo giardino e lui riusciva davvero a captare nel silenzio notturno i fruscii di quei boccioli se, spesso inatteso, scendeva tra loro e con loro si confondeva nella quiete e nell’oscurità ovattata e s’ inebriava delle loro fragranze aggirandosi lento tra i vialetti scolorati dal tenue chiarore della luna che, smaltato, colava tra i rami degli alberi e lo avvolgeva. Lo stupore di tanta armonia penetrava il poeta nell’intimo e tacita dava poi parole e senso ai suoi versi.
Girolamo adorava quel mondo balsamico e armonico pregno di assoluta purezza. Qui trovava ristoro e confidava alle piante alla luna e alle stelle i suoi più cupi pensieri, le sue angosce e da loro sollecitava preghiera e consiglio sfiorandone gli umidi petali, roridi, colorati di luna la notte e dai bagliori di sole al mattino. Non avvertiva la solitudine tra quei boccioli che s’inchinavano placidi al suo passo e lo invitavano a sostare e ritemprarsi tra loro e con loro.
– Ti racconto una storia se resti – sussurrò una sera una rosa rossa impigliandosi con una spina alla sua giacca.
– Fermati, non andare ! – bisbigliò ancora – non vuole graffiarti la spina! –
Girolamo si bloccò.
” Una rosa che parla? Forse sogno” si disse, guardandosi intorno stranito.
– Son qui, son qui – sussurrò ancora la rosa, trattenendolo e quasi lacerandogli la maglia.
Si volse Girolamo poi, lentamente, districò la maglia dalla spina. Dondolò la rosa e s’inchinò. Girolamo la sfiorò, si piegò e ne aspirò il suo intenso profumo. S’intenerì la rosa e continuò: “ Resta! Ti racconterò la storia del tuo giardino. Ti piacerebbe conoscerla vero?
S’arrestò il poeta, trattenne il fiato, continuò a sfiorare la rosa che dolcemente cominciò a narrare “ In questo luogo, che ora ti appartiene, tanti, ma tanti anni fa c’era un grande bosco incantato dove, rigogliose, crescevano piante spontanee di ogni genere: alberi di carrube, cespugli di mortelle, di lentisco, di corbezzoli, di timo, di cisti, di olivastri e roselline selvatiche.
– E… tu come lo sai? – Intervenne incuriosito Girolamo.
“Non interrompermi per favore, altrimenti perdo il filo – riprese la rosa. – Ebbene, tra queste selvatiche e odorose piante, gironzolavano indisturbate bestiole di ogni genere e taglia: lupi, cinghiali, volpi, lepri, ricci di macchia, talpe, bisce e svolazzavano, riempiendo l’aria di trilli, uccelli di tutte le specie che in primavera, coi loro nidi, adornavano rami e cespugli.
– Meraviglia! Davvero qui c’era un bosco con tutte queste magnifiche creature? – Girolamo s’accomodò al suo basamento per meglio ascoltare.
La rosa rossa proseguì – Già, è proprio così. A quel tempo, noi, aristocratiche piante di rose non facevamo parte di questo paradiso, non ne immaginavamo nemmeno l’esistenza, né saremmo potute attecchire su quell’arido suolo.
– Ecco che ho ragione. – intercalò attento il poeta – Se neppure esistevi, come puoi conoscere la storia di questo posto ? –
– Hai ragione, hai ragione. Devi sapere, però, che sono stata una rosa fortunata perché, quando sono giunta in questo giardino, ho conosciuto un’antica pianta di mortella che aveva fatto parte di quel bosco incantato e, per puro caso, si era salvata. Cresceva proprio lì, dove ora tu poggi i piedi. –
Girolamo si scostò repentino e guardò ai suoi piedi senza nulla vedere se non terra battuta – Che storia è questa? Non c’è traccia di piante sotto i miei piedi . Dove sarebbe andata a finire la tua amica mortella? – Continuò a osservare, scostandosi per evitare, semmai, di calpestarla nel buio.
– Tranquillo, tranquillo! – Tremò mesta la rosa – non puoi pestarla. Ormai non c’è più, manca da tanto: è stata divelta un mattino di tanti anni fa e, purtroppo, la colpa fu mia.-
– Tua? Come puoi dire che la colpa fu tua?-
– Fu mia davvero. Mi sento colpevole di quello che accadde quel giorno. – Addolorato al ricordo, il bocciolo s’ inclinò e un gocciolo di rugiada scivolò ai piedi di Girolamo.
Il poeta dolcemente rialzò la rosa – non posso credere che, tu così soave e leggiadra sia stata motivo di tanto dolore. Dai, non avvilirti così, raccontami dall’inizio la storia.-
La rosa rossa, sollevò il bocciolo e – Ti ho appena detto che il bosco si estendeva anche sul tuo giardino. Un bel giorno, anzi un brutto giorno, mi disse Calliope, si chiamava così la mia amica mortella, il bosco incantato fu divelto completamente per fare spazio alle case che ora vedi qui intorno ed anche al meraviglioso palazzo dove tu vivi.
– Mi spiace. Ne sei proprio sicura?-
– Sì, è stato proprio così. Me lo ha confermato la mia amica mortella. Di certo tu non puoi ricordarlo, eri un bimbo innocente allora o forse non eri neppure nato a quei tempi. Ora però, che sei grande, intelligente e sapiente, puoi scoprire da te quando tutto questo che ti sto raccontando è avvenuto.
Non farmi tergiversare però, altrimenti giunge l’alba prima che finisca di raccontarti la mia storia e, con la luce, tu sai, la magia della notte svanisce e cominciano altre magie. Dunque: quando la tua mamma, che tanto amava le rose, decise di interrare me qui dove sono, io ero un tralcio, un piccolo germoglio giunto da molto lontano. Arrivai in treno riposta in un pacco insieme ad altre sorelle. Alcune sono ancora sparse qua e là in questo giardino, altre, purtroppo, non esistono più.
Tra tutte mi ritenni la più felice poiché fui sistemata proprio vicino al cespuglio della mortella. Ero in buona compagnia, non sarei stata sola, ne gioì così tanto che già dopo poco avevo stretto amicizia con lei. Mi sentivo protetta dalla sua verde chioma e anche se ancora non capivo il suo modo di esprimersi, parlava solo in dialetto Calliope, bastava che le sue foglioline mi sfiorassero per avvertire il suo affetto e non sentirmi mai triste ed esclusa. Ci siamo tenute compagnia per anni, lei mi aiutava ad affrontare serena le mutevoli stagioni riparandomi anche dalle intemperie. Era forte, rigoglioso il suo aspetto, io invece crescevo a stento più gracile e debole. Non me ne dolevo comunque, anche se m’accorgevo che non ero florida e in fiore come le mie sorelle che, ammiccanti e superbe, sculettavano poco più in là. A me, andava bene così, m’ appagava l’amicizia di Calliope e la sua vicinanza.
Tua mamma, che di tanto in tanto scendeva tra noi, ci curava con dedizione; ad ogni pianta aveva dato un nome speciale, io sono venere, c’era poi diana, selene, aurora e quel cespuglio di rose piccole e bianche che s’inerpica sul muro laggiù, sono le ninfe. Ci chiamava per nome tua mamma ogni volta che s’avvicinava!
Un mattino umido e fresco d’autunno, venne un nuovo giardiniere per organizzare i vialetti, potare gli alberi e sistemare i tralci di noi rose che confusamente si sporgevano qua e là. Alcuni dei miei ramoscelli cingevano i verdi rametti di calliope imperlati di brune e lucenti mortelle e mentre le mie sorelle traboccavano ancora di boccioli e di rosse bacche, i miei lunghi tralci erano solo coperti di foglie e di qualche boccio che stentava a schiudersi all’ombra della mia amica.
Quando quell’ omaccione mi si avvicinò, esaminò attentamente l’intero mio ceppo, scrutò in lungo e in largo lo spazio occupato da calliope e da me poi, senza nemmeno fiatare, si mise a zappare, zappare e tagliare estirpando in un fiat la mia cara amica. Vedevo cadere sotto i suoi colpi malefici la dolce mortella con tutti i suoi rami e nulla potevamo contro di lui nemmeno le mie aguzze spine. Fitte tremende mi trapassavano, ogni colpo percuoteva il mio stelo fin nelle radici e per quanto stendessi i miei tralci spinosi e provassi a bloccarlo, niente potetti contro quella furia impetuosa che continuava a svellere svellere ed annientare fin nelle budella la mia compagna che, inerme, giaceva infranta per terra. Desiderai tanto morire con lei invece eccomi ancora qua solitaria ed afflitta.
Son trascorsi degli anni da quel fatidico giorno, son tanto cresciuta d’allora, son sfarzosi ora i miei tralci di rossi boccioli abbigliati che effondono al cielo e alla terra il loro profumo, ma soffre il mio cuore, mi sento rea, monca e rimpiango Calliope e la sua amicizia. Troppo mi mancano le sue antiche storie, i suoi abbracci, il nostro dondolarci e sfiorarci nel vento. Ho nostalgia dei suoi candidi fiori, del suo intenso aroma e delle sue brune bacche che come gemme preziose, incastonate tra le foglioline, ciondolavano gioconde sui molli rametti.
Tremò e sospirò assolto il bocciolo di rosa, i suoi petali si dischiusero in un abbraccio infinito “ Ti sono grata stasera per avermi dedicato un po’ del tuo tempo prezioso. Era da tanto che volevo, a qualcuno, raccontare la storia della mia amica e liberare il mio cuore dal suo struggimento. Spero di non averti annoiato. Ti prego dai voce e vita al mio sfogo, al mio ricordo, al dolore per la perdita della mia adorata amica mortella che ha fatto parte del mio cuore e del tuo giardino. Tu solo puoi, con la tua sensibilità, continuare a narrare ai bimbi la storia dell’amicizia tra Venere, una pianta di rosa, e Calliope una pianta di mirto. E’ autentica la storia, te lo giuro. Autentica come un’amicizia vera pura sincera. L’amicizia vera può nascere e crescere in qualunque luogo, tra le essenze più disparate, nelle situazioni più tragiche e inverosimili. Questo sentimento tenero e devoto non ha bisogno di tanto spazio, di molte parole, vive e si nutre anche di intimi silenzi, d’ intesa, solidarietà e tanto tanto affetto. Buona notte Girolamo e grazie ancora! “
Girolamo ormai non c’è più, son rimasti per noi i suoi versi, il suo palazzo e traccia ancora del suo giardino poetico.
Sta ancora lì un po’solitario, celato e lasciato all’incuria, eppure il poeta ogni notte, zitto zitto, continua a tornare, ad affacciarsi al balcone e godere degli effluvi scampati poi, scende, s’aggira silente e spande i suoi versi su quell’oasi di pace ed insiste esortando, bramando il risveglio del suo favoloso cantuccio e prega Girolamo per una società più retta, trasparente, sommessa, per una natura difesa rispettata amata che possa continuare a dare senso e fervore all’ esistenza, in modo che ogni essere possa continuare a stupirsi del suo miracolo, dei suoi incommensurabili doni e riesca a percepirne il valore in ogni frammento cogliendo e trasmettendo, ancora ed ancora, l’essenza della vita e le sue fondamentali virtù.
Bellissimo questo racconto, lo ‘condivido’. Il ricordo di Nonno Momo è sempre con me, è stato determinante nella mia vita di artista. Ora sono anche una giardiniera e questo delicato racconto del suo giardino è struggente. grazie a chi lo ha scritto e…..a chi lo ha ‘postato’!
Elisabetta Pasanisi
La ringrazio. Mi fa piacere che lo abbia apprezzato. Però… la notizia recente che mi ha addolorato, è che il giardino di Nonno Momo ( come lei affettuosamente lo ricorda) non c’è più. Mi hanno riferito che proprio in questi giorni è stato diserbato sbancato spianato. Ora vinto giace pronto ad assumere altre apparenze: sembianze che questa società sconfitta e piallata vuole fargli assumere per avere rientri di natura diversa da quegli che Momo si era prefissi! maria grazia presicce
A proposito del giardino di Girolamo Comi a Lucugnano e della sua destinazione
Il mio grido stamane continua nel silenzio di me e mi dico che non è giusto che resti lì chiuso e che nessuno lo senta! Ho bisogno impellente di urlare il mio sdegno insieme a Giuliana a Gloria e a chi come me avverte impellente l’amore dei luoghi, di quei luoghi che continuano a narrare storie, che arricchiscono animi, che danno respiro, che offrono emozioni gratuite, che si donano allo sguardo senza chiedere nulla e pur statici e silenti hanno voce afflati suoni armonie, purtroppo, percepiti solo da chi non ha intendimenti reconditi e lucente come la luce del giorno spera sempre che l’uomo ritorni uomo schietto indulgente e clemente e non abbia sempre fini oscuri nel suo fare e il suo dire e non ponga sempre in primo piano “la panza” facendola divenire “capanna e campana“ del suo essere uomo senz’altre virtù.
maria grazia presicce