di Gianluca Fedele
Se mi chiedessero di descrivere Luigi Latino direi: è una di quelle persone che dicono quello che pensano e pensano quello che dicono. Schietto, coerente, intransigente.
Pur incontrandolo per la prima volta si ha la sensazione di conoscerlo da tempo o come un parente che non si vede da tanto. Proprio così è capitato a me quando un amico comune ci ha presentati.
Il suo laboratorio/galleria si trova di fronte alla celebre basilica di Santa Caterina d’Alessandria, una piazza in cui l’Arte regna sovrana; qui si possono ammirare le opere più recenti. Quelle che ho visionato personalmente le ho trovate suggestive e rabbiose. Racchiudono in esse l’impotenza del singolo al cospetto della crudeltà della guerra e della massificazione; frugano nell’emotività del recettore cercando di innescare reazioni di sgomento e di indignazione.
Col tempo ci ha legati un’affettuosa amicizia e qualche progetto. Mi ha promesso di prestarsi per un’intervista e oggi siamo qui a chiacchierare.
D.:
Luigi, dove nasce e come matura la tua creatività?
R.:
Dalla scuola media!
Mi spiego: ho frequentato la scuola media inferiore annessa all’Istituto Statale d’Arte, non il corso di studi ordinario.
In un’età nella quale si è maggiormente predisposti alla creatività, in cui l’estro è libero da schemi e da convenzioni, capirai bene che le materie pratiche, supplementari a quelle teoriche – ossia i laboratori di disegno, di pittura e di scultura – mi diedero la possibilità di intercettare meglio, comprendere e seguire successivamente la mia predisposizione artistica innata.
Come molti adolescenti feci anch’io delle scelte di studio non pertinenti alla mia indole e mi ritrovai così iscritto all’Istituto Professionale. Lì mi resi conto quasi subito di non appartenere in nessun modo al rigido mondo dell’elettronica e della meccanica.
Dopo essere rientrato dal militare, a ventisei anni, l’Arte continuava a bussarmi alla porta e io la lasciavo entrare ben volentieri. Dipingevo sempre con una certa regolarità, per me stesso soprattutto, ma cercavo comunque un’occupazione più stabile e redditizia. Fu così che mi misi a commerciare in abbigliamento e lo feci per diverso tempo.
Dieci anni fa capii di non poter più reprimere con diversivi la mia vera natura: chiusi la mia attività e investii ogni risorsa su quello che oggi è il mio modesto atelier.
D.:
È suggestivo ascoltare il racconto di una persona che abbandona tutto, come una vera vocazione francescana, per seguire questa altrettanto mistica “chiamata”.
Ci sono stati artisti che ti hanno segnato durante questo individuale percorso?
R.:
Sono stato innamorato fin da ragazzo, e lo sono ancora, dei pittori Mirò, Kandinsky e di Picasso.
Li ho studiati con curiosità e intesa benché nella mia produzione non si ritrovi traccia di questa influenza seminata dai maestri anzidetti.
Alcuni critici hanno intercettato invece dei parallelismi stilistici, legati alla ricerca sulla materia, con l’artista del novecento Alberto Burri.
D.:
A proposito di sperimentazione materica, che ruolo hanno quelle cortecce legnose che applichi sulle tele?
R.:
In realtà le “cortecce” alle quali ti riferisci non sono altro che foglie di agave. Sono stato incuriosito da questa pianta quando ho scoperto e ammirato per la prima volta la scenografica fioritura di una pianta che abbelliva il mio giardino: maturando, a una certa età e durante una determinata stagione, dal centro del cespuglio faceva ergere un tronco fiorito alto circa tre metri. Seccando, quest’ultimo, rilasciava la semenza per le nuove vegetazioni.
Le domande che mi sono posto sono state: ne sarà cosciente? E un essere umano, sia uomo o donna, sceglierebbe di dare spazio alle nuove generazioni sapendo poi di dover morire?
Per questa riflessione che mi ha donato ho voluto nobilitare l’agave ridandole “vita” a mezzo delle mie opere.
D.:
Non conoscevo questo aspetto. Ho notato inoltre che nella tua produzione contemporanea fai spesso utilizzo anche di ritagli di giornale, quasi che la tela diventi essa stessa un’estensione degli strumenti d’informazione. È così?
R.:
Durante il mio personale viaggio nel mondo dell’arte mi sono soffermato a lungo sull’astrattismo.
Per inciso non amo le etichette (in qualsiasi ambito) come non amo dovermi inserire all’interno di un filone stilistico: l’Arte è tale senza la necessità di doverla classificare.
Dipinsi astrattismo puro finché non avvertii la mancanza in esso di qualcosa, come se la comunicazione con destinatario, tramite quello strumento, fosse interrotta da fattori a me estranei. L’osservazione della problematica mi ha così indotto ad adoperare frammenti di notizie, di immagini d’effetto, di citazioni applicate in découpage.
Immaginiamo per un attimo che il quadro sia un’urgente rassegna stampa: c’è l’esigenza di arrivare al concetto senza troppi preamboli e in maniera cruda, se necessario.
Mi rendo conto che inserendo la figura, seppure fotografica, dovrei essere tirato fuori dal concetto dell’astrattismo, ma non è così. Semplicemente do un megafono al quadro, punto il riflettore sull’immagine e a quel punto il messaggio che ne risulterà sarà un pugno assestato nello stomaco per chi lo coglierà.
Infatti oggi c’è bisogno proprio di pugni nello stomaco perché i cervelli si sveglino dal letargo all’interno del quale sono stati spinti.
Questa nuova tecnica che sto sperimentando mi ritorna molto utile allo scopo.
D.:
Quali sono le tematiche alle quali ti senti più sensibile ?
R.:
È evidente che le questioni sociali persistono in tutte le mie opere attuali. Cerco di dare voce alla sofferenza degli ultimi, al divario che si costruisce tra ceti e infine, ma non certamente per importanza, al dolore che infligge la sempre rigogliosa guerra, un cancro apparentemente inestinguibile poiché non esiste periodo storico, nel mondo, durante il quale essa non sia stata protagonista.
Proprio al tema ho dedicato la serie “il gioco preferito dall’uomo” dove consegno a dei comuni soldatini di plastica il gravoso ruolo incriminante e allo stesso tempo catartico.
D.:
So che collabori con associazioni di volontariato. La solidarietà aiuta l’Arte?
R.:
Attingo moltissimo da queste esperienze. Senza dubbio alcuno ricevo più di quanto riesca a dare, per il semplice motivo che ogni esperienza, ogni contatto matura il nostro modo di guardare il mondo e nel mio caso muta diventando un quadro.
Quando sostengo il prossimo lo faccio come fosse una sorta di umano investimento, nell’attesa che qualcun altro aiuti me.
D.:
Mi parlavi della tua tendenza a escluderti da ogni tipo di etichetta ma ami definirti anarchico. Non è essa stessa un marcatura?
R.:
Per me l’anarchia non è una fazione come possono essere il comunismo e il fascismo, non è uno stile, non è una corrente. Anarchia, per me, è il luogo etereo nel quale ogni artista si ritira – chi consciamente e chi meno – per evadere dal mondo reale ed esprimersi come meglio si confà al proprio spirito libero.
D.:
Comprendo benissimo il concetto ma noi sottostiamo ogni giorno a delle regole, soprattutto economiche, non credi?
R.:
Ciò è fuori discussione, purtroppo! Lo spirito artistico, da millenni, si foraggia proprio da chi acquista e commissiona opere. Siano esse pittoriche, scultoree, letterarie. Questo comunque non compromette l’esistenza dell’Arte in mancanza di denaro dal momento che la creatività fluttuerebbe nella mente dell’uomo libero a prescindere e troverebbe certamente altri sistemi per evadere e palesarsi. L’anarchia e l’Arte, in questi termini, per me sono spazi affini.
D.:
C’è forse una connessione tra il concetto da te appena espresso e i colori predominanti all’interno delle tue opere?
R.:
Ultimamente temo che il grigio – che rappresenta l’appiattimento sociale e il sistema incancrenito che combatto – si espanda in maniera incontrollabile sulle mie tele. Sopprime e domina persino il rosso, tonalità passionale per definizione. Alla neutralità di queste cromie cineree probabilmente preferirei una predominanza di nero che, seppure nefasto, certamente esalta meglio gli abbinamenti cromatici e soprattutto crea “contrasto”.
D.:
Potremmo tranquillamente dire che la tua è “arte di denuncia” e, come accennavi pocanzi, in Italia si fatica a smuovere le coscienze. Viene captata meglio, la contestazione, se ha questa forma?
R.:
Se in Italia si fatica, al sud è quasi impossibile fare contestazione. E poi c’è troppo individualismo, soprattutto tra gli artisti. I cambiamenti si fanno singolarmente ma le rivoluzione si fanno in massa.
Per fortuna ho degli acquirenti in Europa che afferrano e apprezzano l’espressione artistica che creo molto più che nel mio paese.
D.:
Dove hai esposto?
R.:
Grazie ad alcune organizzazioni sono stato selezionato e ho eseguito mostre in Uruguay, in Brasile, in Germania. In Albania i miei quadri sono esposti in rilevanti pinacoteche e ornano le sale di importanti palazzi.
Mi piacerebbe che anche qui ci fosse la stessa attenzione da parte delle gallerie ma pare siano diventate più delle “affittacamere” per pochi.
D.:
Però oggi si ha l’impressione che in tanti facciano “arte”; c’è una sovrapproduzione secondo te?
R.:
Non mi preoccupa la sovrapproduzione di arte. Mi spaventa molto di più quella di bombe.