di Francesco Giannelli
Questo studio parte da lontano ed è emblematico di come spesso l’attività di ricerca in ambito archeologico possa essere assimilata all’investigazione che le forze di polizia svolgono per dirimere i fatti di cronaca.
Raccogliere indizi, tasselli, che poi magicamente, unendosi, svelano un quadro bellissimo e sorprendente.
Tutto parte da una rivelazione che anni fa mi fece mio padre: non ricordo in che occasione ebbe a parlarmi del famoso “cavallone”, un enorme cumulo di pietre non più esistente che si trovava nella zona della torre della marina di Torre Suda a Racale, a pochi metri dal mare.
Le notizie erano scarse, ma il solo fatto che ne venisse perpetuata la memoria mi faceva intuire che doveva trattarsi di qualcosa di anomalo ed inspiegabile agli occhi della gente comune. Non una semplice specchia, di quelle i nostri contadini ne hanno viste tante, né il risultato di un semplice spietramento visto che la zona non è mai stata frequentata dall’uomo ai fini produttivi fino ai primi decenni del XX secolo e poi così vicino al mare….
Comunque l’interrogativo rimase sospeso in attesa di tempi propizi per essere svelato.
Fu così che circa un anno fa mi imbattei in un anziano vicino di casa, un vecchietto ultranovantenne con una intelligenza ed una lucidità ancora intatte, un patrimonio di memoria storica, il quale a mia precisa domanda se avesse mai sentito parlare del “cavallone” rispose con entusiasmo di sì, ma non solo, egli aveva partecipato ancora adolescente allo sbancamento dello stesso al fine di utilizzarne il materiale lapideo per la costruzione della litoranea che tutti oggi percorriamo in direzione nord partendo proprio da Torre Suda. Capii subito che potevo trovarmi di fronte ad una svolta. Ne approfittai così per effettuare un vero e proprio interrogatorio al caro amico il quale mi fornì prontamente tutte le informazioni di cui avevo bisogno: lunghezza e direzione del cumulo, altezza, forma e dimensione del materiale litico di cui era composto. Il quadro iniziava a chiarirsi, ma servivano ancora altri indizi per avere la prova che si trattasse di quello che pensavo fosse.
Prima però di procedere oltre con il racconto degli eventi successivi occorre chiarire, a chi non la conoscesse, la geomorfologia del luogo ove sorge la torre di Suda. Ci troviamo, infatti, in presenza di un vero e proprio promontorio che si eleva 5 mt sul livello del mare e con una forma a semiluna si protende nello ionio per circa 250 mt con a nord e a sud due insenature dai cui anfratti rocciosi scaturisce perennemente acqua dolce. Orbene, in base alla testimonianza orale, il “cavallone” percorreva da insenatura a insenatura tale promontorio in direzione sud – nord per oltre 300 mt. in maniera da “tagliarlo” e isolarlo dal resto del paesaggio circostante. La sua altezza era di circa 4/5 metri con una larghezza alla base di oltre 7 mt ed era composto da una quantità innumerevole di pietre di dimensioni medio grandi, con in basso le più enormi che per essere utilizzate dal cantiere furono frantumate con l’ausilio di cariche esplosive. Il nome “cavallone” quindi era prontamente spiegato: a chi arrivava al mare da Racale, discendendo la serra degli specchi, si presentava di traverso questa enorme onda costituita da pietre, quasi a voler sommergere i visitatori.
Ma a cosa serviva e chi e quando aveva realizzato un’opera così dispendiosa di energie e manodopera?
Fonti documentali
Iniziai così le ricerche documentali con l’ausilio dell’associazione culturale A.s.c.Ra. di Racale, di cui mi onoro di essere socio, che mi fornì il materiale che desideravo.
In primo luogo fu di fondamentale importanza la consultazione della tesi di laurea del prof. Dario Morgante dal titolo “Il tratto costiero Ionico – Salentino, Leuca – Gallipoli”, relatore l’illustre prof. Dino Adamesteanu.
In tale tesi vi è un capitolo concernente la marina di Torre Suda in cui sono analizzati alcuni reperti rinvenuti durante i lavori effettuati negli anni settanta per la costruzione di una piazzetta nelle immediate vicinanze della torre. Un frammento di ascia e diversi resti di ceramica ad impasto attribuibili al bronzo recente facevano concludere che il sito era stato con molta probabilità abitato nel 1300 a.c.
Tempo addietro feci un sopralluogo e nelle poche zone non ancora stravolte dall’attività antropica rinvenni diversi frammenti di ceramica dell’età del bronzo a conferma di quanto testimoniato in precedenza.
Il toponimo “Suda”.
E’ ormai unanimemente accettato che il luogo ove sorge la torre ha dato il nome alla stessa e non viceversa.
Le fonti a sostegno di tale tesi sono diverse, la più importante delle quali è del 1154 (quattrocento anni prima della costruzione difensiva) anno in cui fu pubblicata l’opera del geografo marocchino Edrisi dal titolo “Divertimento di colui che desidera viaggiare per il mondo” in cui nel descrivere il periplo della penisola salentina si dice:<<Da Otranto al promontorio della Suda…>>.
Ma da dove deriva l’etimo “Suda”? Rispondendo a questa domanda capiremo il collegamento con il famoso “cavallone”. Come sappiamo siamo in una zona a forte influenza linguistica greca, lo si deduce dai nomi dei paesi vicini, e alla stessa radice non si poteva sottrarre “Suda”. Lo studioso tedesco Gehrard Rohlfs nel suo “Scavi linguistici nella Magna Grecia” riferendosi alla nostra località dice:<<…toponimo di Creta e del Peloponneso, dal greco volgare fossato >>, intendendo per fossato un’opera difensiva in genere.
Così è che, infatti, viene utilizzato tale termine negli “Annales Barenses” di Lupo Protospatario, una cronaca degli avvenimenti storici del medioevo, ove, riferendosi alla discesa di Maniace a Taranto dice:<<… et fecit suda in loco qui dicitur Tara.>>.
Nel “Glossarium mediae et infimae latinitatis” di Charles Du Fresne, la voce suda o zuda indica un accampamento, un fossato, un vallum, comunque una fortificazione.
La prova regina.
Un anno fa comprai una pubblicazione sullo sviluppo della marina di Torre Suda nello scorso secolo. Tra le varie foto presenti una mi colpì subito: era ritratta la torre ai primi del novecento. Fin qui niente di straordinario se non per il fatto che la si poteva scorgere solo per la metà superiore. Cosa la copriva nella parte inferiore? Era quello che pensavo? Subito mi prodigai per reperire l’originale, e dopo varie traversie ne venni in possesso, il segreto fu svelato: nella foto originale del 1910, non circoscritta alla sola torre, si poteva ammirare il “cavallone” in quasi tutta la sua estensione e maestosità. Veniva fugato così ogni dubbio sulla sua reale funzione: era una colossale opera difensiva realizzata con il sacrificio di molti uomini e di cui purtroppo nulla è rimasto.
Il contesto storico.
“All’inizio del II millennio a.C. lungo le coste e le aree paralitorali della Puglia adriatica e ionica si manifesta l’insorgenza di numerosi insediamenti non di rado provvisti di opere di fortificazione costituite da muraglioni in pietrame a secco e/o terrapieni. Il fenomeno sembra rispondere ad una generalizzata necessità di acquisire il controllo territoriale di posizioni strategiche nelle quali localizzare forme residenziali anche a carattere complesso. Una risposta delle comunità indigene, o di gruppi di esse, agli stimoli provenienti dal mare e portati dai primissimi rapporti commerciali con i navigatori egeo – micenei” che “scatenò una competizione finalizzata all’acquisizione del miglior scalo marittimo possibile” e successivamente “un incremento della conflittualità tra comunità costiere e comunità dell’interno la cui struttura economica e sociale sarebbe invece restata più ancorata allo sfruttamento delle risorse del territorio”[1].
In questo contesto potrebbero trovare spiegazione le specchie monumentali sorte per controllare il territorio e di cui proprio a Racale, sulla sommità della collina che sovrasta il promontorio di Suda, abbiamo un magnifico esempio.
Gli insediamenti costieri attestati nella nostra regione sono: Torre Mileto (Lesina,FG), Punta Molinella (Vieste, FG), Punta Manacore (Peschici,FG), Coppa Nevigata (Manfredonia, FG), e nel Salento, Egnazia (Fasano, BR), Torre Guaceto (Carovigno, BR), Scogli di Apani (Brindisi), Roca (Melendugno,LE), Santa Maria di Leuca (Leuca, LE), Torre dell’Alto (Nardò, LE), Torre Castiglione, Bagnara, Torre Castelluccia, Porto Perone e Scoglio del Tonno, in provincia di Taranto.
Nella maggior parte di questi siti si riscontrano le caratteristiche geomorfologiche presenti sul promontorio di Suda, e cioè uno sperone o promontorio che si inoltra nel mare cinto da opere murarie difensive al fine di proteggerlo da eventuali attacchi via terra.
Il villaggio fortificato di Suda si collocava quindi tra quello di Santa Maria di Leuca, e quello di Torre dell’Alto, presso Santa Caterina (Nardò,LE).
Proprio in quest’ultimo sito è ancora possibile ammirare un aggere, o, come chiamato volgarmente a Racale, “cavallone”, in buona parte ancora intatto, elevato a proteggere la penisola su cui sorge la torre.
[1] Teodoro Scarano, Roca. Le fortificazioni della media età del bronzo, pp. 156 – 158, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie 5 – 2010, 2/2
All’autore, al quale faccio i miei più vivi complimenti, farà senz’altro piacere che io ricordi Suda (o Suida), cioè il nome di un lessico (oggi diremmo enciclopedia) bizantino risalente forse al X secolo. Tra le varie ipotesi etimologiche avanzate la mia simpatia (anche in campo scientifico può albergare questo sentimento, a patto che siano simpatiche le prove addotte e non la semplice ipotesi di lavoro) va a quella che la vuole derivata proprio da σοῦδα (suda)=fortezza, difesa. Come resistere, infatti, alla suggestione di considerare un’enciclopedia (e oggi, purtroppo con le dovute riserve, la stessa rete) un baluardo contro un’invasione ben più grave, forse, di quella fisica, vale a dire quella dell’ignoranza?
Un articolo molto interessante e piacevole, sia per la struttura difensiva scomparsa sia per il fatto che mi sembra di capire che fino ad oggi la marina di Racale è stata chiamata erroneamente “Torre Suda” mentre dovrebbe essere chiamata solo “Suda”, ed è la torre saracena che prende il nome dalla località e non il contrario.
Complimenti per questa lavoro di ricerca e grazie per averci reso edotti. Quante volte sono stato a torre suda senza sapere di calpestare un luogo abitato già millenni prima. Lo vedrò con occhi diversi la prossima volta. E poi mi domando: quanto altro ancora non sappiamo dei luoghi dove ogni giorno viviamo?
Molto efficace e piacevole lo studio eseguito e la sua conclusione. Suda però rimane purtroppo un brutto nome per la nostra Torre! Grazie di tutto.