di Paolo Rausa
‘Amiche sian le voci a lui d’intorno/e prodighe le piogge dell’estate;/sia tenera la sera e dolce il giorno,/sia pieno il cielo in le nottate.’ Gli siano, al libro o allo stelo? Per quanto il poeta si precipiti a s/congiurare che trattasi della sua opera e non dello strano oggetto del desiderio femminile, il dubbio resta e anche l’ambiguità, che per la verità non si sciolgono mai anzi sono costitutivi di questa brillante disamina sui prodotti che dalla terra giungono sul desco. Per la verità noi abbiamo ereditato descrizioni e allusioni che datano dai tempi dei tempi, contenute nella Bibbia, il Vecchio e il Nuovo Testamento, provenienti dalla cultura occidentale della poesia epica – Omero e l’episodio di Polifemo reso ebbro e poi beffato da Ulisse/Nessuno -, dalla lirica greca monodica e corale, Alcmane e Stesìcoro (Musa, lascia le guerre, e canta tu con me/le nozze degli dèi, canta i conviti/degli uomini, le feste dei beati.) e poi dai latini, dai poeti dalla lingua locale, i romani Gioacchino Belli e Trilussa, fino all’indimenticabile e popolarissimo Aldo Fabrizi, che già nella stazza denunciava, come dice il poeta Gianni Seviroli, la sua indole di buongustaio, accanto all’altro mito del cinema transteverino, Alberto Sordi, di cui ricordiamo la celebre frase rivolta agli spaghetti: ‘Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno…!’
D’accordo con lo scanzonato e con quel senso di leggerezza, di invettiva velata, di doppio senso dove il ventre erotico e il ventre gastrico a volte si confondono e si sovrappongono, ma in queste composizioni di ricette e sonetti mangerecci – come li chiama l’autore – c’è un utilizzo sorvegliatissimo e ricercato del verso, le terzine alternate a rime chiuse e aperte (o incrociate), a rime incrociate, le quartine, le sestine, lo strambotto, ottave a rime, insomma tutte le possibilità che gli offre la tradizione letteraria italiana dalla Commedia dantesca ai poemi cavallereschi rinascimentali, piegati ad un contenuto leggero che passa in rassegna tutti gli strumenti e tutti i prodotti alimentari che la nostra terra salentina e quella friulana (a Gorizia ha trascorso un ventennio della sua vita) possono offrire.
La pasta innanzitutto e i sughi, qui sovviene l’origine campana della compagna Tania che costituisce il pezzo forte – la splendida vocalità della sua voce viene accompagnata dai mandolini e dagli strumenti musicali della tradizione suonati da Gianni e dai figli Andrea e Albina nel complesso ‘Napolinaria’ – quando intona le canzoni strazianti d’amore e di passione.
E poi i prodotti semplici della terra, il pane, i pomodori che colorano i nostri piatti e la nostra vita, le verdure, melanzane, peperoni, ecc. la carne poca, il pesce accompagnato dalle linguine o preferibilmente dagli spaghetti. Intorno alle ricette minuziosamente descritte in rima e poi spiegate dettagliatamente negli ingredienti e nel procedimento, si costruisce una storia attinta dalla tradizione o dal repertorio classico, mescolando i ricordi familiari, le leggende popolari e i miti del mondo antico (Polifemo e Ulisse).
E dalla storia antica che Gianni Seviroli inizia il suo percorso culinario nelle pietanze che già si vedono fumare sul nostro desco, salvo dimenticare – come fa Nerone – l’abbacchio nel forno e provocando così l’incendio di Roma, attribuito poi per comodità ai cristiani. Non poteva certo dire che era colpa del suo forno! Fino alla resurrezione di Cristo dovuta oltre che alla sua santità, come Figlio del Padre, anche ad una briciola della pastiera che la madre aveva portato come dono funebre ai piedi della sua tomba da consumare secondo le usanze del tempo. Ironia e ambiguità delle parole e dei significati, Seviroli innesta su un retroterra dotto e fantastico la sua pruriginosa visione della vita, ridendo di tutto come sanno fare i veri poeti e cantastorie del mondo.
Gianni Seviroli, Il Poeta Buongustaio, 30 storie e ricette tradizionali in rime 20 sonetti mangerecci, Edizioni Panico, Galatina (Le) 2012, pp. 174, € 16,00.