di Armando Polito
In principio c’era l’hortus, in italiano orto, cioè quel piccolo o medio appezzamento di terreno, spesso adiacente alla casa, recintato da muro o da siepe e destinato alla coltivazione di erbaggi e piante da frutto.
L’aspirazione iniziale in hortus denunzia la sua parentela con il greco χόρτος (leggi chortos)=recinto per il pascolo, terreno da pascolo, erba, nutrimento.
Poi in latino quel concetto di adiacenza, di compagnia presente nella precedente definizione di orto trovò espressione nel composto cohors=coorte, formato da cum=con e da hortus. La coorte [da cohòrte(m), accusativo di cohors), infatti, era l’unità della legione romana formata da tre manipoli e sei centurie.
E da cors, variante di cohors [anzi dal suo accusativo corte(m)] nacque corte che, recuperando il significato pacifico dell’antenato greco χόρτος, designò lo spazio attiguo alle case coloniche, cinto da siepe o muro, da cui si accede alla stalla. La voce dialettale salentina è maschile plurale (li curti) e forte sarebbe la tentazione di ipotizzare che il genere sia un ricordo di quello della voce greca (che è maschile) se non fosse quasi certo che è un adattamento dall’italiano le corti indotto da quella desinenza -i apparentemente maschile (in realtà è dal latino plurale cohortes).
Sbaglieremmo se considerassimo la corte strettamente legata al mondo contadino. Ne è riprova il modello abitativo condominiale che in passato era particolarmente diffuso tra le classi meno abbienti: la cosiddetta casa a corte, oggi considerata come un esempio di archeologia urbana, ove il cortile interno ospitava di norma i servizi comuni (il pozzo, la pila e l’eventuale fossa destinata al travaso dei rifiuti organici provvisoriamente depositati nel water dell’epoca, lu càntaru).
Bisogna riconoscere, però, (magra consolazione!) la democraticità della parola che, nata contadina, indica pure la residenza di un sovrano e più spesso, in senso collettivo, la sua famiglia e tutto il seguito; e poi una sfilza di titoli di alcune magistrature giudicanti, come, per citare solo quelle che mi vengono lì per lì in mente, corte d’appello, corte costituzionale, corte marziale. Nemmeno la sfera del divino si salva con la corte celeste.
Stavo per dimenticare, poi, la corte, cioè quell’insieme di atteggiamenti gentili (sinceri se frutto di innamoramento, ipocriti se dovuti al calcolo), considerati tipici, se non esclusivi, degli uomini di corte, cortesi appunto, messi in atto per conquistare (sentimentalmente e non solo) qualcuno.
E poi, come non ricordare,, dato che il fenomeno è tutt’altro che obsoleto …, la cour des miracles (corte dei miracoli) che nella Parigi medievale designava la zona popolata da gente equivoca e da mendicanti, i quali durante il giorno si fingevano ciechi, storpi e chi più ne ha più ne metta, disfacendosi “per miracolo” di notte delle loro mentite infermità?
In questo continuo slittamento dalle stalle alle stelle poteva la voce mancare nell’inno nazionale (… stringiamoci a coorte …)? Benigni tempo fa stigmatizzò la tendenza a sostituire il corretto coorte con corte, che, come abbiamo visto, ne è la forma contratta. Però da lui, che si considera o è considerato di sinistra, mi sarei aspettato ben altro e, cioè che, dopo aver chiarito che la monarchia (corte) con l’inno non ha (o non dovrebbe avere …) nulla a che fare e che coorte vuole esprimere la compattezza di un popolo deciso a far valere i suoi ideali, primo fra tutti la libertà, da lui, dicevo, mi sarei aspettato una noterella filologica sui natali contadini di questa parola …