LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
LI SANTI A ‘NDINIEDDHRU
Il teatrino dei guitti che col carrozzone, di tanto in tanto, allietavano i pomeriggi domenicali, si basava su delle figure statiche (i santi, interpretati dagli stessi guitti) che – a tende abbassate , nel segreto di cinque cabine – andavano indovinate solo attraverso suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo.
GUSTO DELLA SCOMMESSA
ED OSTENTAZIONE DELLA CONOSCENZA SACRO-CULTURALE
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Fra gli spettacoli piazzaioli che di quando in quando interrompevano la monotonia delle domeniche paesane offrendo ai contadini un gradito diversivo al loro abitudinario incontrarsi, bere un quarto di vino assieme e parlare di lavoro, il più elettrizzante era “Lu tiatrìnu ti li santi a ‘ndiniéddhru” (“Il teatrino dei santi da indovinare”). E questo non perché offrisse un maggiore divertimento, che anzi, al confronto delle spericolate esibizioni dei funamboli, delle clownesche uscite dei saltimbanchi o delle lunghe tessiture dei cantastorie, poteva dirsi misero – basato com’era su delle figurazioni statiche e prive di un qualsiasi commento verbale -, ma per la capacità di coinvolgimento che esercitava. Una forza dovuta unicamente alla formula d’impianto, studiata in modo di garantire agli spettatori, oltre al godimento della fruizione – comune a tutti gli spettacoli -, la possibilità di una partecipazione nonché esibizione personale, con ciò venendo a centrare quelli che – al riguardo – erano i due punti sensibili della psiche contadina: il gusto della scommessa sostenuto dalla speranza di una vincita, e la soddisfazione di potere pubblicamente ostentare la personale conoscenza sacro-culturale acquisita attraverso li cunti ti li santi patriarchi (i racconti dei santi patriarchi), al cui tramando orale scrupolosamente attendevano gli anziani ritenendolo inescludibile patrimonio del sapere familiare.
Era infatti sulla rappresentazione di personaggi arcaico-biblici o neotestamentari che il suddetto spettacolo si imperniava, ovviamente privilegiando quelle figure che per particolari storici o peculiarità di culto, risultavano impastati agli interessi dell’ambiente agricolo e quindi più facilmente riconoscibili per i contadini.
“Sta éspira, a mmiènzu a lla chiazza, si sciòca a lla ndinàta ti li santi!…” (“Questo pomeriggio, in piazza, si gioca a indovinare i santi!…”), proclamava il banditore prontamente assoldato dai girovaghi, i quali, a maggiore furbizia pubblicitaria, calcolavano a che il loro carrozzone, reso sgargiante da fitte decorazioni a più colori, facesse irruzione nella piazza del paese quando – trattandosi come già detto di mattinata domenicale – i contadini si affollavano attorno alle bancarelle ti li picuràri (dei pecorai) per acquistare la ricòtta ‘scante (la ricotta piccante), antonomastico condimento dei maccheroni festivi. Acquisto pressoché doveroso, quasi rituale – ogni domenica alla stessa ora – e della cui importanza ci si poteva rendere conto osservando con quale trionfalismo ognuno imboccava la via di casa, reggendo a palma aperta e il più in vista possibile quell’involucro di carta gialliccia che i venditori, nella loro acquisita maestria, usavano sistemare a cono, mai rinunciando al vezzo di arrotolarne la punta estrema a mo’ di ricciolo.
“Menu la carta si la suca, cchiù ssapurìta gghéte!” (“Meno ne assorbe la carta, più intatto rimane il sapore!”), dicevano a giustificazione dell’acquisto rimandato da tutti all’ultimo momento.
Stando a quanto raccontavano i più anziani, l’irrompere in piazza del policromo carrozzone, solennemente trainato da due cavalli bianchi più che impennacchiati, era qualcosa di fascinoso, uno sprazzo beneficiale che secondo noi poteva trovare parametro di confronto solo nell’improvviso apparire dell’arcobaleno in un cielo plumbeo. E di atmosfera grigia, anzi decisamente cupa, si può veramente parlare per poco che ci si cali a immaginare quale era lo scenario domenicale delle piazze paesane: un formicolio di uomini rigorosamente vestiti di nero, neri anch’essi nei volti cotti dal sole e aggressivamente incorniciati dallo sparato delle camicie bianche rifinite con colletti flosci e con pistagne a llengua ti sirpìula (a lingua di serpe). Uomini compassati ma intimamente protesi ad un gioioso recupero dello spazio-piazza, che da luogo di soggiogamento nei giorni feriali (le dolorose attese per un ingaggio di lavoro) si tramutava in luogo di compensazione nei giorni festivi, innescando – sia pure in termini di approprio minimale – il piacere di vivere.
“Scià mmangiàti cu lla salùte… ma no bbi scirràti ca sta éspira bbi spetta lu tiatrìnu ti lisanti a ‘ndiniéddhru…” (“Andate a mangiare con la salute… ma non vi dimenticate che a vespro vi attende il teatrino con i santi da indovinare…”), ripeteva e ripeteva il capoguitto piantato an sèddhra ti lu carruzzòne (in sella al carrozzone); e le parole, soffiate nel megafono, acquistavano risonanze magiche, si facevano nenia di accompagnamento nel tragitto verso casa, automaticamente venendo a creare un processo psicologico di fusione fra la voluttà del pranzo festivo e il divertimento pomeridiano. In sostanza, nell’assunzione dogmatica di un positivo da non lasciarsi sfuggire in quanto momento utilitario del ‘godere’, la soddisfazione corporale dell’ingurgitare cibo defluiva nella soddisfazione mentale del potere intascare vincite, per cui i contadini, concluso il pranzo, avrebbero saltato il domenicale appuntamento con gli osti (abituali mungitori delle loro tasche) assicurando il successo allo spettacolo, la cui maggiore o minore riuscita, per i girovaghi, era da calcolarsi in base all’entità e quantità delle scommesse avanzate.
Al primo scampanio del vespro la piazza tornava ad animarsi, rapidamente passando dal vuoto al pieno per quella caratteristica propensione dei contadini di muoversi a sciame, quasi urgesse in loro la necessità di una reciproca rassicurazione o – forse più esattamente – la coscienza di un’inviolabile coesione dai riflessi mitico-tribali.
“Inìti!… Inìti!…” (“Venite!… Venite!…”), li incoraggiava il capoguitto stretto al suo inseparabile megafono, e incalzando negli inviti, finiva sempre con l’atteggiarsi a vate:
“Inìti inìti, facìtibbe nnanti…
li santi so’ rriàti… so rriàti li santi!…
Inìti tutti ntisiunàti a ndinàre…
li santi stà spèttanu… ncignàmu a sciucàre!”
“Venite venite, fatevi avanti…
i santi sono arrivati… sono arrivati i santi!…
Venite tutti, intenzionati a indovinare…
i santi stanno aspettando… iniziamo a giocare!…”
Declamazione scenograficamente coronata da tutta una serie di salti acrobaticamente effettuati nell’esiguo margine frontale dell’impalcatura, approntata in modo più che rudimentale: un lungo tavolato sul quale erano state sistemate – una addossata all’altra – cinque piccole cabine al cui interno, a tende abbassate e nella massima segretezza, i girovaghi avrebbero indossato i panni dei santi o patriarchi che ad ogni turno di spettacolo intendevano proporre.
Il vero mordente del gioco stava però nel fatto che al riconoscimento si doveva pervenire non attraverso una facilitante visione del figurato, bensì mediante suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo o patriarca che fosse. Un muoversi sul piano delle probabilità reso più complicato dalla furba regia dei girovaghi, maestri nello scegliere suggerimenti sonori riportabili a più personaggi e quindi, nella loro polivalenza, incentivatori di quella che era la problematica della scelta.
Quando l’imbonitore – previo un suono di trombetta – annunciava “Ntisàti li rècchie ca ncigna la sunàta” (“Drizzate le orecchie che sta per iniziare la suonata [il suggerimento sonoro]”), sulla piazza calava una cappa di silenzio, ma non appena, fatto ascoltare la prima enigmatica proposta, lo stesso imbonitore – questa volta battendo sul tamburo – invitava “Facìtibbe li cunti ca lu ntisu ete ntisu!” (“Fatevi i conti [regolatevi nella scelta] ché quanto avete udito non viene ripetuto!”), divampava un passionale incrociarsi di ipotesi, venendo ad ognuno spontaneo supporre – ad alta voce – non uno ma più santi.
Se da dietro la tenda abbassata si era udito uno sbattere d’ali, si poteva trattare dell’angelo sceso ad annunziare l’incarnazione del Verbo, di san Francesco che dialogava con gli uccelli, di Santa Cesarea, iconograficamente illustrata con due colombi posti in un catino, di san Giovanni raffigurato in compagnia di un’aquila, o addirittura di san Giuseppe da Copertino, le cui mistiche levitazioni non potevano essere sonoramente raffigurate se non proprio attraverso uno sbattere d’ali simboleggiante il volo. Allo stesso modo, un tintinnare di ferraglie poteva riferirsi tanto alla spada di san Michele Arcangelo quanto alle catene con le quali santa Marina imprigionava il diavolo; né c’era da escludere si trattasse di san Pietro intento a scuotere le sue chiavi o di sant’Eligio che, per essere il protettore dei maniscalchi nonché fugatore degli gnomi imperversanti nelle stalle, era in pertinenza con lo sferragliare delle staffe.
Perplessità di orientamento alle quali non di rado venivano a sommarsi individuali titubanze a carattere superstizioso: di contrasto all’incoraggiante pensiero “Lu santu ca scòcchiu mi juta a bbincìre” (“Il santo che scelgo mi aiuta a vincere”), poteva insorgere la paura di alienarsi la simpatia dei santi esclusi, con lo sgradevole risultato che, tanta colpa di omissione, se la sarebbero ttaccàta a llu tiscitièddhru (legata al mignolo) per poi agire a scurdàta tua e rricurdànza mia (quando tu ti sarai dimenticato del torto fattomi). E questo soprattutto quando l’imbeccata sonora portava alla visualizzazione mentale di santi i cui patrocini erano specificatamente applicati al mondo agreste!
L’abbaiata di un cane suggeriva tanto l’identificazione di san Vito che proteggeva dall’idrofobia, quanto quello di san Rocco che nel curare gli appestati si era servito della coadiuvazione di un cane; così come la gracchiata di un corvo metteva in dubbio fra la scelta di sant’Antonio abate – che eremita nel deserto si era nutrito del pezzo di pane quotidianamente recatogli da un corvo -, sant’ Espedito, raffigurato con un corvo sotto i piedi, e il patriarca Noè che, per controllare il decrescere delle acque del diluvio si era appunto servito di un corvo. Figura, quella di Noè, che proprio perché associata al diluvio universale, tornava prepotentemente in campo quando dal retrotenda partiva uno sciabordio di acque dando esca a varie congetture: Noè alle prese col diluvio, o Mosè che divideva le acque del mar rosso? Il profeta Giona che usciva dal ventre della balena o san Cristoforo che oltre ad essere stato traghettatore, attestava un suo dominio sulle acque difendendo i campi dalle inondazioni? E come regolarsi fra Sant’Antonio di Padova, che chiamava a raccolta i pesci, e san Pietro, notoriamente pescatore e oltretutto giunto naufrago alla costa di Bevagna a Manduria? Come non preferire san Pietro, patrùnu ti li zzappatùri (protettore degli zappatori) ai quali aveva promesso in proprietà le terre incolte di Arneo?
E chi si poteva trovare raffigurato dietro la tenda se si sentiva il ripetersi di un sibilo? Voleva essere un riferimento al serpe-drago ucciso da san Giorgio o un allegorico rifarsi alle frecce scoccate contro san Sebastiano? C’era santa Cristina, calata per martirio in una fossa colma di serpenti, amata come protettrice di Gallipoli, o san Paolo, esorcizzatore delle vipere e riconosciuto in assoluto come protettore delle tarantate?
C’è da aggiungere che la decisione andava presa in fretta – o momentaneamente accantonata -, in quanto il capoguitto, non avendo interesse a concedere tempo alla riflessione, era più che solerte nell’indicare la successiva cabina e tuonare il suo imperativo “Sciàmu ‘nnanti… passàmu a ‘ndinàre nn’àuru santu!…” (“Andiamo avanti… passiamo a indovinare un altro santo!..”. Né c’era da sperare che una volta ‘sonorizzata’ la quinta cabina ci fosse una ricapitolazione o quanto meno una pausa di stacco agevolante un esatto allineamento delle intuizioni: a ssicutàta ti fùrgulu (come inseguito da un razzo) esplodeva dal megafono il pressante sollecito “Manisciàtibbe…
manisciàtibbe a sciucàre… ca tiémpu no nci nn’éte ti pirdìre!…” (“Sbrigatevi… sbrigatevi a giocare… ché non c’è tempo da perdere!…”). E affinché l’invito ne uscisse non solo maggiorato nell’impellenza, ma anche nella sottintesa disponibilità all’esborso, il capoguitto virava in tondo sulla piattaforma dell’allettamento:
“Lu mègghiu ‘ncora l’iti a bbitìre… li santi bbi stà ffàcinu nna rizzàta t’uécchi… manisciàtibbe… ca lu mègghiu bbi stà spetta!… Lu mègghiu!…”
“Il meglio lo dovete ancora vedere… i santi vi stanno facendo l’occhiolino… sbrigatevi… il meglio vi sta aspettando!… il meglio!…”.
Come nel risucchio di una irresistibile corrente, i giocatori si ritrovavano a fare ressa attorno al tavolino trincerato fra le stanghe del carrozzone, e a turno, citando in abbinamento numero di cabina e nome del santo prescelto, ognuno puntava speranzoso i suoi centesimi, sommetta che, in caso di vincita, gli sarebbe stata corrisposta al doppio.
“Ràzzia ti li santi pi nna furtùna a ccuécchiu!” (“Che la grazia dei santi ti sia di fortuna giunta su un cocchio [eccelsa, regale]!”), augurava lu struvìtu sciucalièri (il girovago giocoliere istruito) consegnando la ricevuta, di solito contrassegnata da un particolare marchio di riconoscimento a inchiostrazione rossa; e siccome vedeva che i più, una volta eseguito le puntate non si allontanavano nella curiosità di sapere quali erano in merito le preferenze altrui, o forse nello zelo di suggerire il nome del santo che più stava a cuore, per diradare la folla aggiungeva a mo’ di consiglio: “A bbà mmìntite a nnanti a llu fruntìle, ca cinca mègghiu ete mègghiu si la cote!” (“Va’ a metterti di fronte al palco, ché chi meglio può vedere, di più si gode lo spettacolo!”). Sollecitazione che via via convinceva tutti i giocatori, i quali, abbandonando il tavolino delle puntate, automaticamente riguadagnavano il centro della piazza, ansiosi e di assistere a quello che era il momento culmine dello spettacolo, e di conoscere l’esito delle scommesse.
“Ti santi nn’ìanu rriàti muti muti
ma sulu cinque si nn’anu trattinùti;
e mmo’ stà spettanu cu bbèssanu svilàti
pi’ ssapìre ci ui ll’iti ndinàti.
Sciàmu annànti a nglòria ti li santi!…
a nglòria ti li santi sciàmu annanti…
sciàmu annanti a nglòria ti li santi!”
“Di santi ne erano arrivati molti molti
ma solo cinque si sono trattenuti;
e adesso stanno aspettando di essere svelati
per essere da voi indovinati:
Andiamo avanti in gloria dei santi!…
in gloria dei santi andiamo avanti…
andiamo avanti in gloria dei santi!”.
In ogni cabina un santo, e ogni santo acconciato non solo in modo da richiamare e quindi giustificare il suggerimento sonoro usato per indicarlo, ma anche di relazionare l’area fulcro del suo patrocinio, ovverosia l’ambiente campagnolo evidenziato tanto nella caratteristica della posa, quanto nella specificità dell’abbigliamento. Una sfilza di statue viventi che anziché dettare un sia pure larvato senso di sacro, suggeriva l’idea che dei contadini in vena di festeggiare il carnevale, avessero deciso di mascherarsi da santi, in più non usando nessun accorgimento di mimetizzazione, per cui contadini erano e da contadini continuavano a presentarsi. Tanto per fare qualche esempio, la rappresentazione di san Paolo (gettonatissimo in quanto notoriamente esorcizzatore delle vipere) non aveva nulla a che vedere con l’ecclesiale raffigurazione del dotto apostolo delle genti: era uno dei tanti santoni campagnoli che pretendevano di agire in suo nome, nnu carmàtu [1], appunto, che al posto dell’usuale libro delle epistole reggeva in mano nna pinnalòra russa (un sacchetto rosso) alludente alla fatidica terra di Malta (contrabbandata per miracolosa) e con attorcigliata al collo una sacàra (vipera) di pezza, tanto più significativa, quanto più si presentava “rossa, longa e ppintisciàta” (“grossa, lunga e macchiettata”).
Allo stesso modo santa Cristina: per avere condiviso con san Paolo il suono indicatore imperniato su dei sibili in quanto durante il martirio era stata calata in una fossa colma di serpenti, era una delle tante contadinelle che s’incontravano sui viottoli campestri: il simbolo della sua verginità si concretizzava in un fazzolettone bianco annodato a lla ricciòla e quello del suo martirio in un rosso grembiule da spigolatrice pieno non di spighe ma di budellini colorati che volevano simulare serpenti d’ogni genere.
E così per san Vito, san Cristoforo, sant’Antonio abate ed altri, tutti i santi, insomma che presiedevano a patrocini specifici o avevano attinenze con le colture e necessità salentine.
Alla visione e conoscenza dei cinque santi proposti si giungeva man mano, quasi misteriosamente, attraverso un oscillare di lucerne accese all’interno delle cabine, un chiarore che sempre più forte batteva sulle tende finché queste, di colpo e tutte insieme, cadevano, suscitando un collettivo quanto prolungato “Ohhhhh!…” di meraviglia.
Nella scelta delle possibili congetture c’era sempre chi azzeccava quella giusta, ma i veri vincitori della partita erano sempre i guitti, anche perché torna lecito supporre fosse loro più che facile redigere un rapido conteggio delle puntate e, data la sistemazione delle cabine intercomunicanti col carrozzone, supplire la figurazione più identificata con quella meno gettonata. Un maneggio agevolato dal fatto che, pur se non facevano parte di una vera e propria carovana, per la cospicuità dei loro nuclei familiari potevano permettersi di avere già belle e pronte diverse comparse da contrapporre alle scelte del popolo, che pertanto ne usciva sempre accontentato nel poco e gabbato nel molto.
“Aggiu intu!… Aggiu intu!… Carne e mmaccarrùni mannàti ti lu celu!…” (“Ho vinto!… Ho vinto!… Carne e maccheroni mandati dal cielo!…”), gridavano i vincitori, spesso chinandosi a toccare il suolo quale atto di venerazione verso il santo prescelto.
“Ah, ddhra puttana ti la furtùna!… Jàta a ccinca la nferra pi ccapiddhri!…” (“Ah, quella puttana di fortuna!… Beato chi l’acchiappa per capelli!…”), si lamentavano invece i perditori nervosamente cincischiando le loro coppole. Ma, sconfitta o non sconfitta, alla fine dello spettacolo – come a voler esorcizzare l’usuale grigiore che la solitudine della piazza amalgamava alla mortificazione dei cuori -, erano sempre in tanti ad affollarsi attorno al carrozzone per chiedere ai guitti:
“E mmo’ quannu turnàti? Lu ngiru ète luéngu? Nci mintìti mutu?”
“E adesso, quando tornate? Il giro è lungo? Impiegate molto tempo?”
1
Un incantato da S. Paolo.
Per una migliore assimilazione, leggi – della stessa autrice – “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, Laterza, Bari, 1994
Capitolo “Li carmàti ti santu Pàulu”, pagg. 27 – 81
Altri tempi, dove i sapori della vita erano ancora genuini. Oggi é un’ altra vita… migliore?