di Gianluca Fedele
Come certamente a molti di noi accade, ci si ritrova a conoscere un determinato artista per mezzo delle opere che realizza. Di coloro i quali mi appassionano le creazioni, da qualche tempo, mi capita sempre più spesso di domandare informazioni biografiche, se non altro per cercare di comprenderne i celati aspetti che si mescolano con le tinte delle tele esposte. Con Salvatore De Magistris è accaduto esattamente questo e la personale curiosità mi è valsa l’intervista che segue.
Mi sono ritrovato nello studio grafico di un amico che possiede – alcune in bella mostra, altre gelosamente custodite – varie opere del popolare pittore. Approfittando della conoscenza mi faccio raccontare brevi cenni sul profilo personale e artistico del maestro per poi, sfacciatamente, chiedere se possa intercedere al fine di una conversazione privata con l’autore.
Ci siamo incontrati la settimana successiva. Lui è in clamoroso ritardo rispetto all’orario pattuito, ma non glielo faremo pesare, è giusto che si faccia attendere. La giornata è piacevolmente soleggiata e insisto per un caffè al bar, tanto per metterci comodi e presentarmi. Salvatore dà subito uno stampo informale alla chiacchierata partendo immediatamente col raccontarmi di come sia difficile fare arte in un paese meridionale e della scelta di dividersi tra la sua città natale, Nardò, e Düsseldorf (Germania).
D.:
In che modo ha inizio il tuo percorso artistico?
R.:
Devi sapere che già da ragazzino ero molto dotato: capii di saper disegnare quando, frequentando le scuole medie, mi capitava di scambiare i compiti di educazione artistica con temi di italiano o traduzioni di inglese. Per quanto riguarda invece la matematica me la cavavo benissimo da me.
Erano, quelle di allora, delle raffigurazioni ancora acerbe, ma tuttavia fu così che mi feci qualche soldino extra. Vendevo i miei bozzetti soprattutto a qualche vicino di casa, per avere la possibilità di acquistare altre tele e altri pennelli. In quello stesso periodo realizzai il primo studio di pittura sopra la mia abitazione.
Col tempo mi trasferii a Milano e da lì prese il via la mia vera e propria esperienza artistica.
D.:
Quali sentimenti hanno dato forma alle tue prime opere?
R.:
Iniziai credendo, abbastanza ingenuamente, che bastasse imitare, copiare i grandi maestri del passato come De Chirico, Mirò, Rembrandt o Kandinsky per ottenere qualcosa di simile alla notorietà, ma mi resi conto subito di quanto lontano fossi dalla realtà.
Durante un incontro con un famoso gallerista, per esempio, mi presentati portando una mia riproduzione del famoso dipinto di Dalì “Metamorfosi di Narciso” – al quale personalmente attribuivo notevole importanza data l’alta qualità e l’impegno che avevo profuso nella realizzazione – ma l’uomo, senza usare mezzi termini, fece crollare subito ogni mio castello constatando, a giusta ragione, che una copia resta pur sempre tale e priva di valore a prescindere da quando sia stata fedelmente riprodotta. Comunque non rinnego quelle opere, e sarebbe stupido farlo, poiché fanno pur sempre parte della mia formazione.
D.:
Tra gli artisti celebri che hanno condizionato le tue scelte artistiche quali ricordi?
R.:
Sicuramente Pablo Picasso e Amedeo Modigliani, Con la loro pittura, che definirei “gestuale”, hanno scalfito più efficacemente rispetto ad altri nelle aspirazioni di quel trasognato fanciullo che fui.
D.:
E la svolta quando è arrivata?
R.:
Quasi per caso trovai, sulla rivista mensile “Arte” della Mondadori, un concorso di pittura indetto dalla stessa Casa Editrice il cui risultato era dato dall’esito di un’asta pubblica. Io forse vi partecipai per noia, certo di addentrarmi in questa esperienza come ci si può imbattere nell’inferno di Dante: senza speranza di morte. Bèh, tu non ci crederai, fui premiato. E non ci credevo neppure io!
Quelle tele, che erano il frutto di tecniche per me del tutto sperimentali, rappresentavano ciò che il mercato pretendeva da me. Quella fu la tecnica che feci mia e che tutt’ora adopero per la stragrande maggioranza della produzione.
Grazie al concorso sopra menzionato già dall’anno 1993 le mie opere sono contenute all’interno dei cataloghi degli artisti contemporanei quotati.
D.:
Mi parlavi di Milano: cos’altro è accaduto lì?
R.:
Mi fu di grande aiuto la parentesi milanese per migliorare, per affinare la tecnica e per comprendere meglio le meccaniche, talvolta perverse, che muovono il Sacro Olimpo dell’Arte. Per circa venticinque anni stetti sotto l’ala di un importante mercante d’arte, che naturalmente lucrava sui miei dipinti e per questa ragione dovevo necessariamente produrre “a macchinetta”. Il meccanismo era semplice: per ottenere pezzi importanti da rivendere ai suoi clienti arrivava a scambiare diverse decine di miei dipinti per un Guttuso, o un’opera di Salvatore Fiume, molto commerciali già all’epoca.
Sicuramente la mia produzione durante quella lunga fase fu altissima e il valore fisiologicamente più infimo ma, ciò nonostante, non sarei quello che sono oggi se non avessi fatto quell’esperienza.
D.:
In Germania come ti ci sei ritrovato?
R.:
In quel periodo ero rientrato a Nardò per seguire mia madre durante la malattia durata tre lunghi anni, che la portò poi alla morte, e a Milano non mi erano rimasti più contatti, poiché anche il mercante di cui sopra era venuto a mancare. Ero solo e coi soldi contati, ma la voglia di rimettermi in gioco non mi mancava affatto.
Scelsi la Germania come banco di prova, per la sua rigidità e la serietà con la quale il suo popolo proverbialmente opera. Volevo capire se ero degno di continuare a dipingere o, viceversa, avessi dovuto abbandonare l’arte per dedicarmi ad altri mestieri.
Arrivato a Düsseldorf trovai un grande locale di circa 250 mq il quale si prestava perfettamente alle mie esigenze; facendo due conti in tasca calcolai che le mie forze mi avrebbero permesso di prenderlo in affitto per sei mesi al massimo; ciò vuol dire che se malauguratamente qualcosa fosse andata storta e si fosse volta al peggio io mi sarei ritrovato ad aver dato fondo ad ogni risparmio accumulato sino a quel momento.
D.:
Deduco che i tedeschi abbiano apprezzato il tuo modo di dipingere.
R.:
I tedeschi rappresentano un modello da questo punto di vista: non entra nessuno nella mia galleria se non si è prima informato su chi io sia, sono scientifici. Quando vengono non tergiversano, arrivano subito al sodo senza perdere tempo e sono dei pagatori impareggiabili. A questo proposito ricordo un aneddoto che ancora mi diverte raccontare al fine di qualche facile paragone: proprio agli esordi ero seduto alla scrivania del mio atelier quando entrò una donna molto distinta. Ella fece un giro veloce all’interno soffermandosi su un’opera 20 x 30 che evidentemente l’aveva attratta. Stette a meditare per pochi secondi e uscì. Non sarà passata un’ora da quando era andata via che la vidi rientrare in compagnia di un uomo. I due mi manifestarono immediatamente l’intenzione di voler acquistare il quadro – del quale conoscevano il costo perché lì le quotazioni sono esposte pubblicamente – porgendomi una busta contenente l’intera somma.
Nel mentre che lo confezionavo feci mettere comodi i signori offrendo un caffè e poi, come segno di cordialità, mi presi la libertà di applicare un sottile sconto restituendo una banconota dalla busta che mi era stata consegnata. Evidentemente l’azione dovette apparire come un grave sgarbo perché l’accompagnatore si indignò non poco del gesto e mi fece capire che, accettando il denaro, avrebbero dovuto screditare il valore dell’opera stessa. A quel punto cercai di spiegare che noi meridionali siamo fatti così e che “offrire un caffè” fa parte della nostra cultura. La donna sorrise e disse che le bastava quello nella tazza.
D.:
Veramente divertente e significativo questo aneddoto. Qualche altra esperienza a Düsseldorf?
R.:
Forse è doveroso che io dica grazie alla Germania per avermi fatto incontrare la mia compagna, Heike Waltraud Ruske, con la quale ci siamo conosciuti proprio per mezzo della mia arte. Heike aveva bisogno di un grande dipinto da inserire all’interno della sua abitazione. Voleva qualcosa di specifico da contestualizzare in un grande salone e io, non avendo nulla di pronto da adattare alle sue esigenze, mi proposi di fare un sopralluogo e constatare personalmente quali tematiche e quali colori si prestassero meglio a quell’ambiente. Mi misi all’opera e finiti i lavori le telefonai per la consegna. La sua reazione di manifesta soddisfazione mi stupì non poco perché personalmente non dò molta importanza a ciò che realizzo su commissione. Accettai quindi molto volentieri l’invito a trattenermi e parlammo di molte cose. Tantissime furono le domande che mi rivolse: era sinceramente stupita dal fatto che un artista, un pittore per giunta italiano si trovasse in un paese rigoroso come la Germania. Si appassionò talmente alla mia storia che decise di mettermi a disposizione gli innumerevoli contatti che aveva, oltre che tutte le risorse che credeva mi potessero tornare utili.
A seguito di quanto raccontato non posso dire quindi che l’attuale notorietà di cui beneficiano i miei dipinti all’estero siano frutto esclusivo del mio operato; senza il suo aiuto, la sua tenacia e il suo amore sarei tornato a casa molto prima. Le sono, per questo, estremamente riconoscente.
D.:
Ora potremmo dire che hai raggiunto un equilibrio nella tecnica. Sapresti collocarti in una corrente artistica? Se si, quale?
R.:
Francamente trovo riduttivo dovermi circoscrivere all’interno di una sola categoria di artisti perché i miei quadri sono frutto della mia confusione. Qualcuno erroneamente mi definisce un impressionista ma onestamente non mi calza affatto. Io mi sento più vicino alla Pop art di Mario Schifano, con la sua pittura materica fatta di colori abbondanti e pennellate decise.
Ora non sto asserendo di riuscire a collocarmi tra gli artisti Pop. La mia è un’arte concettuale veramente troppo caotica da riuscire a identificarla.
D.:
E oggi quali sono le fonti di ispirazioni che fecondano le tue tele?
R.:
Quando dipingo mi lascio influenzare da ciò che non si vede, soprattutto da certe espressioni che si nascondono – forse per vergogna – sotto le maschere della quotidianità; quegli sguardi che vengono in superficie quando poi restiamo soli. Ed ecco spiegati i volti apparentemente femminili, dai tratti androgini, spigolosi, quasi asessuati e volutamente asimmetrici che si ripropongono come fantasmi a bucare la tela. “Espressioni senza presenza” li chiamo.
D.:
Vi è uno studio a ridosso di questa delicata tematica o solo una spiccata sensibilità?
R.:
Per risponderti devo fare una digressione verso quella Milano che anche in questo caso favorì i miei “studi pratici”, quelli che nessun insegnante mi avrebbe saputo esporre bene come la vita ha fatto.
In quegli anni intrattenevo amicizie con ragazze – molte del sud Italia – giunte nella metropoli per necessità e che si erano ritrovate costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Di quelle anime mi incaricai di scrutarne ogni aspetto e le singole storie, quasi a immedesimarmi in una prostituta che in fondo prostituta non è.
Da quel lungo e per certi versi complicato studio partorii le figure che ora individuo nel tema “sola ma mai triste”: ragazze seminude, con la schiena curvata, chine su se stesse e coi capelli rigorosamente a coprire il volto quasi in atto di vergogna.
Poi, nel 1997, fui sconvolto dalle tragedie legate a Gianni Versace prima e Lady Diana dopo. Della seconda fui un grande ammiratore per via della vita intricata di scandali che condusse e quell’aria spesso malinconica; di Versace invece mi incuriosivano più i ragazzi che sceglieva come modelli: fisionomie quasi finte, ambigue, al limite della bellezza maschile ma con delle marcate note di femminilità. Dipinsi giustappunto un quadro dal titolo “Modelli di Versace” a cui tengo molto e che è esposto a Düsseldorf.
D.:
Vediamo ora gli aspetti che interessano artisti e possibilità di continuare a produrre. Vorrei sapere, per esempio, come le gallerie d’arte gestiscono le produzioni di chi espone.
R.:
Forse preferirei non rispondere ma sarò schietto finché posso: nella realtà dei fatti, per la maggior parte di chi produce arte, è come se non esistesse affatto alcun mercato. E quando compare la possibilità di esporre o vendere è solo perché a muoversi sono gli interessi di un mercante o di qualche altro mediatore. Chi opera in questa maniera, sfruttando un artista – che sia pure il madonnaro della festa – non comprende che così si ottiene solo l’annientamento fisiologico dell’estro artistico.
Per ciò che concerne le gallerie (parlo ovviamente delle mie esperienze), non hanno certamente la funzione che uno s’immagina, almeno per gli addetti ai lavori. Per un gallerista l’artista è null’altro che merce, “usa e getta” oltretutto.
D.:
Da questa risposta posso trarre che il territorio ti abbia deluso?
R.:
Io sono profondamente legato al territorio, alla nostra Nardò in particolar modo, che per me è sempre grande fonte di ispirazione, però c’è altro obbiettivamente, oltre ai paesaggi e alla “vegetazione umana”. Non vorrei utilizzare sempre un solo termine di paragone ma la Germania è il paese che conosco: lì gli artisti ricevono dei sovvenzionamenti, espongono gratuitamente e sono valorizzati; io posso affermare, senza il timore di essere smentito, di non aver mai coinvolto alcuna autorità a Düsseldorf. Eppure durante le mie esposizioni pubbliche ho appurato la partecipazione di personalità rilevanti e perfino le testate nazionali mi hanno dedicato fiumi di parole, spontaneamente.
Sono amareggiato per gli amici artisti che stimo, questo si, perché restando qui, tra i luoghi che amiamo, sono costretti giocoforza a prostituire il loro estro, svilendolo.
D.:
Quali sono gli artisti contemporanei locali che guardi con maggiore interesse?
R.:
Sicuramente non si può dimenticare il maestro Ercole Pignatelli, un nome ormai echeggiante sul palcoscenico artistico internazionale. Tra i pittori emergenti, invece, credo sia degno di nota Marcello Malandugno, un concittadino che si sta muovendo bene e nelle cui raffigurazioni mi lascia intravedere ragguardevoli potenzialità.
D.:
E del passato?
R.:
Ricordo con affetto Arturo Santo pittore semi-impressionista che seguivo molto da ragazzo e il delicato scultore Lilì De Benedittis recentemente scomparso.
D.:
Chiudiamo questa intervista filosofando: vorrei sapere qual è, secondo te, la maniera con la quale l’Arte può veicolare il cambiamento della società.
R.:
Innanzitutto credo che non ci sia nessuno esente dalla sensibilità nei confronti dell’arte ma tutti dovremmo imparare ad ascoltare ed esaltare quelle note emotive che essa provoca. Questo esercizio consentirebbe alla società di valorizzare chi l’arte la produce con convinzione, giorno dopo giorno, sperimentando principalmente su se stesso tutto ciò che consegue una vita alla ricerca di stimoli e ispirazioni.
Complimenti Salvatore, verrei a trovarti volentieri a Dusseldorf presso il tuo studio se potessi ma mi trovo qui a Tricase che è troppo distante e sulla sponda opposta a quella di Nardò come opposta è la rappresentazione della mia pittura: Espressionismo mi dicono ma io non ci bado molto a queste cose, l’arte, se c’è, si manifesta così com’è e se ne frega delle formalità. Tanti auguri e saluti da Ezio Sanapo.
Saluto il pittore De Magistris che stimo, e gli auguro un sicuro avvenire! Ercole Pignatelli .
Ho una galleria a casa
E ho qualche suoi quadri in vendita :))
Ho conosciuto l’artista negli anni 90, in occasione di una sua mostra allestita a Nardó. Apprezzai molto l’ospitalità che diede a mia figlia Manuela (le mise a disposizione, nel suo studio, il materiale per dipingere un quadro: scoprii la vena artistica di mia figlia). il giorno dopo comprai un suo quadro soprattutto perché trovai attraente le figure dei volti semi nascosti, enigmatici: gli augurai che avesse successo non solo a Nardó, come poi è avvenuto, perché si proponeva con un entusiasmo coinvolgente.