di Mariano Maugeri
Il mal di Salento s’insinua anche in chi salentino non è. «Dopo di noi c’è solo l’Albania», scherzano con una battuta gli autoctoni, enunciando più o meno consapevolmente un manifesto di insularità. Una concezione alta di sé che qui coltivavano quando il resto d’Italia confondeva il Salento con il Cilento (la fascia costiera a sud di Salerno), quando pure i bollettini meteorologici indicavano come Puglia meridionale. Ora è, per tutti, il Salento, terra della Taranta, la summa di un’antropologia consegnata al mondo dal saggio “La terra del rimorso”, in cui Ernesto De Martino – quasi a sancire un legame ombelicale con Matera e la Lucania – narrava la singolare mescolanza tra razionalità e magia, l’unione della fascinazione stregonesca con lo spirito religioso da cui è nata la civiltà moderna. Lecce è costruita per stupire. I ricami della natura e quelli del barocco si rincorrono come in un esercizio di stile offerto dai Borboni e da Dio. Due poteri che scelsero di essere rappresentati da un’architettura che ammutolisce.
La penisola salentina è un oceano di luce, la successione di uliveti piantati sulla terra rossa che precipita nelle acque cristalline dello Jonio e dell’Adriatico. Una terra estrema sempre in cerca di una relazione tra misura e dismisura, miseria e nobiltà, alba e tramonto, che qui distano meno di una giornata di cammino. «Questa è la terra dell’ospitalità» arringa Luciano Barbetta, imprenditore di Nardò con laurea in Sociologia alla guida di un’azienda che confeziona capi per le grandi griffe della moda, da Gucci a Cucinelli.
Alfredo Foresta, architetto, erede di una famiglia di costruttori e inventore con il direttore artistico della candidatura, Airan Berg, della galleria di Eutopia, si spinge più in là e traccia su un foglio di carta le distanze che separano Lecce da Bari, Milano, Istanbul, Atene. Una sorta di rosa dei venti geopolitica dalla quale è nato un oggetto di design, un tavolo di ferro e cristallo, che ribadisce anche ai più distratti il ruolo di una città piantata tra i balcani, il levante e il Mezzogiorno. Racconta Foresta: «Di fronte alle ondate di stranieri che nel corso dei secoli occupavano le nostre terre, avevamo solo due armi di difesa: sorridere o scappare». Foresta è un affabulatore e attinge a piene mani dalla scuola retorica greca e dalla critica serrata a tutte le convenzioni, quelle linguistiche in primis, di cui Carmelo Bene, leccese di Campi Salentina, fu interprete geniale: «Noi non siamo capitale della cultura, ma terra di cultura. Gente che non inventa nulla ma reinventa tutto».
Non è un caso che reinventare Eutopia sia lo slagan di Lecce e Brindisi 2019, un’altra alleanza per nulla scontata, dopo quella di Perugia-Assisi, con l’incantevole città-hub adriatica che vanta un porto e un aeroporto strategico eletto dalle Nazioni Uniti base operativa per le operazioni in Africa e Medioriente.
Le otto utopie di Lecce si declinano nei laboratori urbani gestiti da gruppi locali sul modello di quello creato da Foresta, popolato di start up e giovani designer che lo frequentano alle ore più impensate del giorno e della notte. Raffaele Parlangeli, capo del dipartimento programmazione strategica del Comune e coordinatore del comitato Lecce 2019, ha ideato un progetto a orologeria che ruota attorno alla smart city e ai fondi europei per il periodo 2014-2020. «La pianificazione marcia secondo i tempi previsti e può contare sulla partecipazione diffusa: cultura e innovazione sono i motori del cambiamento».
Quando si parla di cultura a Lecce è impossibile non imbattersi in Tito Schipa, il tenore dei due mondi al quale è intitolato il conservatorio. Il pianista Francesco Libetta, tra i più raffinati esecutori di Chopin e concertista giramondo, è un cultore della memoria musicale salentina. La sua piccola casa discografica, Nireo, è un catalogo delle voci e dei suoni del novecento: tra le ultime pubblicazioni un cd sui cantanti salentini del ‘900 e sulla tradizione musicale di Nardò. Lecce e il Salento sono l’incubatore di una scuola musicale che occupa un posto di primo piano in Europa, una storia lastricata di successi costretta a fare i conti con la cura dimagrante delle tre orchestre cittadine. L’unica sopravvissuta, precisa Libetta, è «a rischio chiusura». Anche il festival per pianoforte, gemellato con quello di Miami grazie alle relazioni internazionali del maestro leccese, è stato sospeso nel 2009 per mancanza di fondi. «C’è un impoverimento che colpisce i giovani», spiega Libetta.
Crisi o non crisi, di musica si nutre persino l’anfiteatro romano di piazza Sant’Oronzo, sormontato da palazzotti novecenteschi e razionalisti, una costruzione metafisica simile a un quadro di De Chirico. Su questo sfondo alle 12 di ogni giorno invece dei soliti rintocchi di campane si libera nell’aria la voce possente di Tito Schipa. Un’idea dell’ex sindaco Adriana Poli Bortone, tenuta giustamente in vita dal suo delfino e primo cittadino fittiano, Paolo Perrone, che meriterebbe una replica in molte città italiane. L’architetto Foresta interpreta l’ingresso di Lecce nella short list come un calcio di rigore concesso all’ultimo minuto. L’architetto sa già come andrà calciato. E mima con naturalezza un tiro “a cucchiaio” del celeberrimo repertorio di Francesco Totti.
(per gentile concessione dell’Autore)
di M.Mau. – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/SBuuWX
Il vero sognatore fa in modo che l’utopia (altro che la furbata dei giochi di parola con Eutopia!) possa diventare, sia pur parzialmente (altrimenti che utopia sarebbe), realtà. In questo senso non mi pare siano mai stati fatti dalle nostre parti passi in avanti e, quel che più conta, di ampio respiro (il pericolo delle elezioni ravvicinate è sempre incombente …).
È facile dirlo a cose successe, ma non posso fare a meno di far notare che il post, pur gradevolissimo alla lettura, ora rivela chiaramente il suo carattere pubblicitario e la sua sostanza, ahimé, puramente retorica (fosse stato menzionato un solo nostro difetto! …).
Il cucchiaio non è riuscito perché, evidentemente, il portiere, di qualità, non ha abboccato, conoscendo benissimo il/i rigorista/rigoristi e le sue/loro intenzioni del momento. E, se il cucchiaio ha fallito, pensate quanta possibilità di successo avrebbe avuto il dialettale “cuppinu” (corrispondente all’italiano mestolo) nel suo significato metaforico …