di Armando Polito
L’Euforbia characias L. e l’Euphorbia dendroides L. (immagini tratte, rispettivamente, da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=9656 e da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/download/file.php?id=22808.
Col nome generico di titimalo si indica in italiano un numero notevole di essenze appartenenti alla famiglia delle Euforbiaceee. Le due presentate nella foto di testa probabilmente sono le più diffuse sul nostro territorio.
Parto dal nome italiano che presenta anche le varianti titìmalo, titimaglio, totomaglio, tortomaglio. Titimalo è il capostipite di tutte le altre varianti che ne sono deformazione, come spesso succede con i fitonimi, di origine popolare e poi italianizzata. Titimàlo o titìmalo (a seconda che prevalga l’accento latino o quello originario greco) è dal latino tithymàllu(m), accusativo di tithymàllus, trascrizione del greco τιϑύμαλλος (leggi tithiùmallos); nella traduzione dei brani latini conserverò l’originaria doppia l e userò, perciò, titimallo. La voce è troppo lunga per essere semplice ma l’individuazione delle componenti non risulta facile, almeno per me; direi che in una ipotetica prima parte (τιϑυ-) è ravvisabile τιϑήνη (leggi tithene)=nutrice, che a sua volta è da θῆσθαι (leggi thestai)=allattare e che il secondo componente potrebbe essere μαλλός (leggi mallòs)=bioccolo di lana, vello, gregge, ciocca di capelli, chioma. Tutto ciò evoca il concetto del lattice che, come vedremo, di questa essenza è la caratteristica principale, ma il suo uso nel trattamento della lana è, purtroppo, assente in letteratura. Sulla improbabile la commestibilità di questa essenza per gli animali tornerò dopo. Per il momento basta ricordare il significato di gregge che μαλλός può assumere e, quando sarà il momento (cioè quando nel testo ci sarà il rinvio), andare a nota 2.
Dalle nostre parti il titimalo è tutumàgghiu (tutumàju nel Leccese a S. Cesarea Terme, Corsano, Castro, Gallipoli, Leuca, Montesano, Parabita, Ruffano, Tricase, Vitigliano e nel Tarantino ad Avetrana). Entrambe le voci sono evidenti deformazioni di quella italiana.
Passo ora ai nomi scientifici delle due essenze oggetto di questo post spendendo qualche parola solo per l’elemento che hanno in comune (L., come ognun sa, è abbreviazione di Linneo), cioè il nome del genere, Euphorbia. La voce è dal latino classico euphòrbia(m), la cui variante euphòrbium è dal greco εὐϕόρβιον (leggi eufòrbion), che oltre alla pianta designa anche il suo lattice e molto probabilmente a questo allude il fatto che εὐϕόρβιον (in cui –ιον è un suffisso diminutivo) è parola composta da εὖ (leggi eu)=bene e da φορβή (leggi forbè)=nutrimento, pascolo. Insomma, visto che il lattice, come vedremo, ha effetti non certo gradevoli, εὐϕόρβιον è, secondo me, da intendersi come piccola pianta ben pasciuta (ma sull’argomento tornerò a breve).
Dai rametti spezzati del titimalo gocciola un lattice biancastro irritante e velenoso; questa caratteristica in passato era sfruttata dai pescatori che ne sminuzzavano in acque ferme rami e foglie per catturare i pesci nei quali, evidentemente, procurava una reazione allergica fatale.
Al … pesce tornerò in chiusura; ora accingiamoci a fare un salto in un passato ancora più remoto con gli autori ai quali risalgono le prime testimonianze su quest’essenza.
Teofrasto (III-II secolo a. C.): Hanno lo stesso nome pure gli strucni e i titimalli. Tra gli strucni uno causa sonnolenza, l’altro pazzia. Il primo, con la radice rossa come sangue quando è bruciata, bianca quando è fresca e il frutto più rosso di quello della quercia scarlatta, ha la foglia simile a quella del titimallo o del melo dolce ed essa è pelosa e grande una spanna. Dopo aver pestato leggermente la sua radice ed averla immersa nel vino puro la danno da bere ed essa fa dormire. Cresce nei torrenti e sulle tombe. Quello che fa impazzire (alcuni lo chiamano truoro, altri peritto) ha la radice bianca e grossa un braccio e cava. Una dracma di dose di essa viene somministrata se uno vuole scherzare o sembrare a se stesso bellissimo; se vuole andar di più fuori di testa ed avere alcune fantasie, due dracme; se non vuole cessare da questo stato, tre e consigliano di mescolarvi il succo di centaurea; se si vuole ammazzarlo, quattro. Ha la foglia simile a quella della ruchetta ma più grande e piuttosto pelosa, il frutto somiglia a quello del platano. Tra i titimalli quello chiamato granello paralio ha la foglia rotonda, il gambo e la grossezza totale di una spanna, il frutto bianco. Viene raccolto precisamente quando l’uva diventa scura e il frutto seccato vien dato da bere pestato nella dose di un terzo di acetabolo. Quello chiamato maschile ha la foglia simile a quella dell’olivo ed è grande tutto un cubito. Lo raccolgono al tempo della vendemmia e, dopo averlo curato come si deve, lo utilizzano. Purifica soprattutto il basso ventre. Il titimallo bianco è chiamato mirtite, ha la foglia simile a quella del mirto ma spinosa in punta; emette germogli verso terra lunghi una spanna; questi producono il frutto non insieme ma ad anni alterni, uno quest’anno, l’altro il successivo, pur essendo nati dalla stessa radice. Predilige i luoghi montuosi. Il suo frutto è chiamato noce. Lo raccolgono quando le messi maturano seccandolo e pulendolo. Lavandolo in acqua lo stesso frutto e dopo averlo di nuovo seccato lo danno da bere mescolandovi due parti di papavero nero, il tutto nella dose di un acetabolo. Purifica i catarri intestinali; se somministrano la stessa noce lo fanno dopo averla pestata nel vino dolce o da mangiare col sesamo tostato. Le stesse proprietà hanno le foglie, il succo e i frutti.1
Le tavole che seguono sono tratte dell’edizione dell’Historia plantarum di Teofrasto a cura di Ioannes Bodaeus à Stapel, Lorenz, Amsterdam, 1644.
Plinio (I secolo d. C.) enumera sette varietà: I nostri chiamano il titimallo erba lattaria, altri lattuga delle capre2 e raccontano che se col suo latte si scrive sul corpo, una volta che sia disseccato, se si cosparge della cenere, compaiono le lettere e alcuni hanno preferito comunicare con le amanti in questo modo piuttosto che con messaggi scritti. Molte sono le sue varietà. La prima è chiamata characia3, si ritiene che sia il maschio, con i rami grossi un dito, rossi, succosi, cinque o sei, lunghi un braccio, con foglie (che spuntano) dalla radice quasi simili a quelle dell’olivo, con una chioma come di giundo in cima. Nasce nei luoghi marini rocciosi, il seme si raccoglie in autunno insieme con la chioma, si pesta dopo che è seccato al sole e lo si conserva. Quando i frutti cominciano a coprirsi di lanugine, Spezzati i rami, si lascia cadere il succo nella farina di pisello selvatico o sui fichi perché secchi insieme con loro. Da ogni ramo si estraggono non più di cinque gocce e dicono che assunto col fico altrettante volte si curano gli idropici. Bisogna fare attenzione, quando si raccoglie il succo, che non venga a contatto con gli occhi. Quello estratto dalle foglie pestate è meno efficace. Con i rami si fa anche il decotto. Si usa il seme cotto col miele per preparare pillole lassative. Il seme ancora si sigilla con la cera nelle cavità dei denti e come collutorio viene usato il decotto delle radici in vino o olio. Applicano in cataplasmo il succo contro l’impetigine e lo bevono per purificare col vomito e come lassativo, ma è inutile per lo stomaco. Bevuto col sale aggiunto in acqua risolve il catarro, col nitro africano l’eccesso di bile, se si vuole purificarsi andando di corpo in acqua e aceto, mediante il vomito col vino cotto o acqua e miele. La dose media da somministrare è di tre oboli4. È meglio assumere i fichi lontano dopo i pasti. Brucia leggermente la gola ed è di natura tanto ardente che da solo applicato all’esterno del corpo causa vesciche come se fosse fuoco e viene usato come sostanza caustica. Chiamano mirtite5 un’altra varietà di titimalo, altri la chiamano cariite6, con foglie di mirto aguzze e pungenti ma più grandi e anch’esso nasce in luoghi rocciosi. Se ne raccolgono le chiome quando il granello dell’orzo comincia ad ingrossare e seccate all’ombra per nove giorni inaridiscono al sole. Il frutto non matura tutto insieme, ma una parte nell’anno successivo e si chiama noce. Per questo i Greci le diedero il nome (di cariite). Si miete quando maturano le messi, si lava, poi si secca e viene somministrato con due parti di papavero nero, in modo che la dose totale sia di un acetabolo7. Stimola il vomito meno del precedente e come tutti gli altri. Alcuni hanno somministrato così anche le foglie, ma la noce in vino col miele o cotto o col sesamo. Assorbe il catarro e la bile attraverso l’intestino, guarisce le ulcere della bocca. Contro le ulcere corrosive della bocca viene mangiato con miele. La terza specie di titimalo è chiamata paralio8 o titimallide9, a foglia rotonda, gambo alto un palmo, rami rosseggianti, seme bianco, che viene raccolto quando l’uva comincia a svilupparsi e saccato viene petato e si assume come purgante nella dose di un acetabolo. Chiamano elioscopio10 la quarta varietà, con le foglie simili a quelle della portulaca, con quattro o cinque rosseggianti distanti dalla radice, alti mezzo piede, pieni di succo. Questo nasce nei pressi delle città, il seme è bianco e graditissimo ai colombi. Prende questo nome poiché ruota le teste insieme col sole. Assorbe la bile attraverso il bassoventre con ossimele11 nella dose di mezzo acetabolo. Ha gli stessi usi della caracia. Chiamano la quinta specie ciparittia per la somiglianza delle foglie, col gambo doppio o triplice, che nasce nei campi. Ha la stessa efficacia dell’elioscopio e della caracia. Chiamano platifillo12 la sesta varietà, altri corimbite13, altri ancora amigdalite14 dalla somiglianza. Nessun’altra varietà ha foglie più larghe. Uccide i pesci. È lassativa con la radice, con le foglie o col succo in acqua e miele nella dose di quattro dracme15. È particolarmente efficace contro l’idropisia. Chiamano la settima varietà dendroide16, altri cobio17, altri leptofillo18, che nasce tra le pietre, con la chioma più folta fra tutte, dai piccoli steli rosseggianti e abbondantissimo di seme, il cui effetto è lo stesso di quello della caracia.19
Il lettore avrà notato che i due etimi rimasti in sospeso (charàcias e dendròides) li ho, credo esaurientemente, chiariti nelle note a commento del testo pliniano. Per correttezza, però, non posso omettere l’analoga scheda alla nostra essenza dedicata dal contemporaneo greco Dioscoride, che di seguito riporto:
Ci sono sette varietà di titimalo delle quali la maschile è chiamata characia, da alcuni chiomata o amigdaloide o cobio; un’altra è detta femminile o mirtite, che chiamano anche cariite o mirsinite; poi c’è il paralio che alcuni hanno chiamato titimalide, l’elioscopio, il ciparissio, il denfroide, il platifoglio. I gambi di quello che è chiamato caracia superano la lunghezza di un braccio, sono rosseggianti, pieni di succo acre e bianco. Le foglie intorno ai rami sono simili a quelli dell’ulivo, ma più grandi e più strette.La radice è ben sviluppata e legnosa, all’apice dei gambi c’è una chioma simile a steli di giunco e al loro apice ci sono foglie leggermente concave, simili a vaschette, nelle quali c’è il frutto. Nasce in luoghi aspri e montuosi. Il succo ha proprietà purificatrici del basso ventre spingendo il muco e la bile, assunto con acqua e vino nella dose di due oboli; con acqua e miele stimola anche il vomito. Viene estratto al tempo della vendemmia dopo che i rami sono stati raccolti e tagliati; bisogna poggiarli inclinati in un vaso. Alcuni aggiungendo farina di pisello selvatico confezionano pillole a forma di seme di veccia; altri instillano nei fichi da seccare tre o quattro gocce e dopo averli seccati li conservano. Da solo pestato in un mortaio viene pure confezionato in pillole e conservato. Nel raccoglierlo non bisogna mettersi sotto vento né portare le mani agli occhi ma prima di farlo deve anche ungere il corpo di grasso o di olio con vino e soprattutto il viso, il collo e lo scroto. Irrita pure la gola, perciò bisogna impastare le pillole con cera o miele cotto e così somministrarle. Due o tre fichi secchi assunti sono sufficienti a purgare. Il succo fresco unto con l’olio al sole fa cadere pure i capelli e rende biondi e sottili quelli che rispuntano e ala fine li elimina tutti. Viene applicato anche nelle cavità dei denti per calmare il dolore, ma bisogna spalmare i denti di cera affinché (il succo) fuoriuscendo non danneggi la gola o la lingua. Unto elimina pure i foruncoli, le verruche, i gonfiori e le eruzioni cutanee. Giova anche contro le escrescenze carnose sul naso, le pustole, òle ulcere cancrenose, le cancrene, le fistole. E il frutto raccolto in autunno, seccato al sole, leggermente pestato e bollito viene conservato in un luogo pulito; allo stesso modo le foglie secche. Il frutto e le foglie in decotto nella misura di mezzo acetabolo producono lo stesso effetto del succo; c’è anche chi li conserva in acqua salata mescolandoli per mezzo del latte con lepidio e formaggio spezzettato. E la radice poi, imbevuta nella misura di una dracma con acqua e miele e bevuta giova al basso ventre; cotta con aceto e utilizzata come collutorio placa il mal di denti. La varietà femminile, che alcuni hanno chiamato mirsinite o cariite, è simile alla laureola e bianca d’aspetto. Ha le foglie simili a quelle del mirto, più grandi e solide, in punta acute e spinose. Emette dalla radice germogli lunghi una spanna, produce ogni anno un frutto simile ad una noce, che punge leggermente la lingua. Anche questo nasce in luoghi aspri. Il succo, la radice, il frutto e le foglie hanno proprietà simili a quelle della varietà precedente ma questa essenza certamente è più efficace a stimolare il vomito. La varietà detta paralio, che alcuni hanno chiamato titimalide o mecona, nasce in luoghi vicini al mare. Ha rami lunghi una spanna, ritti, un po’ rossi, uscenti dalla radice in numero di cinque o sei, intorno ai quali ci sono in serie le foglie piccole, un po’ strette, allungate, somiglianti a quelle del lino. Ha ancora la chioma fitta, rotonda, nella quale c’è il frutto simile ad un pisello selvatico, variegato. I fiori sono bianchi. Tutta la pianta e la radice sono piene di succo bianco. Impiego e conservazione simili a quelli delle varietà citate prima. La varietà detta elioscopio ha foglie simili a quelle della portulaca, ma più sottili e più rotonde. Emette dalla radice rami lunghi una spanna in numero di quattro o cinque, sottili e rosseggianti, pieni di molto succo. La chioma è simile a quella dell’aneto e così il frutto tra le foglie. La sua chioma ruota seguendo il corso del sole e pe questo è chiamata pure elioscopio. Nasce soprattutto tra i ruderi e in prossimità delle città. Il succo e il frutto si raccolgono come per quelli degli altri, avendo le stesse proprietà delle essenze già citate ma non così efficaci. La varietà che è chiamata ciparissia o camepiti mostra un gambo di una spanna o più, rossiccio. Da esso germinano le foglie simili a quelle del pino, ma più molli e più sottili e nell’insieme somiglia al pino nato da poco. Da questo trae pure il nome. È piena anch’essa di succo bianco. Ha le stesse proprietà delle precedenti. Quella che nasce tra le pietre, chiamata dendroide, è fitta in cima e ha una grande chioma, pieno di succo, con i rami rossicci, intorno ai quali ci sono le foglie simili a quelle del mirto di piccola taglia. Il frutto è simile a quello della caracia. Anch’essa si raccoglie come le precedenti ed ha le stesse proprietà. Il platifollio somiglia al verbasco e la radice, il succo e le foglie sono efficaci contro l’idropisia. Uccide i pesci pestato e gettato nell’acqua, il che fanno pure le essenze prima citate.20 Le tavole che seguono sono tratte dall’edizione del De materia medica di Dioscoride a cura di Pietro Andrea Mattioli, Valgrisi, Venezia, 1557.
Ormai nessuno pesca col titimalo e il pesce, almeno sotto questo punto di vista, è salvo; auguriamoci che possa salvarsi (anzi, neppure contrarre questa terribile malattia che mi ha privato anzitempo di ben quattro dei miei amici più cari) presto anche il cane (e, naturalmente, anche i pochi umani che ne possono essere colpiti) dalla lehismaniosi, grave malattia trasmessa da una piccola zanzara abbastanza diffusa nelle nostre zone, la Phlebotomus papatasi, comunemente detta pappataci. La speranza è in una proteina isolata in alcune varietà di Euforbia, che negli esperimenti avrebbe inibito quasi totalmente la riproduzione del parassita responsabile21.
Per chiudere definitivamente la questione del pesce debbo ricorrere, come ho fin qui fatto largamente, all’aiuto altrui:
Leggo in rete (http://mazzanoromano.blogolandia.it/2009/04/16/lo-detomajo/): Raccontano che molti anni fa si presentò al medico condotto del nostro paese (che era un napoletano) un ragazzino intimidito, ma anche “specurito” per il gran dolore che accusava nelle parti basse.Il medico tutto premuroso, ma anche allarmato, domandò che cosa fosse accaduto. Il ragazzino, tra mille esitazioni, rosso per la vergogna, si calò i calzoni e al medico apparve uno spettacolo che aveva dell’incredibile, tanto che il primo commento fu testualmente (come lo riferiscono) “mamma mia, ‘na mazza così nu l’agge vista mai!” Era successo che il nostro (che poi ebbe ad ereditare un soprannome conseguente e confacente) era stato vittima di una di quelle burle a cui si veniva sottoposti da parte dei più grandi. Del tipo, “a rega’ si te voi fa’ cresce lo piscorello strofinece sopre lo detomaio”. Il detomaio ha la particolarità che, se spezzato, emette un lattice bianco e questo ha la proprietà, se applicato sulle mucose, o su epidermidi delicate di produrre gonfiori eccezionali. Il nostro aveva seguito quindi l’incitazione dei burloni di turno (anche perché non era infrequente la gara tra ragazzini sulle misure dei pistolini) e per dare maggior forza al miracolo della trasformazione aveva abbondato con la strofinatura così da raggiungere, in breve, dimensioni insperate salvo, come detto dover poi ricorrere alle cure mediche.
Tra i commenti il lettore troverà anche un inattendibile riferimento etimologico al maglio che, però, quanto a fantasia, fa degnamente concorrenza al mio pesce … Spero, però, di rifarmi con la vignetta che segue.
* Dopo la prossima spending review, anche perché ha meno lettere del vecchio PRONTO SOCCORSO …
Sia o non sia vero l’aneddoto, sia salvo dal titimalo il pesce reale oggi e, grazie alle cure del medico (ma credo che se non fosse intervenuto la reazione probabilmente sarebbe rientrata da sola), quello metaforico dell’aneddoto, quest’ultimo m’ispira la riflessione finale indotta dall’ultimo gravissimo fatto di cronaca definito spavaldamente come un gioco dalla madre del principale responsabile. Col passare del tempo pare che l’età dei giochi si sia spaventosamente innalzata nel tempo e che lo stesso gioco o scherzo abbia profondamente cambiato i suoi connotati vestendosi oscenamente di incapacità di valutare i rischi di un’azione, di non superare i limiti che presiedono al rispetto di ogni creatura vivente (può apparire strano e fuori luogo, ma ci voglio mettere pure l’ambiente e, più in particolare, il paesaggio …) e di una crudeltà senza limiti. E, mentre fino a qualche decennio fa sarebbe stato necessario sottrarre al linciaggio da parte del genitore il figlio responsabile di un’autentica e veniale marachella, oggi le madri soprattutto tendono a giustificare tutto e dal linciaggio si devono guardare le forze dell’ordine intervenute per mettere in condizioni di non fare altro danno, ahimé per poco tempo …, il criminale di turno. Insomma, un concentrato di “consapevole stupidità” tutta umana, un ossimoro che, se in un processo fossi l’accusa, farei scoppiare tra le mani dell’avvocato di turno che si è sobbarcato il compito immane di difendere individui siffatti. E il suo compito è immane dal punto di vista morale, non da quello tecnico, perché la leggi attuali per la loro scrittura, che è figlia di un’intenzione quando non lo è di difficoltà razionali ed espressive …, offrono mille appigli anche al più scalcinato degli avvocaticchi …
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1 Historia plantarum, IX, 11:
2 Questo rende probabile che sulle capre, famose per la loro selvatichezza, quest’essenza non abbia alcun effetto negativo.
3 Characias in latino può significare anche canna robusta ed è trascrizione del greco χαρακίαϛ (leggi charakìas)=tipo di canna atta come tutore; euforbia; la voce è da χάραξ (leggi charax)=palo, a sua volta da χαράσσω (leggi charasso)=affilare, lacerare, flagellare, incidere (da cui il salentino caràssa=fenditura).
4 Unità di peso corrispondente a 72 cg.
5 Trascrizione del greco μυρτίτην (leggi miurtiten), accusativo di μυρτίτηϛ (leggi miurtites), da μύρτος (leggi miùrtos)=mirto.
6 Trascrizione del greco καρυίτην (leggi cariuìten), accusativo di καρυίτηϛ (leggi cariuìtes), da κάρυον (leggi càriuon)=noce.
7 Ampollina per l’aceto.
8 Trascrizione del greco παράλιον (leggi paràlion), accusativo di παράλιος (leggi paràlios), composto da παρά (leggi parà)=vicino a e ἅλς (leggi als)=mare.
9 Come in greco ci sono il già visto τιϑύμαλλος e τιϑυμαλλίς (leggi tithumallìs; sua trascrizione è tithymallis) che sembrerebbero indicare due varietà di titimalo, così è pure in Plinio, che a brevissima distanza usa il già visto tithymallus (genitivo tithymalli) e tithymallis (genitivo tithymàllidis, accusativo tithymàlliden, da cui, nella traduzione, il mio titimàllide).
10 Trascrizione del greco ἡλιοσκόπιοv (leggi elioscòpion), composto da ἥλιος (leggi èlios)=sole e σκοπέω (leggi scopèo)=guardare.
11 Dal greco ὀξύμελι [leggi oxùmeli; genitivo ὀξυμέλιτος (leggi oxiumèlitos)] composto da ὀξύς (leggi oxùs=pungente) e μέλι (leggi meli)=miele
12 Trascrizione del greco πλατύφυλλον (leggi platiùfiullon), accusativo di πλατύφυλλος (leggi platiùfiullos)=dalle larghe foglie, composto da πλατύς (leggi platiùs) e φύλλον (leggi fiùllon)=foglia.
13 Trascrizione del greco κορυμβίτην (leggi coriumbìten), accusativo di κορυμβίτης (leggi coriumbìtes)=a grappoli, a sua volta da κόρυμβος (leggi còriumbos)=cima, acconciatura di capelli.
14 Trascrizione del greco ἀμυγδαλίτην (leggi amiugdaliten), accusativo di ἀμυγδαλίτης (leggi amiugdalites), da ἀμυγδάλη (leggi amiugdale)=mandorla.
15 Unità di peso corrispondente a 3,5 g. circa.
16 Trascrizione del greco δενδροειδές (leggi dendroidés)=simile ad albero, da δένδρον (leggi dendron)=albero e εἶδος (leggi èidos)=aspetto.
17 Trascrizione del greco κωβιόν (leggi cobiòn), nominativo di κωβιός (leggi cobiòs), nome di un pesce non identificato e di una varietà di euforbia.
18 Trascrizione del greco λεπτόφυλλον (leggi leptòfiullon), accusativo di λεπτόφυλλος (leggi leptòfiullos)=dalle foglie sottili, composto da λεπτός (leggi leptòs)=sottile e φύλλον (leggi fiùllon)=foglia.
19 Naturalis historia, XXVI, 32: Tithymallum nostri herbam lactariam vocant, alii lactucam caprinam, narrantque lacte eius inscripto corpore, cum inaruerit, si cinis inspergatur, apparere litteras, et ita quidam adulteras adloqui maluere quam codicillis. Genera eius multa. Primus cognominatur characias, qui et masculus existimatur, ramis digitali crassitudine, rubris, sucosis, V aut VI, cubitali longitudine, a radice foliis paene oleae, in cacuminibus coma iunci. Nascitur in asperis maritimis, legitur semen autumno cum coma, siccatum sole tunditur et reponitur. Sucus vero incipiente pomorum lanugine defractis ramis excipitur farina ervi aut ficis, ut cum iis arescat. Quinas autem guttas singulis excipi satis est, traduntque totiens purgari hydropicos fico sumpta, quot guttas ea lactis exceperit. Sucus cum colligitur, ne attingat oculos, cavendum est. Fit et e foliis tunsis priore minus efficax. Fit et decoctum e ramis. Est et semen in usu cum melle decoctum ad catapotia solvendae alvi gratia. Semen et dentium cavis cera includitur. Colluuntur et radicis decocto e vino aut oleo. Inlinunt et lichenas suco bibuntque eum, ut purget vomitione et alvo soluta, alias stomacho inutilem. Trahit pituitam sale addito in potu, bilem aphronitro, si per alvum purgari libeat, in posca, si vomitione, in passo aut aqua mulsa. Media potio III obolis datur. Ficos a cibo sumpsisse melius est. Fauces urit leniter, est enim tam ferventis naturae, ut per se extra corpori inpositus pusulas ignium modo faciat et pro caustico in usu sit. Alterum genus tithymalli myrtiten vocant, alii caryiten, foliis myrti acutis et pungentibus, sed maioribus, et ipsum in asperis nascens. Colliguntur comae eius hordeo turgescente siccataeque in umbra diebus IX in sole inarescunt. Fructus non pariter maturescit, sed pars anno sequente, et nux vocatur. Inde cognomen graeci dedere. Demetitur cum messium maturitate lavaturque, deinde siccatur et datur cum papaveris nigri II partibus ita, ut sit totum acetabuli modus. Minus hic vomitorius quam superior, ceteri item. Aliqui sic et folium eius dedere, nucem vero ipsam in mulso aut passo vel sesima. trahit pituitam et bilem per alvum, oris ulcera sanat. Ad nomas oris folium cum melle estur. Tertium genus tithymalli paralium vocatur sive tithymallis folio rotundo, caule palmum alto, ramis rubentibus, semine albo, quod colligitur incipiente uva et siccatum teritur sumiturque acetabuli mensura ad purgationes. Quartum genus helioscopion appellant, foliis porcillacae, ramulis stantibus a radice IV aut V rubentibus, semipedali altitudine, suci plenis. Hoc circa oppida nascitur, semine albo, columbis gratissimo. Nomen accepit, quoniam capita cum sole circumagit. Trahit bilem per inferna in oxymelite dimidio acetabulo. Ceteri usus qui characiae. Quintum cyparittian vocant propter foliorum similitudinem, caule gemino aut triplici, nascentem in campestribus. Eadem vis quae helioscopio aut characiae. Sextum platyphyllon vocant, alii corymbiten, alii amygdaliten a similitudine. Nec ullius latiora sunt folia. Pisces necat. Alvum solvit radice vel foliis vel suco in mulso aut aqua mulsa drachmis IV. Detrahit privatim aquas. Septimum dendroides cognominant, alii cobion, alii leptophyllon, in petris nascens, comosissimum ex omnibus, maximis cauliculis rubentibus et semine copiosissimum, eiusdem effectus cuius characian.
20 De materia medica, IV, 164: Τιθυμάλλων εἴδηζ’ ὧνὁμὲνἄῤῥηνχαρακίαςκαλεῖται, ὑπὸδέτινωνκομήτης, ἣὰμυγδαλοειδὴς, ἢκωβιὸςὀνομάζεται·ὁδέτιςθῆλυςἢμυρτίτης, ὃνκαὶκαρυίτηνἢμυρσινίτηνκαλοῦσιν·ὁδὲπαράλιος, ὃνἔνιοιτιθυμαλἱδαἐκάλεσαν·ὁδέτιςἡλιοσκόπιος·ὁδὲκυπαρισσίας·ὁδέδενδροειδής·ὁδὲπλατύφυλλος. Τοῦ δὲ χαρακίου καλουμένου καυλοὶ μὲν ὑπὲρ πῆχυν, ἐνερευθεῖς, ὀποῦ δριμέος καὶ λευκοῦ μεστοί· φύλλα δὲ περὶ τὰς ῥάβδους ὅμοια ἐλαίᾳ, μακρότερα δὲ καὶ στενώτερα· ῥίζα ἁδρὰ καὶ ξυλώδης· ἐπ’ἄκρων δὲ τῶν καυλῶν κόμη σχοινοειδῶν ῥαβδίων, καὶ ἐπ’αὐτῶν ὑπόκοιλα, ὅμοια πυέλοις, ἐν οἷς ὁ καρπός· φύεται ἐν τραχέσι καὶ ὀρεινοῖς τόποις. Δύναμιν δὲ ἔχει ὁ ὀπὸς καθαρτικὴν τῆς κάτω κοιλίας, ἄγων φλέγμα καὶ χολήν, ὀβολῶν β’ πλῆθος λαμβανόμενος μετ’ὀξυκράτου· σὺν μελικράτῳ δὲ καὶ ἔμετον κινεῖ· ὀπίζεται δὲ περὶ τὸν τρυγητὸν, συναχθεισῶν τῶν ῥάβδων καὶ ἀποτμηθεισῶν· ἐπικλίσθαι δὲ αὐτὰς δεῑ εἰς ἀγγεῖον· ἔνιοι δὲ ὀρόβινον ἄλευρον μιγνύντες, συναναπλάσσουσιν ὀροβιαῖα μεγέθη· τινὲς δὲ εἰς τὰ ξηραινόμενα σῦκα ἀποστάζουσι σταλαγμοὺς γ’ἢ δ’, καὶ ξηραίνοντες ἀποτίθενται· καθ’ἑαυτὸν δὲ τριβόμενος ἐν θυίᾳ ἀναπλὰσσεται καὶ ἀποτίθεται. Ἐν δὲ τῷ ὀπίζειν οὐ δεῖ κατὰ ἄνεμον ἴστασθαι, οὐδὲ τὰς χεῖρας ἂγειν τοῖς ὀφθαλμοῖς· ἀλλὰ καὶ πρὸ τοδ’ὀπίζειν τὸ σῶμα δεῖ χρίειν στέατι ἢ ἐλαίῳ μετ’οἲνου, καὶ μάλιστα πρόσωπον καὶ τράχηλον καὶ ὄσχιον· τραχύνει δὲ καὶ τὴν φάρυγγα· ὅθεν δεῖ καταπότια περιπλάττειν κηρῷ ἢ μέλιτι ἑφθῷ, καὶ οὕτως διδόναι· ἰσχάδες μέντοι δύο ἢ τρεῖς λαμβανόμεναι αὐτάρκεις εἰσὶ πρὸς κάθαρσιν· ψιλοῖ δὲ καὶ τρίχας ὀπὸς πρόσφατος ἐπιχρισθεὶς μετ’ἐλαίου ἐν ἡλίῳ, καὶ τὰς ἐπιγινομένας δὲ ξανθὰς καὶ λεπτὰς ποιεῖ· καὶ τέλος ἐκϕθείρει πάσας· ἐντίθεται δὲ καὶ τοῖς βρώμασι τῶν ὀδόντων, κουφίζων τὰ ἀλγήματα· κηρῷ δὲ δεῖ τοὺς ὀδόντας ἐπιπλάττειν, ἵνα μὴ παραῤῥυεὶς κακώσῃ τὴν φάρυγγα ἢ τὴν γλῶτταν· αἴρει δὲ καὶ μυρμηκίας καὶ ἀκροχορδόνας καὶ θύμους καὶ λειχῆνας ἐπιχριόμενος· ἁρμόζει δὲ καὶ πρὸς πτερύγια καὶ ἄνθρακας, φαγεδαίνας, γαγγραίνας, σύριγγας. Καὶ ὁ καρπὸς δὲ φθινοπόρῳ συλλεγεὶς καὶ ξηρανθεὶς ἐν ἡλίῳ, κοπείς τε κούφως καὶ ἀποβρασθεὶς καθαρῶς ἀποτίθεται· καὶ τὰ φύλλα ὁμοίως ξηρά· ποιεῖ δὲ ὁ καρπὸς καὶ τὰ φύλλα τὰ αὐτὰ τῷ ὀπῷ, πλῆθος ἡμίσους ὀξυβάφου ποτιζόμενα· ἔνιοι δὲ καὶ ταριχεύουσιν αὐτὰ, μιγνύντες τῷ διὰ τοῦ γάλακτος λεπιδίῳ καὶ τυρῷ κοπτῷ. Καὶ ἡ ῥίζα δὲ, ἐπιπασθεῖσα α’ σὺν ὑδρομέλιτι καὶ ποθεῖσα, ἄγει κατὰ κοιλίαν· ἑψηθεῖσα δὲ σὺν ὄξει καὶ διακλυζομένη, ὀδονταλγίας βοηθεῖ. Ὁ δὲ θῆλυς, ὅν ἔνιοι μυρσινίτην ἢ καρυίτην ἐκάλεσαν, προσεμφερὲς τῷ δαϕνοειδεῖ καὶ λευκὸς τῷ εἴδει· καὶ τὰ φύλλα ὅμοια ἔχει μυρσίνῃ, μείζονα δὲ καὶ στερεὰ, ἐπ’ἄκρου ὀξέα καὶ ἀκανθώδη· κλήματα δὲ ἀπὸ τῆς ῤίζης σπιθαμιαῖα ἀφίησι· τὸν δὲ καρπὸν φέρει παρ’ἐνιαυτὸν, καρύῳ ὅμοιον, ἡσυχῆ δάκνοντα τὴν γλῶσσαν· ἐν τραχέσι δὲ χωρίοις καὶ οὗτος φύεται. Δύναμιν δὲ ἔχει ὁ ὀπὸς καὶ ἡ ῥίζα καὶ ὁ καρπὸς καὶ τὰ φύλλα ὁμοίαν τῷ πρὸ αὐτοῦ· ἐμετικώτερος μέντοι ἐκεῖνος τούτου ἐστίν. Ὁ δὲ παράλιος λεγόμενος, ὃν ἔνιοι τιθυμαλἱδα ἢ μήκωνα ἐκάλεσαν, φύεται ἐν παραθαλασσίοις τόποις· κλῶνας δὲ ἔχει σπιθαμιαίους, ὀρθίους, ὑπερύθρους, ε’ ἢ ς’, ἀπὸ τῆς ῤίζης, περὶ οὓς τὰ φύλλα στοιχηδὸν μικρὰ, ὑπόστενα, προμήκη, ἐοικότα λίνῳ· κεφαλὴν δὲ ἐπ’ἄκρου πυκνὴν, περιφερῆ, ἐν ᾗ ὁ καρπὸς, ὡς ὄροβος, ποικίλος· ἄνθη λευκά· ὅλος δὲ ὁ θάμνος καὶ ἡ ῤίζα ὀποῦ λευκοῦ μεστή· καὶ τούτου χρῆσις καὶ ἀπόθεσις ὁμοία ἐστὶ τοῖς προειρημένοις. Ὀ δὲ ἡλιοσκόπιος λεγόμενος ἀνδράχνῃ ὅμοια φύλλα ἔχει, λεπτότερα δὲ καὶ περιφερέστερα· κλῶνας δὲ ἀνίησιν ἀπὸ τῆς ῤίζης δ’ ἢ ε’ σπιθαμιαίους, λεπτοὺς καὶ ἐρυθροὺς, ὀποῦ λευκοῦ μεστοὺς πολλοῦ· κεφαλὴ δὲ ἀνηθοειδὴς, καὶ ὁ καρπὸς δὲ ὥσπερ ἐν φύλλοις· συμπεριφέρεται δὲ τούτου ἡ κόμη τῇ τοῦ ἡλίου κλίσει· ὅθεν καὶ ὠνόμασται ἡλιοσκόπιος· ἐν ἐρειπίοις δὲ μάλιστα καὶ περὶ τὰς πόλεις φύεται· συλλέγεται δὲ ὁ ὀπὸς καὶ ὁ καρπὸς, ὥσπερ καὶ τῶν ἄλλων· δύναμιν ἔχων τὴν αὐτὴν τοῖς προτέροις, ἀλλ’οὐχ οὕτως ἐπιτεταμένην. Ὀ δὲ κυπαρισσίας καλούμενος καυλὸν ἀνίησι σπιαμιαῖον ἢ καὶ μείζονα, ὑπέρυθρον· ἐξ οὗ βεβλάστηκε τὰ φύλλα τοῖϛ τῆς πίτυος ὅμοια, τρυφερώτερα μέντοι καὶ λεπτότερα· καὶ καθόλου ἔοικε πἱτυι ἀρτιφυεῖ· ὅθεν καὶ ὠνόμασται· πεπλήρωται δὲ καὶ οὗτος ὀποῦ λευκοῦ. Δύναμιν δὲ ἔχει ὁμοίαν τοῖς πρὸ αὐτοῦ. Ὀ δὲ ἐν ταῖς πέτραις φυόμενος, δενδροειδὴς δὲ καλούμενος, ἀμφιλαφὴς ἅνωθεν καὶ πολύκομος, ὀποῦ μεστὸς, ὑπέρυθρος τοὺς κλἁδους, περὶ οὓς τὰ φύλλα μυρσίνῃ λεπτῇ προσεοικότα· καρπὸς δὲ ὅμοιος τῷ τοῦ χαρακίου· παραπλησίως δὲ καὶ οὕτος ἀποτίθεται, καὶ ἑνεργεῖ ὁμοίως τοῖϛ προειρημένοις. Ὀ δὲ πλατύφυλλος φλόμῳ ἔοικε· καὶ αὐτοῦ δὲ ἡ ῤίζα καὶ ὁ ὀπὸς καὶ τὰ φύλλα ἄγει ὑδατώδη κατὰ κοιλίαν· ἀποκτείνει δὲ τοὺς ἰχθύας, κοπεὶς καὶ διεθεὶς τῷ ὕδατι· καὶ οἱ προγεγραμμένοι δὲ τὸ αὐτὸ δρῶσι.
21 http://www.unica.it/pub/7/show.jsp?id=7349; tuttavia, per dare, tenendo conto della cronologia, a Cesare quel che è di Cesare: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18167046.
Articolo molto accurato, esauriente. Grazie