Pietro Cannizzaro esploratore di paesaggi dell’anima e delle pieghe del reale

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di Ciro de Rosa

In “Ossigeno” (2012), film girato nell’arco di tredici anni, il protagonista Agrippino Costa, con un passato di furti d’arte e rapine, carcere ed evasioni, avvicinatosi dietro le sbarre al brigatismo e al nappismo, diventato pittore e poeta, si racconta davanti alla macchina da presa di Piero Cannizzaro. Parliamo di un documentarista sensibile alle pieghe della realtà sociale, che cuce storie pulsanti e vitali di quotidianità, ma anche di esistenze marginali, restituendo una visione intima, che al contempo è inattesa, coinvolge lo spettatore, fa saltare le convenzioni e non resta intrappolata negli stereotipi. Un regista propenso a mettere l’accento sul senso dell’appartenenza ai territori, sui rapporti dell’uomo con i luoghi, incline a tratteggiare paesaggi dell’anima. In questo periodo Cannizzaro sta ultimando quattro documentari sul tema dell’acqua e dell’identità nei micro-territori, con riprese nel Cilento, nella Valle Pellice, sul fiume Volturno e in Umbria.

Con un’ampia filmografia alle spalle, tra le principali figure del rinnovamento del documentario italiano su cui ha pubblicato anche diversi saggi, già direttore artistico a Capalbio della rassegna “Il Glocale nel Documentario” (2005”), Cannizzaro è stato tra i primi ad affondare il suo sguardo di cineasta nel rinnovato interesse rivolto alle musiche di tradizione orale. Un autore, viaggiatore ed esploratore, che ha portato la sua macchina a latitudini diverse: dall’Artico al subcontinente indiano, dall’Africa australe al Golfo Persico. Apprezzati in numerosi festival italiani ed esteri, i suoi lavori hanno ricevuto premi e riconoscimenti italiani ed internazionali. Questa intervista si è snodata in un ampio arco temporale: realizzata in larga parte al Mediterraneo Video Festival 2013, dove il regista ha presentato “Tradinnovazione.

Una musica Glocal”, un viaggio musicale in tre tappe (Salento, Sardegna e Piemonte occitano), si è poi nutrita di successivi scambi di opinioni, materiali video e aggiornamenti sui suoi lavori.
Tutto ha avuto inizio in una mattinata settembrina, seduti al tavolo di Casa Rubini, accogliente B&B all’ombra dei grandi templi di Paestum. Con Cannizzaro si entra subito nell’argomento musica, perché il suo rapporto con le sette note ben precede l’attività di regista. Procediamo sul filo dei ricordi: «Se vogliamo prenderla alla lontana» – esordisce il regista – «A casa mia madre ci incoraggiava: da piccolo andavo a lezione di chitarra. A sedici ani c’è stato il solito gruppo musicale studentesco con cui guadagnare la paghetta. Poi negli anni universitari ho lavorato in una sala di incisione. Erano altri anni: c’era un altro concetto di fare produzione». Si snodano brandelli del passato del regista lodigiano di nascita, con studi alla Statale di Milano in anni di grande fermento creativo, rimossi o affossati dalla vulgata massmediatica istituzionale ma anche dalla malafede storici di regime sotto la pesante coltre del piombo estremista. Siamo in pieno ’77, quando Piero partecipa all’opera rock “L’Eliogabalo” di Emilio Locurcio, in veste di produttore di un disco a cui parteciparono Lucio Dalla, Claudio Lolli, Rosalino Cellamare e Teresa De Sio. Un lavoro dimenticato o quasi, fatto di composizioni dove confluivano screziature progressive e psichedeliche, temi folk, stilemi rock e sperimentazione su testi visionari.
Continua il nostro interlocutore: «A 21 anni avevo prodotto con l’etichetta discografica Dischi del Sole, collaborato con le etichette milanesi alternative di musiche d’avanguardia, contribuito a fare cambiare a Claudio Lolli l’etichetta, dalla EMI alla Ultima spiaggia di Nanni Ricordi, pubblicato un libretto per Lato Side proprio su Claudio Lolli (1982). C’era stata la collaborazione con l’etichetta L’ascolto di Caterina Caselli. Anni creativi, con scritti e recensioni discografiche sul “Quotidiano dei Lavoratori” e con i movimenti dell’area di “Re Nudo”. La musica era il viatico per stare nella società! Ho organizzato concerti di De Gregori e Venditti, che collaboravano ancora, a casa ho ancora il manifesto: si pagava “lire 1500”. Poi sono arrivate le prime edizioni del Club Tenco a Sanremo con Amilcare Rambaldi. La partecipazione alle registrazione di un l’album di Francesco Guccini e quello della collaborazione tra De Gregori e De André. Dopo di che, a 25 anni, ho capito che non mi interessava fare il professionista della musica: non era nelle mie corde, discografico era qualcosa di più e di meno, in linea con un pensiero e un movimento; ero appassionato di fotografia e mi piaceva scrivere. Ho iniziato a fare i primi programmi radiofonici con “Un certo discorso” per Radio 3. Mi interessava la scrittura, ho capito che mi interessava realizzare un film. Ho scritto un soggetto che la Rai mi ha comprato. A quel punto, era il 1980, sono arrivato a Roma. Però il film non si è fatto… si doveva chiamare “Verso e Attraverso”: era una storia musicale, un viaggio che partiva da Milano e arrivava alle isole Eolie. Negli anni del riflusso, la storia di una persona, che lascia Milano – in realtà, era molto autobiografico – ad un certo punto, mentre è a Filicudi, dalla radio scopre la musica classica. C’era un mixaggio tra musica di Erik Satie e Neil Young, come a dire: “L’importante non è la musica che tu ascolti, ma la tua percezione della musica a cui dai significato».
Il tema del viaggio e della musica iniziano ad essere il denominatore comune dell’estetica di Cannizzaro, che collabora ad Audiobox di Pinotto Fava – a lungo una delle trasmissioni radiofoniche più innovative ed influenti del palinsesto di Radio Rai – con “Verso l’Isola”. «Come un Ulisse moderno che raccoglieva riflessioni e suoni. Ricordo un incontro con Sciascia a Lipari, e poi i pescatori di Favignana, un fisarmonicista delle Eolie. Con il mio Nagra registravo i rumori del mare. Misi i microfoni dentro la catena della nave per farne sentire l’attracco… A Milano avevo visto un concerto di John Cage al Lirico che mi aveva impressionato».
La vocazione di regista-narratore prende il sopravvento. «Mi ha sempre interessato il cinema nella sua globalità, anche inconsciamente, non facevo una grande distinzione tra documentario e finzione, anche se allora il dibattito era meno aperto. Frequentavo i festival: Venezia, Pesaro, Salsomaggiore, Soletta in Svizzera ed altri ancora. I festival sono stati la mia formazione, mi interessavano i documentari dei tedeschi: Herzog, il Wenders di “Nel corso del tempo”. Qualcuno ha avvicinati i miei documentari all’antropologia, ma è più qualcosa di istintivo, è l’interesse per il percorso umano, il rapporto con il paesaggio, con il cibo, con il territorio, con la spiritualità, che rivelano una chiave antropologica. Come ebbi modo di dire in un dibattito anni fa: “Non sono un antropologo”. Non mi sono formato con i documentari italiani classici di matrice demartiniana, ho conosciuto e frequentato Gianfranco Mingozzi, ho conosciuto Luigi Di Gianni, così come ho incontrato più avanti De Seta, di cui già conoscevo naturalmente i lavori, ma la mia formazione è più di cinema, come dicevo, autori che mi hanno segnato sono Herzog, Wenders, Truffaut, e se vogliamo andare più indietro, Max Ophuls, quest’ultimo soprattutto per il modo di muovere la macchina)».
L’inizio televisivo di Cannizzaro è con il DSE (Dipartimento Scuola Educazione della RAI), ricorda il regista: «Mi sono sempre mosso, e lo faccio ancora oggi, con il low budget, lontano dalle grandi operazioni economiche, perché permette di non avere controllo. È stato il mio percorso, la mia fortuna. Ho visto amici inseguire le mode, che hanno fatto un po’ di soldini e poi non è rimasto molto».
Tiene insieme ancora viaggio e musica in un suo documentario prodotto per la televisione, che attraversa la Penisola, facendo tappa in tre città: la prima è la Milano di Dick Dick, Mauro Pagani e Cecilia Chailly, la seconda Bologna con Francesco Guccini, Freak Antoni, Luca Carboni e Claudio Lolli. Per finire a Napoli, terra di mare e di passaggio con Almamegretta, Raiz, Maria Nazionale, Bisca e Gigi D’Alessio. Si rafforza, dunque, la poetica documentaristica del regista, in cui il paesaggio si interseca con musica e cultura, ma soprattutto è ricerca di personaggi lontani dalle vie principali.
Cannizzaro ha attraversato le stagioni della televisione dalla Rai dei tre canali alla nascita della tivù commerciale fino ai canali satellitari. Negli anni ’80 realizza anche “Nello spazio di Clarke”, un ritratto dello scrittore autore di “2001. Odissea nello Spazio”, girato in Sri Lanka, su testi di Giorgio Manganelli e musica dei Beatles. «Ha avuto otto milioni di ascolti su Rai 1, erano tempi in cui non c’era ancora la televisione commerciale, che all’inizio ha aperto spazi al documentario. Ora non è più come agli inizi». È vero, però, come il regista ha scritto in un suo saggio, che «quegli spazi marginali […] con molte possibilità creative, sono sostanzialmente sostituiti dai canali satellitari» (“La luce in galleria”, in Marco Bertozzi, “L’Idea Documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano”, Torino, Lindau, 2007, p.359). Nondimeno, è ancora Cannizzaro a sottolinearlo, budget sono troppo contenuti, spesso insufficienti per produrre progetti di più vasto respiro.

«Registi e produttori sono costretti a sforzi di fantasia pazzeschi per trovare le coproduzioni» (ibidem)». Pochi giorni prima dello scoppio della Prima Guerra del Golfo, il regista gira un documentario proprio nello scenario del Golfo Persico (“Natale ’90 nel Golfo”).
Sul finire degli anni ’90, Cannizzaro approda in Salento, ben prima che il turbine musical-turistico salentino avvolga il resto d’Italia. “Terra di Pietra e di Tarante” (2000) è il suo primo ritratto dalla terra dei muri a secco, delle corti, degli ulivi secolari, del griko e della rinascenza musicale popolare, che dà voce al Canzoniere Grecanico Salentino, guidato ancora da uno dei fondatori, Daniele Durante, a Pino Zimba, ad Anna Cinzia Villani, oggi stella di prima grandezza del nuovo folk.
Salento, terra di confine e di migrazioni, lette anche attraverso la musica del trombettista Cesare dell’Anna, che guarda all’altra sponda dell’Adriatico. «Dopo questo lavoro, era il secondo anno delle febbre della taranta, produco il primo documentario intitolato “La Notte della Taranta e dintorni”(2001), con Piero Milesi maestro concertatore ed orchestratore della “pizzica sinfonica”, ma anche con Officina Zoè, Ghetonia, il Canzoniere, i fratelli De Santis, Uccio Aloisi, Cesare Dell’Anna e l’antropologo Eugenio Imbriani. In tredici anni è un film che ha girato tantissimo, è diventato, tra virgolette, un cult movie». Molti lo hanno dimenticato, o fatto finta di dimenticarlo, ma prima che La Notte della Taranta diventasse un evento mass mediatico con forti valenze politiche, c’era in Salento un dibattito furente sul rapporto tra musica tradizionale e innovazione, «Mazzate proprio! Ti levavano il saluto appena… uscivi dalla “tradizione”», ricorda Piero.
Il Salento è ancora protagonista di un’altra pellicola che raccoglie consensi: parliamo di “Ritorno a Kurumuny” (2003).
Quel Primo Maggio del 2003, Cannizzaro partecipa, inizialmente da spettatore, al rinnovato rituale di reimpianto degli ulivi in un’antica tenuta nella campagna leccese, ideato da Luigi Chiriatti, musicista e demologo: un primo maggio alternativo, non passatista, non nostalgico, ma nel segno della riappropriazione di spazi di (r)esistenza, a cui Cannizzaro non resta indifferente, tale è il vortice di suoni, di paesaggi, di antichi saperi e antichi sapori, di personaggi unici, ma anche di attenzione e devozione dei giovani nei loro confronti.
Un incontro intergenerazionale che si carica di significato nel tempo della festa – Cannizzaro lo filma con la telecamera che aveva portato con sé. Ritratti di giovani cantanti, come Enza Pagliara e Cinzia Villani, di alberi di canto, quali Niceta Petrachi (La Simpatichina) e Lucia De Pascalis, Cosimino Chiriatti, studiosi come Rina Durante e Maurizio Nocera e tanti altri ancora.
Premiato all’Ischia Festival, “Ritorno a Kurumuny”, edito dall’omonima casa editrice diretta da Luigi Chiriatti, porta un’introduzione della scrittrice e ricercatrice Rina Durante, che ne espone con chiarezza gli intenti: «”Ritorno a Kurumuny” contiene l’invito a recuperare l’attualità che non risiede tanto in una serie di topoi consolidati e stereotipi anacronistici quanto in un esercizio dell’immaginazione dei sensi, un modo di attraversare un territorio, una città, un paesaggio e di indovinare il senso attraverso prospettive multiformi, suggerite da modi di percepire e raccontare il paesaggio diversi da quello abituale».
Cannizzaro non lascia il Salento, producendo l’anno successivo “Ritratti dal Salento. Storie di Canti” (2004), «con Uccio Aloisi, un carattere burbero, difficile da mettere insieme ad Anna Cinzia Villani, ma ne è uscito un bel profilo.     
Dopo l’esperienza salentina, terra in cui ritornerà per “Tradinnovazione”, Cannizzaro è attratto da un’altra antica terra del Sud. In me c’è sempre la volontà di un minimo di ricerca, di cercare qualcosa di meno sfruttato… la terra del Cilento sembrava da esplorare. Avevo fatto un documentario sulle “Città Slow” (2010), che aderiscono all’associazione Slow Food, dove c’è l’attenzione al buon vivere, alla qualità della vita, attenzione alla cultura, al territorio. Lì ho conosciuto il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo». “Città Slow” porta la dedica al sindaco-pescatore cilentano, assassinato il 5 settembre 2010 da esecutori e mandanti ancora impunti. Pollica era diventata “città slow” e proprio Vassallo in occasione di una proiezione ad Orvieto, quartier generale del movimento delle città slow, lo fa avvicinare al mondo del network delle città a misura d’uomo, che cercano un rapporto diverso tra i cittadini, una branca dello slow-food «più puntata sulla qualità della vita, artigiani, arte, musei anche cibo a chilometro zero». Il documentario racconta di Orvieto, Bra, Amelia, Pollica, Massa Marittima, Levanto, Greve in Chianti, Cisternino. Immancabile la musica anche in quest’opera. Tra i tanti personaggi che caratterizzano il luogo, a Cisternino c’è stato l’incontro con Massimiliano Morabito, organettista di fama, come ben sanno i lettori di “Blogfoolk”. Quella per il Cilento non è passione effimera, Cannizzaro da anni gira in molte aree del territorio del salernitano. «Ho registrato la musica di alcuni musicisti locali: I Briganti, Gianfranco Marra, Paola Salurso. Inoltre, ho conosciuto il mondo degli zampognari: la famiglia Cortazzo, sopra Vallo della Lucania.» 
Arrivano così “Cilento. Storie di Pane e di Grano” (2008) e “Ritratti dal Cilento. Storia di Chitarre e di Zampogne”, quest’ultimo con protagonisti i fratelli Domenico e Luigi Campitiello, costruttori di chitarre battenti in Stio, e la famiglia Cortazzo di Campolongo (padre, madre e figlio), girato nel 2005, ma uscito nel 2011. Quella di “Storia di Chitarre e Zampogne” è un racconto di riappropriazione di un suono e di uno strumento identitario come la battente, da parte di artigiani locali, ma è anche il profilo di una tradizione come quella del canto e degli aerofoni popolari che si trasmette di generazione in generazione. Carmine Antonio Cortazzo è il suonatore di ciaramella negli ottimi Kiepò. Naturalmente, la musica è il perno su cui ruota “Tradinnovazione. Una Musica Glocal” (2011). Ancora il binomio viaggio-musica porta il regista freelance, che grazie al budget limitato, sottolinea di essere libero da pressioni esterne, se non il limite di lunghezza di un’ora del prodotto, a ritrarre un’Italia diversa. Spiega Cannizzaro: «Il viaggio è come un fil rouge, che lega le tradizioni etniche nella contaminazione; qualcosa che vive non è museificato, ma sempre in rapporto al paesaggio».
Sono tre le tappe di “Tradinnovazione”, dal Salento dei Mascarimirì alla Sardegna e alla provincia di Cuneo. Cannizzaro lascia parlare i protagonisti, le musiche i suoni diventano segnali di presenza, di volontà di rapportarsi al territorio, ad un luogo, alla contemporaneità, ma senza fare a meno della memoria, anzi, inducendo un processo di attivazione della memoria (che non è mai innocente o scevro da ideologie).
«In Sardegna ho scoperto che ci sono ottimi gruppi, che mi viene da dire contaminati, che hanno che si mischiano con i cantori popolari, anche con le sonorità delle launeddas. Penso a Massimo Loriga dei Nur. Poi il Piemonte occitano, con Lou Dalfin, Abnoba e Simone Bottasso, che ha studiato al conservatori, giovani che hanno una consapevolezza forte della tradizione ma anche della contemporaneità. Poi ho continuato il viaggio, che è ancora in corso… con il Veneto di Gualtiero Bertelli e di Calicanto (“Un Viaggio nella Musica Etnica: Veneto. Calicanto e Gualtiero Bertelli”, 2012) e la Sicilia di Alfio Antico e Unavantaluna. Ad un certo punto il progetto si è interrotto: i miei lavori risentono delle committenze. Essendo interessato alla televisione, per prima la Rai, avverto il problema determinato dall’andamento socio-economico».
L’accompagnarci alla ricerca del senso di farsi comunità si delinea con efficacia anche ne “Il cibo dell’anima” (2008), realizzato per Rai 3 in otto puntate, e ambientato in alcune comunità religiose italiane, incentrato sul tema del cibo, delle regole, delle prescrizioni e della spiritualità. Un’entrata in punta di piedi, da laico, com’è nello stile del regista, che ha girato per un anno immagini nel ghetto ebraico di Roma, a Torino per parlare delle comunità dell’Islam, nell’enclave valdese della Val Pellice, tra la comunità sikh, che ha un grande tempio a Novellara (RE), tra i benedettini del convento di Valleombrosa (FI), tra le suore di clausura a San Martino al Monte in provincia di Macerata, tra i buddisti nell’istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia (Pisa), tra i seguaci di Osho a Miasto in provincia di Siena.
«Sono entrato attraverso il cibo, discutendo di come si alimentano, e attraverso l’alimentazione, esce la regola. Anche lì, è venuto fuori l’aspetto musicale… Qualcuno lo ha letto anche come un film sull’integrazione. Ho scoperto cose che non conoscevo, persone fantastiche, che il cibo può anche unire: per esempio cuochi ebrei che vivono tranquillamente con palestinesi». “Il Cibo dell’Anima, in una versione radiofonica, è andato in onda anche su Radio 3 Rai, all’interno del programma “Tre Soldi”.
Per lo stesso ciclo, a novembre, potremo ascoltare anche una trasposizione radiofonica di “Città Slow”. Musica e musicisti intimamente radicati al territorio toccano le corde del regista lodigiano. Proviamo a chiedergli, un po’ per gioco, un po’ per tastare i suoi gusti, una playlist. Piero non si sottrae alla richiesta, precisando: «Nella mia playlist assoluta compaiono dai Beatles ai Sigur Ros, da Antony and the Johnsons al primo Battiato e al primo De Gregori, dal Banco Mutuo Soccorso al primo Claudio Rocchi, da Van De Sfros a De Andrè, da Björk a Max Gazzè, dai Genesis a Philip Glass. Estrapolare dei pezzi sarebbe per me troppo difficile, però vorrei segnalare alcuni brani che ho avuto modo di inserire nei miei documentari “etnici” in questi anni. Eccoli: “L’alba del Mulino” di Gianfranco Marra con la voce di Paola Tozzi, Unavantaluna con “Pi Soprammari”, Gualtiero Bertelli con “E Mi so Andao”, Officina Zoè, “Lu Rusciu te lu Mare”, Canzoniere Grecanico Salentino, “Beddha Ci Dormi”, Duo Bottasso con “Scottish à Funambals”, Van De Sfros & Balentes con “Ninna nanna del contrabbandiere”, Enza Pagliara con “Quanto si Beddha”, Nur con “A Domusdemaria”…».
Insomma, potrebbe essere una playlist di “Blogfoolk”, bella e pronta! In conclusione, inevitabile interrogarci, a distanza di un anno, della portata del Leone D’oro vinto dal “documentario” di Gianfranco Rosi alla settantesima Mostra di Venezia nel 2013. Cannizzaro, protagonista quest’anno, sempre alla kermesse cinematografica della città lagunare, di un dibattito sul documentario, osserva che il successo di “Sacro GRA” «ha portato visibilità, allargando il cuneo nella percezione della gente sulla concezione del film e del documentario: la distinzione tra film e documentario è obsoleta. Il fatto che il Leone d’Oro sia stato vinto da un documentario lo scorso anno, può far sì che non lo si releghi in una specie di ghetto. Spero che sia così! Anche quest’anno alla settantunesima edizione il Premio Speciale della Critica è stato assegnato ad un documentario che si è occupato delle stragi di comunisti da parte degli squadroni della morte protetti dal governo nell’Indonesia del 1965 (“The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer, ndr). Comincia a manifestarsi più attenzione verso i documentari nei festival e nei Premi, si assiste ad una maggiore sensibilità comune, che permette di superare l’idea del documentario ricondotta solo a natura e animali. Il mio è un cauto ottimismo, ma non mi aspetto di trovare porte spalancate, bisognerà vedere nel tempo. Credo che tutte le cose abbiano bisogno di tempo, soprattutto in Italia, dove ancora si produce con cifre ridicole, se confrontate con il resto d’Europa».
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