di Armando Polito
La celebrazione di cui parlerò non è un semplice ricordo condensato in una sola parola, quasi una citazione toponomastica, come il … Lacedaemoniumque Tarentum/praeterit et Sybarin Sallentinumque Neretum ( … e oltrepassa la spartana Taranto e Sibari e la salentina Nardò) di Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorfosi, XV, 50-51.
Si tratta, invece, di una poesia in latino (59 esametri) che sarebbe stata composta (il condizionale si capirà, come al solito, alla fine) da Bartolomeo Tafuri1 presumibilmente nella seconda metà del XVI secolo e che fu pubblicata per la prima volta dal suo discendente Giovanni Bernardino (1695-1760) nel primo capitolo (Testimonianze de’ Scrittori, i quali rammentarono con lode la Città di Nardò) del primo libro di Dell’origine, sito, ed antichità della Città di Nardò in Angelo Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Zante, Venezia, 1735, tomo XI, pp. 1-315. Di seguito il frontespizio2.
La poesia nel volume indicato occupa le pp. 9-13; tuttavia mi avvarrò , perché più nitido tipograficamente e più adatto per l’inserimento della mia traduzione (letterale quanto più è possibile) a fronte e delle mie note, del testo in formato immagine tratto da Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, v. I, 18483. In questa edizione Michele Tafuri ripubblicò il saggio del suo antenato (che occupa le pp. 325-543) con l’aggiunta del secondo libro mancante nell’edizione veneziana. Il testo della poesia in questione vi occupa le pagine 330-332 e risulta replicato anche tra le poesie superstiti (due, compresa questa che leggeremo) di Bartolomeo alle pagine, 47-48 che sono quelle da me utilizzate. Chiedo scusa al lettore se il testo apparirà tagliato a destra, ma non potevo, questa volta, ridimensionare ulteriormente l’immagine nativa con la certezza, non il rischio, di renderne impossibile la lettura. A quest’inconveniente, a me non ascrivibile, si rimedia cliccando sull’immagine col tasto sinistro e poi, tornando indietro, potrà essere ripresa la lettura del testo principale laddove era stata interrotta.
Mi pare doveroso ricordare, anche per spiegare il condizionale usato all’inizio, che la fama di Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò si è un po’ offuscata col passare del tempo, che ha permesso di scoprire in lui il confezionatore, sia pure abile, di documenti falsi; lo scopo era di nobilitare le memorie patrie (con la rivendicazione di privilegi per questo o quel potere e con tutte le ricadute, anche di ordine economico, che in quei tempi un passato glorioso comportava), ma perseguirlo in questo modo significa violentare le ragioni della scienza che già di suo è faticosamente alla ricerca della verità.4
Però, nel nostro caso, questa poesia, anche se non dovesse essere veramente del suo antenato Bonaventura o un falso, rimarrebbe, comunque, un interessante documento (male che vada, del XVIII secolo) sulla fama, già allora pesantemente ridimensionata (e non solo rispetto ad Ovidio che non l’avrà citata certo solo per esigenze descrittive), di Nardò. E se la scelta di un galatonese come emblema dei frutti della scuola di Nardò può essere giustificata dallo spessore del personaggio, dalla celebrazione diretta che, come abbiamo visto, egli fece di quella scuola e dalla distanza veramente esigua tra Nardò e Galatone, cosa dire, rispetto al presente che è tanto prosaico da non meritare nemmeno una celebrazione in prosa, di fronte all’augurio contenuto negli ultimi quattro versi, se non un desolante e rassegnato, quasi un’autopresa per il culo, aspetta e spera?
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1 Ecco la scheda della famiglia Tafuri tratta dal Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti di G. B. Crollalanza, Presso la direzione del Giornale araldico, Pisa, 1890, v. III, pp. 2-3: TAFURI di Napoli e di Nardò. Originaria di Terra d’Otranto, à goduto nobiltà in Nardò ed in Foggia, ed à posseduto le baronie di Altomonte, Fondospezzato, Grottella, Melignano, Mollone e Persano. ARMA: di verde, alla scala a piuoli posta in banda, col leone saliente, il tutto d’oro, e la crocetta d’argento a sinistra del capo. A meno che il Crollalanza non si riferisca a qualche ramo che io ignoro, non mi risulta che lo stemma dei Tafuri descritto in altri autori sia questo. L’amico Marcello certamente ci illuminerà sul problema, anche in rapporto a quanto si legge in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/13/i-tafuri-senza-peli-sulla-lingua/
2 L’intero tomo è scaricabile da http://books.google.it/books?id=icY-WjftPMIC&printsec=frontcover&dq=editions:mUboXYF_XlIC&hl=it&sa=X&ei=NOkSVMGDK8S_PP_lgVg&ved=0CFUQ6AEwBzge#v=onepage&q&f=false.