di Armando Polito
CATONE (III-II secolo a. C.), De agricultura, 6, 1: In agro crasso et calido oleam conditivam, radium maiorem, Sallentinam, orcitem, poseam, Sergianam, Colminianam, albicerem; quam earum in iis locis optimam dicent esse, eam maxime serito (Nel terreno grasso e caldo (pianta) l’olivo nelle varietà da condimento, allungata maggiore, salentina, orcite, posea, sergiana, colminiana, albicere; di esse pianta soprattutto quella che in quei luoghi dicono essere la migliore).
DIONIGI DI ALICARNASSO (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae, I, 37, 2: Ποίας δ᾽ ἐλαιοφόρου τὰ Μεσσαπίων καὶ Δαυνίων καὶ Σαβίνων καὶ πολλῶν ἄλλων γεώργια; (Di quelle di quale regione olivicola [sono meno pregiate] le coltivazioni dei Messapi, dei Dauni, dei Sabini e di molti altri?
VARRONE (I secolo a. C.), De re rustica, I, 8: Iugorum genera fere quattuor: pertica, arundo, restes, vites. Pertica, ut in Falerno; arundo ut in Arpino; restes, ut in Brundisino; vites, ut in Mediolanensi (I tipi di spalliera sono press’a poco quattro: con pertica, canna, corda, viticci. Pertica, come nel Falerno; canna, come nel territorio di Arpi; corde, come nel Brindisino; viticci come nel Milanese).
PLINIO (I secolo d. C.), Naturalis historia, XIV, 3, passim: Metaponti templum Junonis vitigineis columnis stetit (A Metaponto il tempio di Giunone si resse su colonne di vite); Nec non Tarentinum genus aliqui fecere, praedulci uva (Inoltre alcuni considerarono di origine tarantina una specie di vite dall’uva dolcissima); Verum et longinquiora Italiae ab Ausonio mari non carent gloria Tarentina … (Veramente, [viti] d’Italia piuttosto lontane dalla parte del mare Ausonio, non mancano di fama la tarantina …).
La storia del tempio di Metaponto [naturalmente non si tratta dell’ultimo, del quale ci restano le rovine, visibili nella foto in basso tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Era_(mitologia)#mediaviewer/File:Metapontum_2013.JPG)] retto da colonne di vite (comunque, mi chiedo inizialmente: vite vera e propria o colonna di legno di vite o colonna in pietra rivestita da vite?), anche se non coinvolge il territorio di Terra d’Otranto ma uno confinante, è troppo intrigante perché io passi agli altri brani dello stesso autore sulla vite e sull’olivo salentini senza spendere su di essa più di una parola (si salvi chi può! …).
Che la vite non abbia nel nostro territorio un fusto di grosse dimensioni è cosa risaputa e confermata anche dalla testimonianza di Plinio che nello stesso capitolo dello stesso libro ricorda impieghi tutto sommato eccezionali del suo legno: Jovis simulacrum in urbe Populonio ex una conspicimus, tot aevis incorruptum; item Massiliae pateram. Etiam nunc scalis tectum Ephesiae Dianae scanditur una vite Cypria, ut ferunt, quoniam ibi ad praecipuam amplitudinem exeunt (Ho visto nella città di Populonia una statua di Giove ricavata da una sola vite, intatta dopo tanto tempo; allo stesso modo una tazza a Marsiglia. Anche ora si sale sul tetto del tempio Diana ad Efeso mediante una scala fatta di una sola vite di Cipro, come dicono, poiché lì giungono ad una grossezza eccezionale).
E di seguito Plinio dà la sua spiegazione: Nec est ligno ulli aeternior natura. Verum ista ex silvestribus facta crediderim (Né altro legno ha una durata maggiore. Veramente sarei propenso a credere che questi manufatti siano stati ricavati da viti selvatiche).
Non mi è chiaro se al carattere selvatico Plinio attribuisca la grossezza o la durata nel tempo oppure entrambe.
Nel capitolo 98 del libro XVI vi è un’integrazione riguardante il tempio di Diana ad Efeso: Maxime aeternam putant hebenum et cupressum cedrumque, claro de omnibus materiis iudicio in templo Ephesiae Dianae, utpote cum tota Asia extruente quadringentis annis peractum sit. Convenit tectum eius esse e cedrinis trabibus. De simulacro ipso deae ambigitur. Ceteri ex hebeno esse tradunt, Mucianus III consul. ex iis, qui proxime viso eo scripsere, vitigineum et numquam mutatum septies restituto templo, hanc materiam elegisse Pandemion, etiam nomen artificis nuncupans, quod equidem miror, cum antiquiorem Minerva quoque, non modo Libero patre, vetustatem ei tribuat. Adicit multis foraminibus nardo rigari, ut medicatus umor alat teneatque iuncturas, quas et ipsas esse modico admodum miror (Ritengono estremamente durevoli l’ebano, il cipresso e il cedro essendo chiaro su di loro tutti l’esempio nel tempio di Diana ad Efeso poiché col concorso di tutta l’Asia fu edificato in quattrocento anni. Si conviene che il suo tetto è di travi di cedro. Sulla statua stessa della Dea ci sono dubbi. Alcuni tramandano che fosse di ebano, Muciano console per la terza volta, uno di quelli che da poco avendola vista ne hanno scritto, (dice che è) di vite e mai cambiata pur essendo stato il tempio restaurato sette volte e che tale essenza la scelse Pandemione, indicando anche il nome dell’artefice, cosa di cui certamente mi meraviglio poiché le attribuisce un’antichità maggiore di Minerva2 e del padre Libero. Aggiunge che si bagna col nardo attraverso parecchi fori affinché l’umore medicamentoso nutra e mantenga salde le unioni della cui esistenza non mi meraviglio molto).
Indipendentemente dalle dimensioni della statua di Diana, il dettaglio delle unioni ci potrebbe spingere ad ipotizzare che nemmeno la statua di Giove a Populonia e, quel che ci interessa più da vicino, le colonne del tempio di Metaponto fossero in un unico pezzo.
Eppure l’ipotesi è messa in dubbio dalla testimonianza di Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 1, 14: Ἐν δὲ τῇ Μαργιανῇ τὸν πυθμένα φασὶν εὑρίσκεσθαι τῆς ἀμπέλου πολλάκις δυεῖν ἀνδρῶν ὀργυιαῖς περιληπτόν, τὸν δὲ βότρυν δίπηχυν [Nella Margiana (regione asiatica identificata con la valle di Fergana) dicono che spesso si trova il ceppo della vite così grosso che solo due uomini possono abbracciarlo e il grappolo di due cubiti].
Può darsi che Strabone abbia riportato una diceria esagerata e perciò suscettibile di tara, come non è da escludersi, nonostante lo spesso, che sia esistito qualche esemplare di quelle dimensioni, certamente non paragonabili a quelle di qualche vite centenaria nella quale è possibile imbattersi, per esempio, sulla costiera amalfitana, cui si riferisce la foto che segue, il corrispondente dei nostri ulivi patriarchi.
Per quanto fin qui detto appare verosimile che le colonne del tempio di Metaponto fossero costituite veramente da ceppi di vite gigante. Non sono un ingegnere ma credo che sarebbero state, comunque, in grado di reggere il peso del tetto. C’è stato, però, in un passato non molto remoto, chi ipotizzò, sia pure indirettamente, che la fabbrica fosse una capanna piuttosto che un tempio vero e proprio.
Si tratta di Vincenzo Cuoco (1770-1823) che nel 1806 pubblicò il Platone in Italia, romanzo in forma epistolare, il cui inizio sembra anticipare il dilavato e graffiato autografo2manzoniano: Il manoscritto greco che ora ti do tradotto, o lettore, fu ritrovato da mio avo, nell’anno 1774, facendo scavare le fondamenta di una casa di campagna che ei volea costruire nel suolo istesso ove già fu Eraclea3. Ogni angolo dell’Italia meridionale chiude tesori immensi di antichità; e non ve ne sarebbe tanta penuria se i possessori non fossero tanto indolenti quanto lo è il ricco possessor del terreno, ove era una volta Pesto, e dove oggi non vi si trova né anche un albergo per ricovrar coloro che una lodevole curiosità move dalle parti più lontane dell’Europa a visitar le ruine venerabili della più antica città dell’Italia.
L’ultimo periodo è di una sconcertante attualità; solo che, probabilmente, il Cuoco si sarebbe ben guardato dallo scriverlo se avesse presagito che il suo invito sarebbe stato accolto con la costruzione di case, alberghi, villaggi turistici e simili sopra i siti archeologici o nelle loro immediate adiacenze, con l’unica magra alternativa di spostare alcuni manufatti dal luogo in cui sono custoditi (vedi la polemica sui Bronzi di Riace da esibire o meno alla ormai famigerata Expo 2015).
Meglio non divagare, ma solo per rispetto del lettore e dell’economia del post, non certo di quella legata unicamente all’ignoranza e alla speculazione; nel capitolo XXXV così si legge: Peccato, che in questo bel tempio, tu ricerchi in vano una bella Dea! Non vedi né il sublime Giove, né la Minerva bella del nostro Fidia. Quando sei nel sacrario, ti si mostra una colonna rozza, sconcia, quasi simile a quelle sciagurate colonne di viti che sostengono quella capanna che in Metaponto chiamasi anch’essa tempio di Giunone.
E il Cuoco, quasi a commento alle immaginarie parole messe in bocca a Platone, in nota a Giunone aggiunge con nonchalance, quasi a conferma filologica della sua invenzione: Lo stesso Plinio ci dice che in Metaponto eravi un tempio di Giunone le di cui colonne eran di legno di vite. O la vite di Metaponto dovea esser marmo, o il tempio dovea esser una capanna.
Capanna o non capanna che sia stato questo tempio, non mancano testimonianze moderne di manufatti in legno di vite.
Girolamo Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Francesco Valuasense, Venezia, 1664, p. 3: A questa Santa Basilica (il Duomo di Ravenna) fa nobile, e maestoso ingresso una gran piazza apertavi dall’Arcivescovo Cristoforo Boncompagno con trè porte in faccia, la maggior delle quali è di vari marmi, e colonne egregiamente ornata, e massime di un grandissimo architrave con diversi intagli, figure, & è tradizione antica, che la porta di legno, che la chiude sia di vite.
Scipione Maffei, Osservazioni letterarie, Stamperia del Seminario, Verona, 1739, tomo IV, p. 371: Meritano menzione ancora le antiche porte del Duomo, che sono di legno di vite. Le tavole sono lunghe piedi 10, larghe più d’un piede, e grosse un’oncia e mezza.
Giovanni Poleni, Sopra al tempio di Diana d’Efeso, in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia etrusca dell’antichissima città di Cortona, tomo I, parte II, Pagliarini, Roma, 1742, pp. 48-49: Le porte della vecchia Chiesa Cattedrale di Ravenna, che fu abbattuta pochi anni sono, ed ora si rifabbrica magnificamente erano di legno di vite. Menzionate esse furono nella relazione d’un giro fatto dal celebratissimo Autore delle Osservazioni letterarie; e di esse pure me ne ha data una piena contezza il Reverendissimo P. P. Pomponio Suardi Abate in S. Vitale di Ravenna. Questo misurar fece da un architetto quelle porte, ed io qui trascrivo la nota delle misure da lui mandatami. La lunghezza delle Tavole è di palmi Romani 21. In circa: la larghezza di mezza porta è di palmi 8 e mezzo; la larghezza delle Tavole più strette è d’once 14 e delle più larghe d’once 21. In circa: la grossezza delle dette Tavole è di once 4 circa. Anche al dì d’oggi nelle pignete vicine a Ravenna vi si veggono delle viti d’una straordinaria grossezza. Quelle porte, benché antichissime siano, non ostante sono così ben conservate, che li direttori di quella grandissima fabbrica della Cattedrale pensano di servirsi delle Tavole di esse per formare alla cattedrale medesima le nuove porte.
Francesco Ginanni (1716-1766), Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, Salomoni, Roma, 1774 p. 204: Di questa spezie di vite (labrusca, di cui ha parlato prima) forse potrebbero essere le tavole, che formavano le antiche Porte del Duomo nostro, e ora foderano le moderne. Esse erano lunghe piedi 10, larghe più di un piede, e mezzo.
Al di là delle divergenze dimensionali ravvisabili nei brani del Maffei e del Poleni, sembrerebbe che il pensiero dei direttori nominati nel passo del Poleni divenne, in qualche modo, realtà, ma credo che il foderano del passo precedente vada inteso tenendo conto di quanto si legge in Francesco Nanni, Il forestiere in Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1821, p. 5: Meritano qui di essere ricordati sedici riquadri di tavole di vite, tenue avanzo delle antiche porte di questa Cattedrale, impostati nel di dietro della moderna porta, i quali fanno prova di quanto scrissero gli antichi intorno al crescere a dismisura di questa pianta.
La notizia è confermata da Gaspare Ribuffi in Guida di Ravenna, Roveri & figli, Ravenna, 1835, p. 16: Parete interna della Porta d’ingresso in Prospetto. Sopra la porta di mezzo: Grandioso Quadro rappresentante il Convitto del re Assuero di Carlo Bonomi ferrarese scolaro di Paolo Veronese. Nella serranda: Sedici riquadri di tavole di Vite, avanzo delle antiche Porte di questa cattedrale. Sarebbe interessante, a questo punto, sapere come sono e stanno le porte attuali e chissà se qualche lettore, magari ravennate perché per lui sarebbe più agevole, non soddisferà questa mia curiosità.
Chissà, chissà, chissà … che fine ha fatto il tronco di cui scrive Gaetano Savi nel Trattato degli alberi della Toscana, Piatti, Firenze, 1811, tomo II, p. 192: … nell’atrio dell’orto botanico di Pisa se ne (di vite) conserva un tronco alto braccia 5 (m. 2,918), e di braccia 2 (m. 1,67) di circonferenza, proveniente dalla maremma Sanese, e nominatamente da un terreno situato Tra Soreno e Castellottieri.
Dopo questa lunga parentesi torno all’assunto iniziale e alla carrellata principale delle altre testimonianze pliniane.
XV, 1, 8: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatiore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit (Anche in questo bene [l’olio, prima ha parlato del vino] l’Italia ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e nella parte di esso che produce l’olio liciniano, per cui altissima è la considerazione riservata all’oliva licinia. Questa fama la diedero i profumi adattandosi loro il suo odore; la diede anche il gusto per il sapore alquanto delicato. Per il resto nessun uccello è ghiotto delle bacche di [oliva] licinia).
Rinvio il lettore che si starà chiedendo dov’è citato il Salento (però ho sottolineato Licinianum e Liciniae) in questo brano all’ipotesi formulata in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/.
MACROBIO (IV-V secolo d. C.), Saturnalia, III, 20, 6: Olearum genera haec enumerantur: Africana, albigerus, Aquilia, Alexandrina, Aegyptia, culminia, conditiva, Liciniana, orceas, oleaster, pausia, paulia, radius, Sallentina, Sergiana, Termutia (Si contano queste varietà di olivi: l’africana, l’albigera, l’aquilia, l’alessandrina, l’egizia, la culminia, quella da condimento, la liciniana, l’orcea, la pausia, la paulia, la allungata, la salentina, la sergiana, la Termuzia).
Chiedo scusa al lettore per averlo intrattenuto, ancora una volta, con un argomento nella trattazione del quale di mio c’è ben poco, a parte l’augurio finale, in due versi (!), endecasillabi in rima baciata, per chiudere in allegria, augurio per oggi limitato a queste due essenze e dovuto alle ben note contingenze non solo economiche:
Lunga vita alla vite e all’ulivo
per noi vino ed olio senza additivo!
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1 Minerva era considerata l’inventrice di tutte le arti.
2 Come sapeva qualsiasi studente del passato (quando la lettura de I promessi sposi era obbligatoria), il Manzoni finge di aver ritrovato un antico manoscritto e, dopo aver rinunziato alla sua semplice trascrizione, decide di prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura.
3 Nei pressi di Policoro, in provincia di Matera.
È veramente sempre un piacere per la mente leggere le tue ricerche e soprattutto le tue traduzioni che sono una delizia di scrittura, perfette e nello stesso tempo ammirevoli come ricerca di vocaboli che la modernizzano senza stravolgerla. Il mistero è come riesci a rintracciare tutto questo materiale. Va bene che oggi la “rete” semplifica, ma l’intelligenza è saperla usare nel modo giusto e comunque,avere conoscenza precedente, di dove è possibile reperire i testi e le immagini che li corredano che sono anch’esse sempre una gioia per gli occhi.
Approfitto per chiedere un tuo illuminante parere. In piemontese la vite si dice e si scrive “vis” che,tra l’altro, ha tre significati: la vite in quanto pianta che produce l’uva;la vite, come aggeggio meccanico per piazzare qualcosa;e, infine, come modo di dire: “a mè vis” che vuol dire “a mio parere”. Quest’ultimo ritengo derivi dal latino “Mihi visum est” (ma attendo tua conferma). La “vis” come pianta credo venga dal latino “vitis,is”, mentre “vis” come aggeggio meccanico, dal latino “vis,vim” “forza”. Mentre la vite in quanto pianta, come detto si dice e si scrive “vis” la vigna in piemontese si chiama “autin”: Mi risulta, ma non ne sono certo, che esista un termine del francese antico “autin” come “albero a cui si appoggiavano le viti” e che da questo derivi. Io pensavo anche alla possibilità che si riferisca al fatto che i terreni delle viti da noi normalmente sono sulle colline; ma forse è un po’ tirato per i capelli: Un’ultima curiosità: in piemontese, scherzando, si dice “breu d’autin” (letteralmente. “brodo di vigna”) il vino, che è, secondo me, un piacevole gioiellino.
Sergio Notario
Per darti un parere, più che illuminante, illuminato in un primo momento ho pensato bene di puntarmi addosso in pieno giorno la lampada alogena che ho a portata di mano sulla scrivania. Poi l’ho spenta perché non mi veniva nulla in mente. Prima di poter stilare le righe che seguono ho dovuto aspettare che soprattutto la testa si raffreddasse e che i capelli impermanentati riassumessero l’aspetto originario ….
Senza scomodare il latino credo che “A me vis” alla lettera corrisponda all’italiano “a mio avviso”. Avviso è dal francese “avis”, che è dal latino “advisu(m)” composto da “ad” e da “visum” (participio passato di “vidère”) e l’espressione italiana è pari pari la traduzione della francese “à mon avis”. La piemontese, secondo me, ha seguito lo stesso processo di quella italiana con “me” aggettivo possessivo attributo del sostantivo “avis” che ha subito l’aferesi propiziata dalla necessità di evitare la sgradevole accoppiata “-e a-“.
Non condivido, perciò, perché non plausibile sul piano fonetico, quanto leggo nel vocabolario De Mauro ma anche nella Treccani on line (http://www.treccani.it/vocabolario/tag/avviso/): “dal fr. ant. avis, dalla locuz. ce m’est à vis che è il lat. volg. mihi est visum per il class. mihi videtur=mi sembra”. Da quale elemento del presunto latino volgare (extrema ratio che fa sempre comodo, tanto chi l’ha mai sentito …) è derivata la à della locuzione francese?
La conferma della mia trafila è data dal latino medioevale “advisum” o “avisum” registrato nel lessico del Du Cange, dal quale chi fa ricerca etimologica seria non può prescindere. Vale la pena riportare il lemma anche perché alla fine è citato un brano in francese:
“AVISUM, Consilium, sententia. Gall. Avis. Pactum inter dom. De Lisigniaco et de Pedenacio anno 1331 in Reg. 69 Chartoph. Reg. ch. 180: Facta relatione de praedictis dicto domino senescallo commissario praedicto, ut de eorum aviso seu consilio constat per scripturam inde factam per manum mei Michaelis de parietibus notarii, etc. Infra: De eorum adviso. Charta anno 1351 in Reg. 81 ch. 912: Commisimus baillivo Rothomagensi … quatenus, vocato dicto procuratore nostro, se diligenter super hoc informaret, informationemque, una cum aviso suo, nobis super hoc … remitteret.
Alius sonat vox Gallica Avis, in Charta anno 1303 ex Lib. Rub. Cam. Comput. Paris fol. 314 V° col. 1: Je ai donné et doins, après mon décès, à François mon filz, pòlour partie de terre pour le avis et pour l’assiggnement de son marriage, toute la terre, closement de Werdereke. Ubi idem est quod Assene et Advis, apud Buteller. In Sum. rurali lib. 1 tit. 25. Assignatio nempe ad vitam et addiction bonorum filiis postgenitia a pate facta. Vide Assennatio”.
Nel primo brano “advisum” presenta già il significato di “parere” che si conserverà nei secoli successivi. Nel secondo “avis” è giunto al significato di “assegnazione” partendo da quello di “parere” e passando per quello di “parere favorevole”.
Per il resto: la vite (pianta) e la vite (aggeggio meccanico) hanno la stessa etimologia: dal latino “vite(m)” che in epoca classica indicò solo la pianta ma già nel Palladio (IV secolo d. C.) è usato nel senso di “viticcio” e perciò quest’autore latino prepara con una sineddoche (in questo caso la parte per il tutto) il significato che l’aggeggio meccanico assumerà per somiglianza (la sua filettatura, appunto, ricorda il viticcio). Dunque, quest’etimo non ha nulla a che fare con la parola precedente.
Chiudo con “autin”. In Antoine Du Pinet, Ne L’histoire du monde de C. Pline Second, A le Salemandre par Claude Senneton , Lione, 1562,leggo: “autin, hautin, vigne cultivée sur souche élevée et dont la taille est conduite de façon que les branches à fruits soient à une certaine distance du sol”.
Dunque, per quanto riguarda l’etimo, la posizione elevata in collina dovrebbe cedere il posto al metodo si coltivazione per cui viene favorito lo sviluppo in altezza del ceppo con l’ausilio di un albero o, almeno all’inizio, di un tutore (anche se di questo dettaglio nella citazione non c’è traccia) e, dunque, dell’intera pianta.Appare evidente, poi, che “hautin” è connesso con “hautain”=altezzoso ed entrambi con “haut”=alto, che è dal latino “altu(m)”, participio passato di “àlere”=far crescere. Molto probabilmente i ceppi eccezionali (anche in lunghezza) citati nel post sono figli di questo tipo di coltivazione.
Cari saluti e, in attesa di risentirci, vado a farmi subito un breu d’autin (l’uva pugliese prevede solo un brodo estremamente concentrato …, tanto che “vino” per noi è “mièru”, dal latino “merum”=schietto, puro) alla tua salute.
Lo sapevo che mi avresti illuminato, non ne avevo dubbi. Grazie e a presto.
Sergio