di Armando Polito
* Povero illuso! Non sa che ho appena finito di appendere agli ami quei tre cazzi di re1 che mi ha riservato l’altro giorno manco fossero saraghi …
Probabilmente quello con la togna è il tipo di pesca più diffuso da chi, amante del mare, disponga di un natante di dimensioni anche minime, quali possono essere quelle di una barchetta, un canotto e (perché no?, fa pure quasi rima) un pedalò.
Ho pescato anch’io con la togna, poi un po’ per pigrizia, un po’ perché gli anni si facevano sentire ho smesso. Oggi, se mi fosse concesso, non ritornerei a farlo, prevalentemente per problemi di natura sentimentale. A scanso di equivoci: si tratta sì di questioni di cuore, ma non come comunemente intese.
Faccio, per diluire la nostalgia e per vincere il pudore, una digressione tecnica dicendo che la togna, che può essere considerata una variante del bolentino, è sostanzialmente una semplice lenza, un filo di nylon lungo dai 30 m. in su (nulla vieta di costruirsene una più corta; dipende dai fondali che si è abituati a frequentare) avvolto quando non è in uso attorno ad un pezzo rettangolare di sughero. Segue, collegata alla prima da una girella, la parte terminale costituita da uno spezzone di filo più sottile, lungo circa un metro, al quale vengono fissati ad intervalli regolari tre spezzoni di filo ancora più sottile (a ciascuna estremità viene montato un amo), mentre al capo estremo si applica il piombo.
Dopo che la parte terminale è stata armata con l’esca, la lenza viena calata in acqua srotolandola dalla tavoletta tenuta saldamente con una mano. Di solito, dopo che il piombo ha toccato il fondo (ma a seconda del tipo di pesce presente in zona talora conviene fermarsi a mezza altezza) la si solleva di poco più di mezzo metro e si resta in attesa che il pesce abbocchi. Se la giornata è quella giusta, mentre si stringe il filo tra il pollice e l’indice si sentirà uno strappo e a quel punto bisogna essere abili perché tirando con troppa energia si rischia che il pesce si slami e lasciando fare tutto a lui si rischia di sfamarlo senza alcun rischio da parte sua. Dall’entità dello strappo si può intuire la grossezza del malcapitato o il numero di malcapitati (naturalmente, non più di tre). Pari abilità e sensibilità va richiesta lungo tutta l’ascesa della preda finché non è al sicuro sulla barca. Il momento più eccitante era, almeno per me, quello dello strappo e della consapevolezza (spesso delusa …) che difficilmente il pesce si sarebbe liberato; ed erano momenti di emozione che prevalevano sull’ansia di sapere il tipo e la pezzatura della preda (molto spesso era un falso allarme, perché dall’acqua uscivano fuori solo tre cazzi di re e le bestemmie non erano certo all’indirizzo della monarchia …).
La ragione sentimentale prima accampata coincide proprio con quel momento topico dell’abboccamento, che ieri esaltava, attraverso quell’antico rituale di morte, il predatore più o meno giovane, oggi angoscia il vecchio al quale sembra una metafora della fine.
Urge un’altra digressione tecnica e con questa si concluderà il post. La voce togna solo da poco è entrata nel vocabolario italiano. Nel dialetto salentino è presente da molto tempo e probabilmente è un prestito veneziano, ma l’origine della parola è molto antica. L’etimo presente in tutti i vocabolari è quello già proposto dal Rohlfs per il salentino: dal greco volgare *ἀπετωνία (leggi apetonìa), cfr. il neogreco ἀπετωνιά (leggi apetonià) e πετωνιά (leggi petonià)=lenza per pescare”, con una correzione che coinvolge solo la cronologia e, in parte la grafia: dal greco medioevale ἀπετονία (leggi apetonìa). Non son riuscito, invece, ad avere conferma delle voci indicate dal Rohlfs come neogreche.
Togna, così, deriverebbe da ἀπετονία per aferesi da *apetògna con la stessa trafila fonetica del salentino stamegna3, solo che qui non c’è (o, meglio, non son riuscito a trovare attestazione del) l’intermediario latino. Io posso solo aggiungere che il secondo componente di *ἀπετωνία è τόνος=tensione, a sua volta connesso col verbo τείνω=tirare.
In riferimento al precedente cronologia sarebbe interessante scoprire se la voce è passata dal veneto ai dialetti meridionali (e poi, ultimamente, in italiano) oppure se ha seguito il percorso inverso.
Anche qui posso solo dire che la più antica testimonianza letteraria nel dialetto veneto risale al XVI secolo: Maffio Venier, Canzoni e sonetti, sonetto 32, v. 7: co trovo chi me prese el cuor a togna. Testimonianza coeva è nei versi 404-405 di La guerra de’Nicolotti e Castellani di autore ignoto: Fè sia, voga, premi, vegnì a lai/che a togna qua se pia de bone trute. Per il XVII secolo P. Cacia, L’ipocrisia, vv. 57-60: Un tal veste a l’usanza del Cigogna/co le scarpe de bruna e un capellazzo/che pol servir d’ombrela in Canalozzo/a quei che pesca clevoli de togna.
Per dare, non definitivamente …, un calcio all’etimologia ma soprattutto alla malinconia chiudo con i versi 49-52 della satira XII (De’ matrimonii disuniti) facente parte de Il vespaio stuzzicato di Dario Varotari il giovane (secolo XVII): No’ so come confar Zovene fresca/se possa con Mario grancio, e stantivo,/che insenco per el più, retroso, e schivo,/xè togna senza pesce, hamo senz’esca.
La traduzione è d’obbligo per agevolare il lettore sul significato allegorico che io, pur nella generica similitudine piscatoria, forse con troppa malizia, attribuisco a quel pesce … (Non so come una giovane fresca possa confarsi con un marito rancido3 e stantio, che intristito4 per lo più, ritroso e schivo, è togna senza pesce, amo senza esca).
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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/11/15/il-pesce-fa-bene-al-cervello/
3 Credo che sia variante di granzio=rancido (come fa supporre il successivo stantio), piuttosto che di granzo=granchio (nonostante questo evochi i movimenti lenti e quasi rattrappiti che ben si addicono, ahimè, ad un uomo avanti negli anni).
4 Insenco è variante di insenètio, dal latino in+senectus=vecchio, a sua volta da senex con lo stesso significato.