di Antonio Errico
In fondo si racconta per non dimenticare, per non dimenticarsi.
Per questo si racconta, in fondo, e per questo racconta Rocco Boccadamo.
Per ritrovare volti. Per risentire voci, ricomporre frammenti.
Si racconta per attribuire una struttura alla memoria. Senza racconto
ci sono ricordi, ma non c’è memoria.
Senza racconto rimane tutto confuso, vago, indistinto.
Allora a un certo punto si sente il bisogno di attribuire ai ricordi
una struttura.
Così fa Rocco Boccadamo. Narrando fabbrica cornici dentro le
quali personaggi, luoghi, storie, si ritrovano in una tessitura coerente,
compatta.
Racconta non per evocare ma per rigenerare. La memoria si fa presenza.
L’io che narra si sdoppia e si riguarda, ed è in questo gesto del
riguardarsi, in questa condizione del rispecchiamento, che si verifica
il ritorno del passato.
Non è il narratore che ritorna; sono le storie che tornano al narratore,
e gli bussano alla porta e pretendono di essere narrate, perché
le storie con le loro figure, i loro luoghi, con i significati che hanno
avuto, non vogliono dissiparsi, non vogliono finire.
Così raccontando si concede alle storie di non finire.
Questo è il racconto di Rocco Boccadamo.
Ogni gesto di scrittura è un attraversamento dell’esistenza.
Fruga nelle sue viscere.
È una memoria consegnata alla macchia d’inchiostro che cade e si
allarga e invade la pagina.
Così il racconto di sé, della propria storia, talvolta si rivela come il
racconto della storia delle proprie emozioni, dei propri sogni, delle
illusioni, di fantasmi che hanno il volto buono, che hanno gli occhi
dolci, di tutte le situazioni immaginate, del desiderio di quello che si
avrebbe voluto e non si è mai avuto, o di tutto quello che si è perduto,
dei pensieri nascosti, di ansie, paure, e bellezze, e straordinari pudori.
Scene di grandi e piccole storie.
Un costante parlare a qualcuno con una scrittura sincera. Che non
gioca, non nasconde, non simula, non ricerca strade tortuose: sa bene
che tortuosa è la vita e che le parole forse dovrebbero darle l’illusione
di un passo sicuro.
Una scrittura così tanto sincera da riuscire anche a disarmare, a rivelare
che a volte basta molto poco per dire qual è la verità abissale.
A volte basta capire qual è la parola che si è fatta ombra del corpo
o di un pensiero. E pronunciarla. Semplicemente. Disperatamente.
Felicemente. Con la stessa semplicità. Con la stessa disperazione.
Con la stessa felicità di una preghiera rivolta all’idea di un Dio, alla
dolcezza di un ricordo, al tempo che viene e che va, o soltanto a se
stessi, al proprio bisogno di affidare a qualcuno la confessione di una
fedeltà.
Il soggetto che narra è completamente dentro la scrittura: ne è avvolto,
coinvolto, a volte travolto: psicologicamente, razionalmente,
emotivamente, sentimentalmente, passionalmente. In tutta la sua fisicità.
Il corpo si protende verso la scrittura, ed è come se si sporgesse dai
bordi di un pozzo, e sul fondo di quel pozzo vedesse il passato, tutto
lì, sul fondo, convogliato, radunato.
Poi dal fondo di quel pozzo il passato risale fino agli occhi, fino al
pensiero, che lo ricompone, lo riconfigura, gli restituisce movimento
ed espressione, cercando di ridurre per quanto è possibile lo scarto
determinato dal tempo, attraverso una narrazione lineare, organizzata
per sequenzialità e consequenzialità, per cause ed effetti, per immagini,
nuclei di senso.
Il soggetto che narra vorrebbe restare neutrale, o almeno a distanza,
ma ci sono scaglie, particolari che lo richiamano, lo seducono, lo
commuovono, provocando una memoria dolceamara costantemente
contagiata dalla nostalgia dell’essere stato, di aver vissuto, di come
gli altri sono stati, di come gli altri hanno vissuto, quando il tempo è
stato bello e quando è stato brutto.
La memoria sopraggiunge in dormiveglia portandosi dietro e dentro
immagini in un istante nitide, nell’altro istante screziate dalla distanza.
Si insinua nello spazio tra sonorità e silenzio.
Allora scrivere è il tentativo di trascrivere la percezione di una
magia.
La narrazione si protende all’ascolto dei segni che appartengono
alla terra e alle creature come un respiro e come una ferita; si apposta
a spiare il movimento dei corpi che cercano una sintonia ancestrale
con l’universo; s’inarca per farsi passaggio da una condizione ad
un’altra del tempo e dell’esperienza.
Il racconto riconferma ad ogni riga il legame dell’uomo con la propria
origine, con le radici del tempo e dell’esistenza, con le ragioni,
le passioni, i riti, i miti, i sentimenti, i sogni che vengono da lontano
e dal profondo, che c’erano prima che si accendesse la parola, che ci
saranno quando la parola sarà spenta.
L’identità probabilmente è questo: l’esito di passato rievocato che
si combina con il presente, una fisionomia che si delinea attraverso
il confronto serrato, talvolta lacerante, con il tempo e con le sue
espressioni, le sue rappresentazioni, i suoi fantasmi, le paure che suscita
e i suoi richiami seducenti.
Perché, poi, la scrittura è quella tela che l’Altro che si è quando si
scrive tesse, senza pazienza, per catturare l’innocenza di essere, l’incantevole
stupore che l’uomo si tiene dentro, gelosamente.
La scrittura sprofonda nel tempo e riprende stagioni, giorni, attimi,
restituendoli all’esistenza.
Quello di Boccadamo è anche il racconto di una identità: dell’identità
di una cultura e di un tempo.
Una narrazione di sé, del proprio essere e del proprio essere stato
in un tempo, in un luogo. Perché non si può raccontare altro che del sé e della relazione che
il sé ha stabilisce con il tempo. Perché non si può raccontare altro
che il tempo.
La scrittura apre uno spazio tra passato e presente, indipendentemente
dall’intenzione e, a volte, perfino dalla consapevolezza da
parte dell’autore.
La vita, la morte, il desiderio, la storia, il destino, la parola, convergono
e si congiungono in quello spazio.
La scrittura si genera sempre sul limite: nel punto in cui una ragione
smotta, un sogno elabora figurazioni.
Si genera sulla soglia che separa il conscio dall’inconscio, nell’andirivieni
tra queste due condizioni.
In quello spazio, lungo quel limite, su quella soglia, si muove la
narrazione di Boccadamo. alla ricerca di una consonanza con il
tempo, di una rassomiglianza con la vita; è un’interrogazione a volte
pacata, a volte disperata.
È un corpo a corpo con la propria storia.
È una maniera per placare la smania di rompere l’assedio della caducità
attraverso l’inganno che ordiscono le figure che risalgono dai
fondigli della memoria.
Allora è in quest’illusione, in questa consolazione, in questa aspirazione
consapevolmente impossibile di colmare le distanze tra gli
esseri e la loro nominazione, che la scrittura trova la motivazione del
suo principio e della sua fine.