* Non sai che incubo ti attende …
Nel mio ultimo anno d’insegnamento (2000-2001) la moda del test aveva già preso piede, soprattutto sulle riviste cosiddette femminili, nonostante non avesse assunto l’importanza che ha oggi, soprattutto nell’ambito della valutazione didattica.
Mi ritrovai quasi all’improvviso in questa situazione: non potevo apparire agli occhi dei miei ragazzi, per colpa anche dell’età, come un docente antico ed antiquato; d’altra parte mi trovavo drammaticamente a corto con le interrogazioni a causa delle numerose assenze, le mie, fatte per motivi turistici ma regolarmente giustificate da un compiacente certificato attestante una febbre da cavallo; veramente il medico la prima volta voleva scrivere da somaro, ma ha dovuto cedere quando l’ho minacciato di denunziarlo per calunnia ricordandogli che oltretutto ero un componente di spicco (a dire il vero millantai un presidente, che in Italia fa sempre un effetto della Madonna, anche se ero solo uno degli addetti volontari, nemmeno il loro capo, alla pulizia dei bagni della sede) del comitato per la protezione dell’asino di Martina Franca).
Il test mi consentiva di prendere due piccioni con una fava e non mi lasciai sfuggire l’occasione.
Lo somministrai (per chi non lo sapesse: è questo il verbo tecnico) ai ragazzi e, dopo tre settimane (non è questo, comunque, il mio record …) passai in rassegna le schede compilate. Guardate un po’ come si presentava quella di Armando Polito (caso rarissimo di omonimia, ma succede) alla fine dell’operazione.
Credo che chiunque avrebbe valutato il lavoro allo stesso modo; solo che io dovetti prima accertarmi che tra me e lui non ci fosse nessuna parentela. Un sito specializzato nella ricostruzione degli alberi genealogici mi venne provvidenzialmente in soccorso (anche se questo tipo di provvidenza, a differenza di quella divina, costa maledettamente); andando a ritroso fino alla centesima generazione (che bravi!) mia e sua, l’esito fu negativo e, anche se mi pareva un po’ masochistico, emisi l’impietoso verdetto.
Mi sentivo in pace con la coscienza e non mi fece alcun effetto il sorriso beffardo con cui Armando Polito accolse il giudizio del suo attempato (magari avrà pensato pure, lo dico a posteriori, rincoglionito) omonimo.
La mia sicurezza, però, cominciò a vacillare quando mi venne recapitata una raccomandata con la quale mi veniva notificato il ricorso presentato dal legale del mio alunno; la stessa sicurezza si mutò in inquietudine quando lessi la firma dell’avvocato: Armando Polito.
Ero scombussolato a tal punto che per due giorni interi, seguendo un istinto quasi scaramantico e omeopatico [similia similibus=ogni fenomeno (va curato) con uno simile] cercai invano sugli elenchi telefonici di tutta Italia un avvocato che si chiamasse come quello dell’allievo, come l’allievo stesso e, cominciavo a dubitare della mia stessa identità, come me. L’unico avvocato Armando Polito se l’era accaparrato l’alunno Armando Polito nel ricorso presentato contro l’insegnante Armando Polito!
Il terzo giorno mi pervenne un’altra raccomandata il cui testo mi raggelò il sangue. Eccolo (il testo …):
L’immagine del barbone (ma senza risparmi con cui, magari, presentare istanza al tribunale per cambiare nome e cognome …) mi fece svegliare di soprassalto. Dipenderà da questo incubo la mia nota avversione al test come strumento di valutazione? O sotto sotto (misteri dell’animo umano!) si nasconde il desiderio che il sogno diventi, ormai per gli altri insegnanti in servizio, realtà?