di Armando Polito
Il nome della rosa, il best-seller di Umberto Eco uscito nel 1980, si sarebbe potuto chiamare diversamente? Questo secondo interrogativo, dirà qualcuno, gettato così, senza preavviso, spiega perfettamente quello del titolo, diradando i residui dubbi …
L’occasione per scrivere queste righe che conterranno mie riflessioni abbastanza datate (nel frattempo i fumi dell’alcol dovrebbero essere svaniti, a meno che pure attualmente non sia ‘mbriacu a stozze, in italiano ubriaco fino ad essermi ridotto a pezzi) è stata casualmente fornita dalla lettura dell’ottimo recente lavoro di Angelo Micello, che chiunque può leggere all’indirizzo http://www.micello.it/2014/06/stat-vinea-pristina-nomine-nomina-nuda-tenemus/, dal titolo STAT VINEA PRISTINA NOMINE, NOMINA NUDA TENEMUS. Mi pare doveroso aggiungere che il sito in questione, per quanto possa valere il mio giudizio, è oro colato rispetto a tanti altri che appaiono come un’immonda miscela appiccicaticcia (grazie anche ad un forsennato copia-incolla) di affermazioni senza capo né coda, sovente spacciate per verità più o meno scientifiche.
Angelo ha tentato di adattare il verso 952 del libro I del De contemptu mundi (integralmente leggibile e scaricabile da http://www.documentacatholicaomnia.eu/04z/z_1100-1200__Bernardus_Cluniacensis__De_Contemptu_Mundi__LT.doc.html) di Bernardo di Cluny, monaco benedettino del XII secolo, al tema trattato con sacrosanta amarezza, quello del rapporto tra vigna e vino nel Salento.
L’operazione di Angelo era stata già effettuata da Umberto Eco, il cui romanzo si chiude con
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Tecnicamente è un esametro di stampo tipicamente medioevale costituito tutto (meno l’ultimo piede) da dattili (- ˘˘) e privo di cesura. Altre caratteristiche le sottolineerò dopo, perché legate al rapporto con gli altri versi.
Ecco la scansione:
Stāt rŏsă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs
Traduzione: La primitiva rosa sopravvive solo nel nome, noi conserviamo i nudi nomi.
Al di là delle sottili e spesso bizantine interpretazioni date di questo verso, a quell’imbecille del sottoscritto il senso pare chiaro: delle varie realtà umane a cui abbiamo dato il nome resta solo quest’ultimo, il che significa, per esempio, che tutto è in continua trasformazione, anche se l’etichetta rimane la stessa che a quella realtà venne data per la prima volta. Nel nostro caso: quel fiore che per la prima volta venne chiamato rosa oggi comprende un enorme numero di varietà.
Ma, interpretazioni a parte, rimane il fatto che il verso adottato dall’edizione della quale ho segnalato all’inizio il link, è: Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus (Sopravvive l’antica Roma nel nome, conserviamo i nudi nomi).
Di questo si mostra perfettamente consapevole l’autore del romanzo che già nel saggio I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Sonzogno, 1990, s. p., scriveva (riporto il brano in formato immagine per fare più presto):
Il concetto verrà ribadito nell’edizione (sempre Bompiani) del 2012, dove alla fine leggo (riporto anche questo brano in formato immagine):
Questo secondo brano rivela chiaramente una rottura di scatole dell’autore che, però, si difende malamente entrando in contraddizione con quanto aveva riconosciuto nel primo. Lì riconosce che il titolo probabilmente sarebbe stato diverso, qui ai curiosi, ai pignoli, a i lippi e ai tonsori (è, ad esprimere disprezzo, un climax ascendente perfetto …) dichiara che un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera.
Aggiungo io che un semplice narratore non deve dar conto nemmeno del titolo dato alla sua opera ma, quando egli, come nel nostro caso, è un semiologo nonché un filosofo e per narrare trae ispirazione, sia pure occasionale, dalla sua scienza, non solo può ma secondo me deve tener conto di quest’ultima, fosse solo per un titolo da dare. Il rigore è d’obbligo, tanto più che nell’economia del romanzo Roma o rosa o, come vedremo, qualche altra voce, sarebbe stato irrilevante. L’assenza di questo rigore, proprio in chi per definizione dovrebbe farne la sua bandiera costantemente sventolante, è estremamente pericolosa perché alle leggende moderne recepite come antiche o alle storie romanzate basate su interpretazioni di fonti lacunose recepite come verità storica dal lettore ingenuo (vedi a tal proposito, per restare al nostro territorio, oltre che alla saga sui Messapi di Fernando Sammarco anche ciò di cui ho avuto occasione di discorrere, fra l’altro, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/21/manduria-e-cheronea-un-gemellaggio-imperfetto/; https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/27/perche-gli-olivi-patriarchi-salentini-sono-sculture-viventi/; https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/) si affiancano acritiche certezze germogliate da dati quanto meno discutibili e corroborati nella coscienza del lettore dall’autorevolezza dell’autore solo apparentemente, secondo me, incolpevole.
E passo ai dati quanto meno discutibili.
Intanto va detto che Eco avrebbe fatto meglio a metterci al corrente del nome e del cognome di quel qualcuno del primo brano, scopritore di Roma invece di rosa [naturalmente con tutti i dati possibili ed immaginabili sul manoscritto o sui manoscritti (dico così sulla scorta di quello che può essere un lapsus freudiano: alcuni manoscritti … diceva ) e la relativa collocazione], diventato nel secondo un ancor più generico mi hanno segnalato.
C’era, poi, bisogno dell’amico latinista (anonimo anche questo; sarà per un malinteso concetto della privacy?) per scoprire che Roma metricamente non poteva andar bene?
Ecco, infatti, cosa verrebbe fuori nella scansione:
Stāt Rōmă|prīstĭnă|nōmĭně|,nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs.
Il primo piede sarebbe un mostruoso –˘, che nessuno prima ha mai incontrato.
Ma è veramente pensabile che Bernardo di Cluny sia incorso in un errore metrico così marchiano, l’unico di tutta la composizione (ho controllato, ho controllato …)? Io credo che le cose stiano diversamente e mi accingo a dimostrarlo, non dopo aver detto che tutti i versi che citerò sono tratti dall’edizione critica (che è rimasta come quella di riferimento) pubblicata in Rerum Britannicarum medii aevii scriptores, or chronicles and memorials of Great Britain and Irelandduring the middle ages, v. II, a cura di Thomas Wright ed altri, Londra, editori vari, 1872, pp. 3-102, integralmente consultabile e scaricabile da http://books.google.it/books?id=WrNSAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=anglo-latins+satiricals+poets&hl=it&sa=X&ei=l8eqU8iKFc6g7Abx4oHYAw&ved=0CC8Q6AEwAg#v=onepage&q=anglo-latins%20satiricals%20poets&f=false.
Lascio ora da parte il verso incriminato (il 952 del primo libro in cui si legge rosa e non Roma) e riporto gli altri versi in cui compaiono, questa volta inequivocabilmente, Roma e rosa.
LIBRO I
v. 1034: Regna labascere, retro recedere Roma videtur (Sembra che i regni crollino, che Roma proceda a ritroso).
v. 1038: Roma, prior tua gloria mortua, Rex tibi defit (Roma, la tua gloria di prima è morta, ti manca un re).
v. 177: Tunc rosa sanguine, lilia virgine mente micabunt (Allora brilleranno la rosa per il sangue, i gigli per il carattere vergine).
v. 318: Est rosa sanguine, purpura lumine sobrietatis (Hai la rosa per il sangue, la porpora per la luce della sobrietà).
vv. 454-455: Est hominis via nunc mala, cras pia, nunc rosa, cras fex./Mox rosa fit rubus, ipseque cras lupus haeret ovili (La via dell’uomo ora è cattiva, domani pia, ora una rosa, domani una feccia. Subito la rosa diventa rovo e domani lo stesso lupo si accosterà all’ovile).
v. 736: Carnis amor perit; est rosa, fex erit; ergo spuatur (L’amore della carne perisce ; è una rosa, sarà una feccia; dunque sia sputato).
v. 751-752: O caro lactea, nunc rosa, postea sarcina vilis,/flos tibi corruet et rosa defluet haec iuvenilis (O carne lattea, ora una rosa, poi vile fardello, il fiore ti cadrà e questa rosa della gioventù scorrerà via).
v. 762: Quid, rogo, carnea gloria? Glarea. Quid rosa? Foenum (Cos’è, chiedo, la gloria della carne? Ghiaia. Cos’è la rosa? Erba secca).
v. 823: Mox puer interit ut rosa deperit edita vere (Subito muore il fanciullo come sfiorisce la rosa sbocciata in primavera)
v. 865 : Dum sibi coelitus influit halitus est rosa, floret (Finché dal cielo soffia la vita è una rosa, fiorisce).
v. 883 : Ut rota vertitur, ut rosa cernitur, et quasi claret (Come ruota si volge, come rosa viene vista e quasi risplende).
v. 896 Fex iacet horrida, qui rosa florida culmine stabat (Giace orrida feccia chi stava come una rosa al culmine della fioritura).
LIBRO II
v. 728: Fingit ovem lupus atque rosae rubus assimilatur (Il lupo simula la pecora e il rovo viene assimilato alla rosa).
v. 874: Ut rosa cernitur, ut rota sternitur et sua secum (Come rosa viene vista, come ruota viene prostrato e le sue cose con sé).
v. 915: Atria splendida castraque florida sunt rosa mundi (Splendidi palazzi e sontuosi castelli sono la rosa del mondo).
LIBRO III
vv. 598-605: Est modo mortua Roma superflua; quando resurget?/Roma superfluit, afflua corruit, arida plena;/clamitat et tacet, erigit et iacet, et dat egena./Roma dat omnibus omnia, dantibus omnia Romae,/cum precio, quia iuris ibi via, ius perit omne./Ut rota labitur, ergo vocabitur hinc rota ,/quae solet ubere laude fragrascere sicut aroma./Roma nocens nocet atque viam docet ipsa nocendi (Ora è morto ciò che di Roma restava; quando risorgerà? Roma è eccessiva, scorrendo va in rovina, povera, piena, strepita e tace, si erge e giace e dà povertà. Roma dà a tutto a tutti quelli che a Roma danno tutto, a caro prezzo perché ivi c’è la via del diritto, ogni diritto muore. Come ruota scivola, dunque da qui sarà chiamata ruota essa che suole profumare di ampia lode come di aroma. Roma nuocendo nuoce ed essa stessa insegna la via del nuocere).
v. 624: Roma ruens rota, foeda satis nota cauteriat te (Roma ruota che corre, infame assai nota ti brucerà).
v. 557: Est gravis hic thronus, hic honor est onus, haec rosa spina (Qui il potere è impegnativo, qui l’onore è onere, questa rosa spina).
v. 670: Te rosa sanguine, lilia virgine mente perornant (Fanno risplendere te, o rosa, per il sangue, i gigli per il vergine aspetto).
Tanto Roma che rosa appaiono come simboli se non della caducità delle cose umane almeno del loro incessante cambiamento. Probabilmente proprio la maggiore frequenza di rosa avrà indotto Eco alla sua scelta, anche se, come lui stesso ammette, Roma sarebbe molto più coerente con i versi che precedono.
Vale la pena, anzi sono costretto, a riportarli e tradurli:
Est ubi gloria nunc Babylonia, nunc ubi dirus
Nabuchodonosor et Darii vigor illeque Cyrus?
Nunc ubi Regulus aut ubi Romulus aut ubi Remus?
Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.
(Dove ora Babilonia è gloria, dove il terribile Nabucodonosor e la potenza di Dario e il famoso Ciro? Ora dove Regolo o dove Romolo o dove Remo? Sopravvive l’antica Roma nel nome, conserviamo i nudi nomi).
Nell’edizione critica da me citata e utilizzata, però, i versi non compaiono consecutivamente, ma i primi due sono i 933-934 e i secondi i 951-952. Siccome tutta la composizione è in esametri leonini, cioè ogni coppia di versi è legata da rima finale, mi pare strana la pur parziale omofonia che lega le prime due parole finali con le ultime due sempre finali, fenomeno che mai ricorre in tutta la composizione. Questo dettaglio, insieme con l’altro già detto dei piedi che sono, meno l’ultimo, tutti esametri, dà un’idea dell’abilità dell’autore tenendo conto anche del fatto, tutt’altro che irrilevante, che l’intero componimento comprende ben 2966 versi (1078 il primo, 974 il secondo e 914 il terzo).
Al di là di questo mi chiedo se il rosa dell’edizione critica (che in calce per rosa non registra nessuna variante Roma, il che significa che tutti i manoscritti recano rosa) non sia, però, da leggere rota. Mi ha fatto venire il dubbio la ricorrenza di questa immagine nei seguenti versi:
LIBRO I
v. 877: Donec homo viget, affluit, indiget, ut rota currit (Finchè l’uomo vive, abbonda, ha bisogno, corre come ruota).
v. 981: Ut rota volvitur, indeque pingitur ut rota mundus (Il mondo gira come una ruota e perciò come una ruota è rappresentato).
LIBRO II: il già citato, per rosa, verso 874 Ut rosa cernitur, ut rota sternitur et sua secum (Come una rosa viene visto, come una ruota viene prostrato e le sue cose con sé).
LIBRO III: i già citati, per Roma, vv. 603: Ut rota labitur, ergo vocabitur hinc rota Roma (Come ruota scivola, dunque da qui sarà chiamata ruota) e 624: Roma ruens rota, foeda satis nota cauteriat te (Roma ruota che corre, infame assai nota ti brucerà).
E della simbologia medioevale (e non solo) la ruota della fortuna è un elemento di spicco, forse ancor più della rosa. Poi, si sa, in epoca a noi più vicina diventerà il quiz più famoso della storia della televisione e, ma è solo una battuta che mescola il sacro con il profano (ma anche quest’ultimo, nella fattispecie, è cultura in senso lato), chissà quante copie in più avrebbe venduto il nostro best-seller solo che Eco avesse aspettato poco più di un lustro a pubblicarlo col titolo Il romanzo della ruota!
Per tornare alle cose serie, il verso autentico potrebbe essere: Stāt rŏtă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs. E tutto andrebbe bene metricamente essendo anche la o di rota breve. Da un punto di vista semantico, poi, ci sarebbe una sorta di gioco di parole, anche questo tutt’altro che estraneo alla cultura medioevale, in cui l’immagine traslata della ruota (la vita) si confonderebbe con quella di partenza (l’elemento meccanico), l’una e l’altra soggette col trascorre del tempo a trasformazioni (per la ruota non c’è bisogno di scomodare gli pneumatici). Faccio notare pure che i due versi in cui ricorre rota sono abbastanza vicini al nostro e che il primo controllo delle scritture andrebbe operato, se non è già stato fatto, sui due versi (l’887 del primo libro e l’874 del secondo) in cui rosa e rosa compaiono entrambi e anche sui due (603 e 624 del terzo libro) in cui a comparire entrambi sono Roma e rota.
Se, come spero di aver dimostrato, già la scelta di Eco meriterebbe un approfondimento di natura diplomatica [aggettivo, a scanso di equivoci, riferito al/ai manoscritto/i che conterrebbe/conterrebbero nel famigerato (!) verso la variante rosa; non è proprio il caso di scomodare la politica che non reputo proprio la meglio attrezzata a risolvere questo tipo di problemi, visto che non è in grado, oltretutto, neppure di individuare quelli che dovrebbero essere di sua competenza …], Angelo non me ne vorrà se dico che la sostituzione da lui operata di rosa (o Roma che sia) con vinea non è assolutamente possibile (da un punto di vista metrico, essendo, invece, dal punto di vista semantico, perfettamente coerente con lo sviluppo, ho già detto ineccepibile, del suo lavoro; diversamente sarebbe stato se la sostituzione avesse coinvolto un brano in prosa, anche se alla fine del suo lavoro Angelo cita il verso originale nella lezione riferita da Eco) perché un bisillabo ed un trisillabo non sono intercambiabili. Verrebbe fuori, infatti, questa scansione:
Stāt vĭněă|prīstĭnă|nōmĭně|, nōmĭnă|nūdă tě|nēmŭs
e un piede – ˘˘˘, al pari di –˘, non l’ha mai incontrato nessuno.
Non rimane a questo mio post e a qualche lettore speranzoso come me che attendere, se mai ci sarà, l’eco di Eco …
Ho iscritto mio figlio quest’anno allo Scientifico moderno, quello senza latino, e mi sono licenziato definitivamente da certe faccende. Ti ringrazio per leggere quello che scrivo. Angelo.