di Paolo Vincenti
La notte di San Giovanni, la notte delle streghe. In questa notte, è facile vedere, in cielo, volare le streghe che, a cavallo delle loro scope, vanno a partecipare al loro convegno annuale, il Sabba. Questa è la notte più corta dell’anno ma è anche quella più piena di carica simbolica. Appena superato il solstizio d’estate, infatti, il sole comincia impercettibilmente a declinare all’orizzonte.
Questa è la notte dei prodigi. In questa notte magica, consacrata a San Giovanni, il sole si mette a ballare, scende in mare, quando spunta l’orizzonte, e si lava la faccia, anche perché c’è sempre una nuvoletta pronta ad asciugarlo.
Anche la rugiada ha poteri magici: essa può rendere le donne più desiderabili, può sanare i malati e dona alle erbe poteri miracolosi; infatti, se bagnate dalla rugiada, acquistano proprietà terapeutiche e protettive moltissime specie vegetali, fra cui l’iperico e la lavanda, chiamate, non a caso, “erba” e “spighetta di San Giovanni”. La rugiada però deve essere colta al primo raggio di sole ed ecco che molti trascorrono svegli questa notte, per poter prendere un po’ di quest’acqua magica, nella speranza che possa davvero dar loro beneficio. Anche i tappeti, le coperte ed i capi invernali vengono esposti cosicché, protetti dalla rugiada di questa notte, possano essere riposti fino al prossimo inverno senza che vi si annidino le tarme.
In questa notte, si può anche conoscere il proprio futuro, soprattutto per quanto riguarda l’amore. La pratica divinatoria più diffusa è quella che utilizza il bianco dell’uovo. Prima delle ore 24 del giorno 23, si deve buttare in una caraffa o in un bicchiere il bianco di un uovo ed esporlo alla rugiada. Prima dell’alba, la caraffa deve essere ritirata. Al mattino, dalla forma assunta dall’albume, si possono individuare gli attrezzi da lavoro del futuro marito o le iniziali del suo nome. Sarà vero tutto ciò? Sarà falso? Vero e falso si confondono insieme nel Salento, terra di tradizioni, leggende e magie.
Così Carmelina, in una afosa sera di giugno, ritornava a piedi a casa. Era stata far visita ad una vecchia zia, l’unica parente che avesse ancora in vita, alla quale era molto legata, anche se l’anziana donna non aveva mai voluto lasciare casa propria per andare a vivere insieme alla nipote. Più e più volte, Carmelina aveva pregato la vecchia parente di venire a casa sua, per dividere così insieme gli anni che restavano da vivere ad entrambe e soprattutto quelle lunghe giornate di solitudine e di tristezza: due sentimenti che Carmelina conosceva molto bene da una vita intera. Rimasta orfana giovanissima di entrambi i genitori, da pochi anni era scomparso anche il suo unico fratello, la cui salute era stata sempre cagionevole da quando, poco più che adolescente, aveva contratto una forma patologica di bronchite asmatica poi divenuta cronica. I suoi polmoni avevano retto anche troppo a lungo ma poi, inevitabilmente, era venuto per lui il momento di andare, lasciando quella sorella che tanto amava sola al mondo. Carmelina, cosi come il fratello, non aveva mai voluto sposarsi, forse appagata da quel legame fraterno forte e tenace che sembrava potesse sfidare tutto e tutti. Veramente, in paese non erano mancate delle strane voci, quelle gratuite e maligne che sempre circolano in un paesello di poche anime, secondo le quali in quel menage a due, vi era qualcosa di più di un semplice amore fraterno e che, insomma, fra i due vi fosse del tenero, del perverso ed anche del macabro.. ma queste erano rimaste solo delle voci, ed ora che Cosimo aveva reso l’anima a Dio da due anni, nessuno nemmeno più si ricordava di quelle dicerie.
L’unica parente rimasta in vita, dunque, era questa vecchia zia, che Carmelina curava amorevolmente e alla quale, ad un certo punto, la donna aveva fatto la più che ragionevole proposta di andare a vivere insieme. Avrebbero in questo modo diviso le spese, dato che le due pensioncine da se stesse non bastavano quasi nemmeno ad arrivare a fine mese ma sommate insieme, e dimezzati i costi di vitto e alloggio, avrebbero certamente reso loro possibile una vita un po’ più agiata. Ma si sa, gli anziani spesso si attaccano alle proprie cose in maniera viscerale e quando si è avanti negli anni le abitudini si radicano a tal punto che non basta più di una qualche disgrazia o morte o malattia, per farle cambiare. Dunque a Carmelina toccava fare ogni giorno il percorso da casa sua a quella della zia e ritorno, per prestarle quell’assistenza che si deve ad una persona molto anziana, dal carattere un po’ difficile, anche se generosa e sempre ben disposta verso quella nipote, alla quale i lunghi anni di nubilato avevano fatto guadagnare quel sempre poco simpatico epiteto di “zitellona”. Quella sera, la donna procedeva più lentamente del solito sulla strada del ritorno, quella strada che avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi e che, portando anche alla piazza del paese, un tempo aveva percorso con animo diverso. Era il tempo in cui Carmelina aveva molti meno anni e molte più speranze, il tempo dell’adolescenza, insomma, e della prima giovinezza, che a tutti gonfia il petto di illusioni; il tempo in cui si fanno progetti per l’avvenire, ignari di quel che verrà, come ignara era allora Carmelina, essendo lontana la tragedia che si sarebbe abbattuta di lì a poco sulla sua famiglia, di quella mano minacciosa che pendeva sulla sua testa, come una spada di Damocle, come una nuvola di veleno che incombe sulla vita di chi non sa, come un punto interrogativo, come un fosco presagio, come un campanello d’allarme che non suona o suona sempre troppo tardi, come un fulmine a ciel sereno, come l’equazione che non si risolve, la domanda senza risposta, il mistero senza soluzione.
La donna pensava ai propri sogni, perché anche lei aveva sognato una volta, prima che l’orizzonte di pene e di morte, si dischiudesse sulla sua giovane vita. Pensava a quel tempo in cui era stato bello ballare la pizzica nella piazza del paese, scalza e ebbra di vino e di vita, il cuore gonfio di passione e la testa libera da luttuosi gravami, da neri presagi. Era stato il sogno di un momento, ma quel tempo era stato bello.. poi lo aveva dimenticato, crescendo e invecchiando, fra le contingenze di una vita austera e monotona, come i muri grigi della sua casa che non vedevano da decenni il tocco del pennello. Poi quell’incontro, fatale si direbbe, se non fosse che invece per lei non era stato niente di speciale, solo il piacere di scambiare quattro chiacchiere con una nuova amica e la curiosità di conoscere quelle strane occupazioni nelle quali spesso ella era affaccendata. Quell’amica, Dolores, che aveva conosciuto un giorno in paese, sua quasi coetanea, era una donna magra e sgraziata, che vestiva sempre di nero e dimostrava più anni della sua effettiva età. Era però una persona dolce e disponibile che, con i suoi bei modi di fare, aveva conquistato subito Carmelina affascinandola con le sue conoscenze, che spaziavano dalla storia antica, non solo del paese ma anche dell’Italia e del mondo, alle vite di personaggi famosi, soprattutto filosofi e scienziati, alla magia. Ed erano proprio queste ultime conoscenze che avevano portato la gente del paese a diffidare di lei e ad averne paura, come sempre si ha paura delle cose che non si conoscono, paura del diverso, nostro dissimile, paura dell’ignoto, paura della stessa paura a volte. Dolores aveva fatto degli studi superiori, a differenza di Carmelina che invece si era fermata alla terza media, ed era andata perfino all’Università e questo bastava, nella retriva e un po’ miope mentalità del paese, dove in quegli anni il livello di istruzione era bassissimo e regnava ancora l’analfabetismo, a farne una persona molto al di sopra della media, perché colta, e da trattare quindi con deferenza, se non fosse che la donna aveva indirizzato queste conoscenze e la proprie ricerche ed approfondimenti- in archivi pubblici e anche nelle biblioteca della provincia di Lecce,- in campi assai poco battuti da una donna in quegli anni: la letteratura, la filosofia, la teologia, le scienze mediche, l’occultistica e, fatalmente, la magia: magia bianca, sosteneva Dolores; magia nera, le gridava dietro il paese. Carmelina aveva sempre ascoltato con molta attenzione quelle strane formule che la donna le leggeva e soprattutto le storie e i vari aneddoti che Dolores le raccontava. Ma al di là del mero piacere, del tutto innocente, di trascorrere qualche ora in compagnia dell’amica, non c’era mai stato un effettivo interessamento di Carmelina alla materia della magia e a quelle storie di santoni e diavolesse su cui Dolores si intratteneva con gusto orrido. Carmelina era insomma quel tipo di donna non facilmente suggestionabile e nemmeno intellettualmente predisposta a farsi rapire da quel vortice di macabre sensazioni generate nella sua mente dalla notevole capacità affabulatoria di Dolores. Una donna pratica, si direbbe, un poco indurita dai disagi della vita, certo poco attratta da tutto ciò che non si possa toccare con mano, da tutto ciò che non sia quantificabile e verificabile secondo i normali parametri e quelle sensazioni duravano giusto lo spazio di un racconto, della sua permanenza a casa di Dolores, per poi scomparire senza lasciar traccia dalla sua mente e dalla sua vita, appena lasciato la casa della donna. Mai che quei resoconti di processi alle streghe, di punizioni e orribili supplizi, la avessero condizionata nel regolare svolgersi della vita quotidiana o avessero disturbato i suoi sogni. Era come se Carmelina chiudesse tutte quelle strane storie in un cassetto insieme con la loro narratrice,e lo riaprisse quando nuovamente andava a farle visita. Negli ultimi tempi, però, la sua frequentazione con Dolores si era molto diradata, un po’ perché le cure della vecchia zia la impegnavano abbastanza, un pò per una certa stanchezza che con l’arrivo dei primi caldi si faceva sentire portandole una maggiore pigrizia, un pò, forse anche, perché si era sentita molto infastidita da quelle voci sul suo conto, che riferivano di Dolores, come di una strega e di lei, come della sua fedele assistente, o peggio erede.
A R., era la festa di San Giovanni. Da qualche giorno si respirava in paese un’aria di festa ma anche una pesante cappa, di sospetto e di risentimento sembrava avvolgere il paese stesso. Carmelina non riusciva a spiegarsi bene il motivo, troppo poco si intratteneva con la gente del posto o con le comari la mattina a spettegolare, e le sue soste dal fruttivendolo o in farmacia, al tabacchino o alla posta per ritirare la pensione, non le consentivano di essere molto informata sulla vita sociale. Forse il suo era una carattere un pò schivo, forse non era mai riuscita ad uscire da quel guscio nel quale viveva, ad entrare in empatia con la collettività che abitava quel piccolo paese dimenticato da Dio e sconosciuto alle carte geografiche, nel profondo Salento. A R. c’era una cripta che era legata al culto di San Giovanni. Si trattava di una cripta bizantina, opera degli infaticabili monaci basiliani, che, in illo tempore, avevano raggiunto le nostre contrade per scappare alle persecuzioni che avvenivano nella loro patria a causa dell’Imperatore Leone III Isaurico. Retaggio della loro presenza nel Salento, queste cripte divennero spesso delle chiesette e scomparve il rito greco- bizantino introdotto dai monaci orientali. Questo accadde anche alla cripta di R., divenuta una cappella che, con l’avvento del rito latino, fu dedicata a San Giovanni. Questa cripta si trovava su una collinetta poco distante dal centro del paese e lì si festeggiava San Giovanni. Lo spiazzo circostante la chiesetta, per la festa del 24 giugno, si animava di suoni, balli e colori, poiché, dopo la fine della funzione religiosa e la distribuzione dei prodotti della campagna, tutti rimanevano a ballare e cantare sull’aia, nel segno della tradizione, come usava nei tempi antichi.
Molte volte, negli anni precedenti, alcune ragazze, il giorno della vigilia della festa, si erano recate da Dolores per chiederle preziosi consigli sulle proprie vite. E la donna non aveva fatto mancare loro delle indicazioni su come dovessero comportarsi e su strane pratiche che dovevano mettere in atto, come degli incantesimi, con la manipolazione di certe erbe, per cercare o recuperare l’amore perduto o per migliorare la propria esistenza. Questo aveva fatto guadagnare a Dolores la fama di santona, maga, “strega”. E ciò non deponeva certo a suo favore, anzi la presenza in quel piccolo paese di un “fenomeno da baraccone” come lei, si faceva sempre più sgradita, molesta. Infine Dolores venne considerata una creatura delle tenebre, maledetta, senza mezzi termini.
Fatto sta che poco prima di rientrare a casa, Carmelina sentì degli strepiti in lontananza e vide un assembramento di gente proprio vicino alla casa di Dolores. Sembrava che tutto il paese si fosse dato appuntamento in quel posto e ora, fra le alte grida delle donne e gli schiamazzi dei bambini, qualcuno iniziava a picchiare violentemente contro la porta di casa di Dolores e contro i muri esterni con qualche arnese metallico e con pietre e sassi. Poi comparve un tizzone acceso e una catasta di lagna; Carmelina riuscì a scorgere per un attimo da una finestra lo sguardo terrorizzato di Dolores ma non riusciva a far nulla; era come impietrita dalla paura, raggelata, paralizzata; anzi, per un momento, dallo sguardo inferocito della folla che si accorse di lei, ebbe paura che volessero prenderla e farle fare la stessa fine di Dolores. Era buio inoltrato, si era ormai fatto tardi, il fuoco divampava intorno alla casa della presunta strega e ad un certo punto aggredì anche i muri della casa e si inoltrò all’interno. In pochi minuti, tutta la casa divenne un’enorme pira e si udirono distintamente le grida selvagge di Dolores, imprigionata dentro quella gabbia di fuoco. I suoi lamenti si alzarono al cielo, il cielo di quella notte di San Giovanni in cui l’odio e il fanatismo della gente avevano avuto la meglio sullo studio e sulla conoscenza, sulla apertura mentale e sulla tolleranza, e avevano portato a quell’orrenda devastazione. Avevano scelto simbolicamente proprio quella data per mettere in atto il loro spaventoso progetto di “epurazione”, la loro implacabile, per quanto assurda, vendetta, come per l’espulsione di un corpo estraneo, l’uccisione del capro espiatorio. Con il fuoco, bruciava anche tutto il risentimento di un popolo stanco e abbattuto dalla fame, dagli stenti e dalle miserie di una vita difficile, oppresso dal signoraggio tirannico e dalla paura della diversità, vittima di una sottocultura che dà retta alla superstizione, che altro non è che la malvagità inoculata piano piano dal diavolo nelle vene di un popolo di cui vuole l’anima, fino a farla scoppiare in uno spasmo di follia, ad esplodere selvaggiamente in uno scoppio di bestiale crudeltà. Così come era successo a Dolores, in quell’anno lontano. A R. si parlò a lungo di quella brutta storia e da quella sera nessuno vide più Carmelina, nemmeno la sua vecchia zia la quale, non potendo uscire da casa per sopraggiunti problemi di deambulazione e non avendo quindi più notizie della nipote, morì dopo poco, forse di crepacuore. Carmelina si barricò in casa, tagliò i ponti con il passato, con quel paese dal quale era stata sempre respinta – ora lo aveva capito- come una indemoniata, un’appestata, come un incubo, una malattia, e si lasciò morire senza chiedere aiuto a nessuno. Doveva essere passata una settimana circa, quando la trovarono, forzando la porta d’ingresso, morta di consunzione.