di Corinna Zacheo Campi
Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.
Te la trovavi dappertutto.
Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento.
Infatti, che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?
Bisognava far pulizia, e, una volta, ricordo mi misi a scagliare già ripetute manciate di fuliggine.
Il bello o il brutto fu che in quel momento sfilava una squadra di giovani avanguardiste….(1942?) tra le quali c’era mia madre, che, come insegnante, era tenuta a indossare la divisa e a partecipare alle parate del “sabato fascista”.
Successe un po’ di finimondo, perché qualcuna s’accecò e in casa piovvero proteste del gerarca, del podestà, della guardia municipale: che mi tenessero a bada, che non mi permettessi più di compiere simili irriverenze.
Certo è che dovetti prendermi un bello spavento; forse per questo il ricordo è rimasto fisso nella mia mente, di cui mi vanto, anche perché mi fa testimone di tanta storia.
Erano i tempi in cui frequentavo, forse, ancora l’asilo o le prime classi delle elementari, e, di questa piccola industria, che mi trovavo sotto casa, la “macchina” per antonomasia o lo ”stabilimento”come lo chiamavano i miei compaesani, mi godevo il movimento, il via vai dei traini, che arrivavano dai frantoi dei paesi vicini, e che sostavano sotto le finestre di casa mia.
Mi divertivo ad ascoltare i discorsi dei carrettieri ed aspettavo con ansia mista a paura, che i cavalli superassero l’ingresso, dal selciato scivoloso, in salita.
Era un momento difficile e occorreva tutta la perizia del carrettiere, che, a suon di frustate, “aiutava” il cavallo a prendere la rincorsa e a bloccarsi di colpo, subito dopo sulla stadera oscillante. I cavalli sbavavano, annaspavano, e non era raro il caso che qualcuno….cadesse. Allora era un’impresa farlo risollevare con tutto il carico e…. lo spettacolo si faceva interessante.
Intanto sullo spiazzo adiacente, il cumulo di sansa cresceva sempre più e diveniva montagna. Sopra, per tenerla ben pressata, vi facevano passeggiare una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, che non franasse.
Io controllavo il tutto dall’alto della terrazza; infatti lì vi passavo la maggior parte dei pomeriggi; bastava che non piovesse: studiare in terrazza mi pesava di meno, tanto il diversivo era assicurato. Infatti c’era un continuo andirivieni di gente.
Nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto.
Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mò di manico… e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia…. che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare.
I più raccomandati, i vicini, perché non reclamassero – c’era già sentore di protesta – avevano un trattamento particolare: ricevevano brace scelta senza fumo e, lì, dove si poteva ricorrere al sotterfugio, riuscivano a farla in barba, magari a chi attendeva da ore e non voleva sentir ragione di cedere il suo turno a chicchessia.
Noi eravamo tra quelli fortunati…, non venivamo respinti in malo modo, ma, ammiccanti, i vari incaricati di aprire e chiudere la porta, ci concedevano favori speciali; una vera fortuna, a detta dell’invidia di certe amiche. Chi invece non aveva voglia di scherzare era mia madre, che, già avanti negli anni, avvertiva più di noi i malefici effetti dell’ossido di carbonio e di altri gas dilaganti nell’aria che, ad aprir porte e finestre si finiva solo ad aggravare la situazione.
< Mi avvelenano, – brontolava – non posso respirare, altro che fuoco e fortuna!>
E doveva uscire di casa e andare da una sua collega che aveva la buona ventura di abitare più lontano.
Noi non le badavamo gran che e, intanto, su quel ben di Dio rovente ci mettevamo a cuocere di tutto dal pane abbrustolito alla… “pignata”.
Io, nelle lunghe serate d’inverno, temperavo la fatica dello studio col caldo tepore, a pochi centimetri dalla brace.
Di solito smettevo alle 23; avveniva a quell’ora il cambio del turno notturno degli operai .
Il loro vociare, sotto casa, spesso, però, era una sveglia da un comodo sonno sui libri.
Torpore? Forza d’inerzia? Così mi sentivo rimproverare dai miei!
Mi resi conto più tardi, quando cominciai a capire, che ogni sera avevo rischiato un avvelenamento da ossido di carbonio, e… intanto sentivo mia madre lamentarsi sempre con maggiore insistenza.
Nelle belle giornate di tramontana, quando il vento del Nord, che dava il cambio allo Scirocco che ci aveva inzuppato per settimane di umido e di pioggia, doveva portare aria pulita, fresca, frizzante, invito imperante ad aprire bocca e narici e riempire i polmoni d’aria pura… bisognava chiudere porte e finestre e uscir di casa, andare lontano, per l’asfissia.
Le lenzuola, nei giorni di scirocco, non si asciugavano e, nei giorni di tramontana si riempivano di fuliggine.
Le donne di casa erano disperate, tutti, del vicinato presero a lamentarsi, ad imprecare.
Lo stabilimento, si diceva con preoccupazione, era stato ampliato e nuove tecniche e nuovi solventi chimici ne acceleravano i processi di lavorazione della sansa e d’estrazione dell’olio combustibile; giacevano grossi depositi di materiale infiammabile.
Correva voce che quello stabilimento, posto lì, al centro del paese, era un serio pericolo per tutti.
Già aveva fatto le sue vittime, al suo nascere. Lo stesso Ingegnere F. Rizzelli, primo proprietario, mi raccontava mia madre, era morto, sepolto da brace rovente, per via dello sportello di una fornace, che si era aperto all’improvviso . La paura cresceva. Qualcuno prese l’iniziativa di un ricorso, non so a chi.
Per tanto tempo non se ne fece niente …. finchè… un giorno … un boato: era scoppiato qualcosa. Un operaio ne uscì quasi torcia umana e…. s’andò a spegnere sotto la fontana vicina. Fu soccorso, portato in ospedale e…. dopo mesi di degenza, vivo per miracolo.
Da quel giorno, però, la preoccupazione per il candore del nostro bucato e per i mal di testa, per l’aria sempre satura di veleni, passò in second’ordine.
La paura che tutto potesse esplodere si tramutava in ansia quotidiana, d’ogni ora, d’ogni minuto. Il minimo rumore sospetto ci faceva trasalire.
Io, intanto, avevo cambiato casa, ma solo per peggiorare la situazione: mi trovavo in una strada adiacente , larga appena cinque metri e su cui incombeva il muro cieco dello stabilimento alto due piani: quasi addossati al muro le fornaci e i macchinari “ronfanti”. A quel ritmo sordo ci eravamo pur abituati; sapevamo anche che, a certi intervalli, avveniva una specie di decompressione, come nelle vecchie locomotive dei treni all’ingresso della stazione, per chi ne abbia ricordo; era un boato sordo, lungo e , da certi sfiatatoi, finestri grigliati a mezzo metro dal terreno, si spargeva nella strada una nuvola densa di vapore caldo. Ma guai, se questi ritmi subivano la benché minima alterazione.
La paura diveniva incontrollabile: il cuore saltava in gola… si era come nell’ attesa dell’inevitabile.
E… in piena notte, un boato, una fiammata: qualche voce concitata per strada e…. la sentenza : era meglio allontanarsi, l’esplosione poteva propagarsi a tutti i depositi; sarebbe stata la fine…. Meglio non immaginare. Bisognava fare in fretta. Feci scendere dal letto i miei tre figli mezzi addormentati; misi addosso qualche scialle e…. uno in braccio, gli altri per mano li trascinai sonnolenti e piagnucolanti (tutti e tre insieme non dovevano superare i 10 anni) in casa di mia madre, che… distava qualche metro più in là.
Da quel giorno lo Stabilimento non funzionò più. Dopo qualche anno, quando ormai mi ero trasferita altrove, la “macchina” fu demolita a poco a poco: ora sfuggono al mio ricordo le tappe di questa demolizione che, certamente sarà lenta, lunga e…. anche triste.
In fondo tutto ciò che gli stava intorno ha fatto parte della mia infanzia e della mia giovinezza. Forse, anche pèr questo, la memoria ha rimosso ogni traccia. Adesso, passando per andare a scuola, – percorro sempre la stessa strada, – non vedo più l’alta ciminiera, né i muri ciechi e… mi sembra un sogno guardare l’amena villetta che ha preso il suo posto.
La strada si è raddoppiata, anzi triplicata e fa da comodo parcheggio.
L’aria è pura …. I cieli hanno rotto il maleficio e, se pur non largiscono latte e miele, almeno ci concedono di godere, senza ansie e paure, del vero colore del volgere delle stagioni.
Passando accanto alla villetta mi piace indugiare tra le aiuole, almeno col pensiero, visto che la frenesia moderna non ci permette soste, incredula quasi di una realtà che , in altri tempi non avrei osato sognare.
Pubblicato da Nuovo Spazio il 22 aprile 1995.