di Armando Polito
Carte 2 e 3. A partire da queste ne presenterò due per volta. Già si manifesta la sequenza , che poi continuerà regolarmente (con la sola eccezione dei motti entrambi latini delle carte 20 e 21), di un motto in italiano nella carta pari e in latino in quella dispari.
Cominciamo a capire chi è il responsabile della caduta del cipresso: il vento. Cominciamo a capire pure che i motti, sono, com’era quasi doveroso che fosse, dotte citazioni e la parola finale in ogni cartiglio è l’abbreviazione del relativo autore (qui PETRA di PETRARCA e VIR di VIRGILIO).
A le percosse del suo duro orgoglio (Petrarca, Canzoniere, CCXXXV, 8); da notare, però, la sostituzione con a (retto da un sottinteso incapace di resistere) all’originale da (retto da un precedente guarda).
Nella seconda insegna mi sarei aspettato una sequenza iconica più coerente. L’albero, prima sradicato, è tornato in sesto ma il vento questa volta lo ha troncato di netto. Summaque Peliacus sidera tangat apex (La cima del monte Pelio tocchi le stelle), Ovidio, Fasti I, 308 . VIR, come ho detto, è abbreviazione di VIRGILIO e, perciò, il nostro fraticello è incorso in un errore di attribuzione. Del verso originale, poi, è stato utilizzato come motto il secondo emistichio perché l’immagine del monte col suo nome presente nel primo non poteva essere adattata all’albero.
Carte 3 e 4. Nella prima insegna il vento, quasi motosega ante litteram, porta avanti la sua opera di distruzione. È stato insino a qui caggion ch’io viva (Petrarca, Canzoniere, IV, 8). P.
Nella seconda c’è da rilevare la stessa incongruenza iconica prima notata (l’albero presenta prima tre pezzi, poi due). A questo punto, siccome è evidente che questa coerenza non era nelle intenzioni dell’autore, non ne parlerò più. Impulerit. Tantaene animis coelestibus irae? (Abbia spinto. Forse gli animi dei celesti nutrono tanta ira?), Virgilio, Eneide, I, 11. Da notare la particella interrogativa enclitica –ne staccata da tantae e addirittura quasi incollata in testa alla parola successiva; e poi l’omissione del punto interrogativo, indispensabile, qui come nell’originale, poiché si tratta di una interrogativa diretta. Intuitiva, poi, la soppressione dell’Impulerit del verso originale.
Carte 5 e 6.
Onde il principio di mia morte nacque (Petrarca, Canzoniere, XXXVII, 14).
Nella seconda insegna il vento è scomparso e la vita animale è la prima a fare la conta dei danni. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros (Ma se tanto grande è il desiderio di conoscere le nostre vicissitudini), Virgilio, Eneide, II, 10.
Carte 7 e 8.
Il vento è tornato a soffiare … Di speranze m’empieste e di desire (Petrarca, Canzoniere, CCXXIX, 12) … poi riscompare e tornano gli uccelli. Tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas (La nostra meta è il Lazio, dove il destino sedi tranquille), Virgilio, Eneide, I, 205. Il primo emistichio del verso originale risulta soppresso per le stesse intuitive ragioni già addotte.
Carte 9 e 10.
Finchè mia dura sorte invidia n’hebbe (Petrarca, Canzoniere, CCCXXXI, 38).
Causa mali tanti, oculos deiecta decoros (Causa di tanto male, tenendo bassi i begli occhi), Virgilio, Eneide, XI, 480. Del verso originale è stato utilizzato come motto solo il primo emistichio (il contenuto del secondo non poteva trovare adattamenti di significato nemmeno nella più spinta delle fantasie).
Dalle carte fin qui esaminate è venuta fuori una costante: il verso italiano è citato integralmente, quello latino parzialmente, perché quest’ultimo con la sua maggiore sinteticità contiene situazioni ed elementi che mal si adattano, quando non sono addirittura estranei, all’argomento del nostro scritto.
(CONTINUA)