di Armando Polito
Chiedo scusa al lettore se ogni tanto mi concedo qualche divagazione uscendo fuori dall’ambito della cultura specificamente salentina, ma, se è giunto a leggere queste righe, se la prenda con la bontà della redazione nei miei confronti …
Anche questa volta il primo stimolo mi è stato dato da un’immagine, quella di testa, recentemente riciclata in facebook con veste grafica diversa e senza, ti pareva!, citare il link da cui credo sia partita. Lasciamo la nonna in bilico tra la fame del lupo e la premura di Cappuccetto rosso tesa a non turbare la sua tranquillità non vedendola e consideriamo la frase che segue, opportunamente messa in campo da Alfredo Romano (e questo è stato il secondo, decisivo stimolo) a commento di una recente condivisione (si dice così, o, di facebook e non solo di quello, non ho capito niente?).
Ibis redibis non morieris in bello
Per quanto riguarda l’origine della frase i testi a stampa e la rete parlano di una profezia, ora della Sibilla Cumana, ora della Pizia, che, come la sua collega campana, esercitava in nome di Apollo a Delfi. Intanto va detto che, siccome la profezia è in latino, la paternità andrebbe riconosciuta alla profetessa nostrana (in basso l’ingresso, l’interno del suo antro e una trasfigurazione artistica che esibisce fattezze un po’ mascoline e una carnagione quasi africana, che, probabilmente, allude all’ambiente oscuro in cui la profetessa esercitava).
Ma come ci è giunto questo testo? Lasciando perdere la rete che per simili questioni è quanto mai poco attendibile, in pubblicazioni qualificate, almeno sulla carta1, si legge che esso è da attribuire ad Alberico delle Tre Fontane (può darsi pure che l’acqua fosse assolutamente dolce, ma sicuramente le bollette che gli arrivavano saranno state salatissime, un vero sal…asso2), un monaco cistercense vissuto nel XIII secolo, autore di un Chronicon, opera pubblicata per la prima volta da G. G. Leibniz nel secondo tomo di Accessionum Historicarum per i tipi di Nicola Förster, Hannover, 1678 e poi a cura di G. G. Pertz in Monumenta Germaniae Historica, t. XXIII, Hahn, Hannover, 1874.
Ho letto tutto il testo del Chronicon riportato nelle due pubblicazioni (ho consultato la prima, introvabile, nella edizione del 1698 uscita ad Hannover, sempre per i tipi di Nicola Förster). Della profezia non c’è traccia.
Debbo pensare che essa sia contenuta in qualche glossa di uno dei tanti manoscritti? Allora, perché non dirlo?
Archiviato senza successo il problema della tradizione del testo, che rimane sibillina …, passiamo alla causa preannunciata nel titolo.
Dappertutto, pure in pubblicazioni anche queste qualificate che spaziano dalla filologia alla filosofia, dalla psicologia alla religione, si legge che l’interpretazione cambia a seconda della posizione della seconda virgola. Se, infatti, essa è collocata, come va fatto e come fra poco dimostrerò, dopo redibis, la traduzione è: andrai, ritornerai, non morrai in guerra; se, al contrario, la seconda virgola è collocata dopo non, la traduzione sarebbe: andrai, non ritornerai, morrai in guerra.
Ho detto sarebbe perché questa seconda resa del testo e la conseguente traduzione sono fasulle per due motivi:
il primo è di ordine grammaticale perché neppure nei più scalcinati autori latini è prevista l’anastrofe dell’avverbio non che risulta, invece, sempre anteposto alla voce cui si riferisce (morieris) e l’anastrofe non è presente neppure nel più scalcinato e sgrammaticato graffito pompeiano;
il secondo è di ordine metrico, essendo questa la scansione del verso in questione che è un senario giambico e che, questa volta, riporto volutamente senza punteggiatura:
La doppia sbarra in rosso costituisce la cesura, cioè la pausa che va rispettata nella lettura; in pratica essa corrisponde alla nostra virgola.
Altro non aggiungo se non porre la domanda: dato per scontato che un rude soldato non potesse essere a conoscenza di cotali finezze, erano Apollo o la Sibilla ad ignorare il latino (sarebbe stato un fatto imperdonabile per un dio, gravissimo per la sua intermediaria terrena … ), oppure il percettore o l’interprete del messaggio (qualche inserviente dell’oracolo)? E, sempre data per scontata almeno per Apollo, se di ignoranza si trattava, la buona fede, è legittimo sospettare per gli altri protagonisti umani, se conoscevano il latino, la mala fede tesa ad alimentare quel clima di ambiguità e di mistero che avrebbe poi trovato la sua etichetta nell’aggettivo sibillino e che rappresenta quel sostrato sostanzialmente di paura, non tanto per il presente quanto per il futuro, che è alla base di tutte le religioni e, in genere, di ogni potere?
Dopo millenni non siamo messi meglio: per restare alla sfera laica, la paura (perfino quella che nella sua forma più immediata e materiale coinvolge la pancia nelle sue esigenze fisiologiche e non metaforiche, le quali ultime continuano ad essere riservate alle varie caste …) ci assale più volte nel corso della giornata e la Sibilla (leggi capo del governo) di turno e i suoi inservienti (leggi tv e giornali di stato) continuano imperterriti, anche senza essere stati consultati, a lanciare profezie, fidando (mi auguro che questa loro fiducia possa essere al più presto la causa stessa della loro fine) nella dabbenaggine e nell’ignoranza dei sudditi onesti.
Di questi, pochi conosceranno il latino, gran parte di loro non avrà neppure una passabile conoscenza dell’italiano, ma ormai gli spasmi dello stomaco vuoto in parecchi di loro sono tali che sforzarsi a capire le profezie (leggi lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, fine del rigore, lavoro e sviluppo) significherebbe sprecare il poco tempo rimasto, sia pure solo per sopravvivere.
Non so se il reato commesso dalla Sibilla o da chi per lei sia andato in prescrizione e per questo assumerò, comunque, presso gli organi competenti le dovute informazioni perché, in questa fattispecie, le cose potrebbero stare diversamente …; nel caso in cui non dovesse risultare prescritto, mi dichiaro fin da ora disponibile a difendere in giudizio i legittimi interessi degli eredi con la richiesta di un congruo risarcimento per la tragedia … non annunciata del loro congiunto (nel caso di sopravvivenza con connessi danni di qualsiasi entità nulla avrei potuto fare in virtù di quel non morieris=non morrai …); tale risarcimento, poi, assumerà connotati faraonici perché verrà chiesta la giusta e dovuta rivalutazione.
Sarà demolito senza pietà ogni tentativo di difendere la parte convenuta accampando ragionamenti del tipo ma se il soldato, sapendo il destino che l’attendeva, non fosse partito per la guerra, avrebbe sì salvato la vita ma commesso il reato di diserzione. Nella fattispecie (poi la smetto perché non posso scoprire tutte le mie carte prima ancora di cominciare a giocare …) sarebbe facile ribattere che la morte ha estinto il reato per il quale la collettività non può chiedere nessun risarcimento, ma che lo stesso non vale per gli eredi che hanno subito il danno, sempre prescrizione permettendo …
Avviso per i furbetti: nel caso in cui dovesse spuntare fuori come un fungo più di un erede (non è ammessa, comunque, l’azione collettiva o, come dicono i benparlanti, la class-action …), assumerò le difese di colui che offrirà di più come compenso per la mia prestazione (è la prima volta al mondo che questo tipo di causa viene intentato … siate comprensivi!). Per quanto riguarda, infine, il certificato di morte del soldato, il problema non si pone: chi si aggiudicherà la mia difesa lo avrà con un piccolo, ma rapportato sempre all’entità della causa, supplemento che sarà versato anticipatamente, insieme con l’emolumento principale, su un conto fiscalmente paradisiaco nel momento in cui si aggiudicherà il privilegio dei miei servigi.
Il mio studio illegale si prenderà altresì cura di quanti, ormai come me avanti negli anni, intendano chiedere il risarcimento del danno per il trauma subito in giovane età, quando fin dalla scuola media insegnanti saputelli li hanno sottoposti sadicamente alla tortura della fasullamente duplice, come ho dimostrato, interpretazione della profezia.
Non posso fare niente, invece, per gli eventuali eredi di Provenzano Salvani, protagonista, certamente più acculturato del nostro soldato, di un’avventura simile, della quale ci dà notizia Giovanni Villani (XIII-XIV secolo) nella sua Cronaca (cito da Cronache di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, Sezione letterario artistica del Lloyd austriaco, Trieste, 1857, v. I, pag. 126): Il conte Guido Novello si fuggì, e messere Provenzano Salvani signore e guidatore dell’oste de’ Sanesi fu preso; e tagliatogli il capoo e per tutto il campo portato fitto in su una lancia. E bene s’adempiè la profezia e revelazione che gli avea fatta il diavolo per via d’incantesimo, ma non la intese; che avendolo fatto costrignere per sapere come capiterebbe in quella oste, mendacemente rispuose, e disse: anderei e combatterai, vincerai no, morrai alla battaglia, e la tua testa fia la più alta del campo; e egli credendo avere la vittoria per quelle parole, e credendo rimanere signore sopra tutti, non fece il punto alla fallacia, ove disse: vincerai no, morrai ecc. E però è grande follia a credere a sì fatto consiglio come quello del diavolo.
Una cosa è mettersi contro la Sibilla, un’altra contro il diavolo, cioè contro me stesso, se è vero quello che di me dice mia moglie: sei un diavolo! Non so se l’espressione vada interpretata come un complimento o come un rimprovero e, tutto sommato, mi conviene continuare a non saperlo o, meglio, a fingere di non saperlo …
______
1 Secondo la tradizione l’ambiguo motto sibillino sarebbe stato riferito, o inventato, da un frate Alberico, cronista del sec. XIII (in Giornale italiano di Filologia, Armanni, Napoli, 1956, vv. 9-10, p. 30).
Espressione usata da Alberico delle Tre Fontane Chronicon per indicare l’ambiguità degli oracoli (in F. Del Giudice, Il latino in tribunale: brocardi e termini latini in uso nella prassi forense, Simone, Napoli, 1999, p. 109).
La phrase est reprise dans le Chronicon di Alberico delle Tre Fontane (XIII siècle, comme exemple de l’ambiguité possible des oracles (in Revue française de psychanalyse, Presses Universitaires de France, 2000, v. 64, p. 1263).
2 Tre Fontane era il nome del convento sito nei pressi di Chalons-sur-Marne.
3 Da notare: in morieris –ie– è considerato dittongo per sinizesi; in bello la –e– è dovrebbe essere lunga perché seguita da due consonanti. Tuttavia, quando la sequenza di queste è muta+liquida, la vocale è ancipite, cioè, a seconda delle esigenze metriche può essere considerata lunga o breve; qui la prima –l– è stata assimilata ad una muta, per cui la –e– è diventata ancipite e dunque suscettibile di essere considerata breve.
Sulla buona strada sembrava essersi messo Raffaele Bruno in Poesia e filosofia, Angeli, Milano, 2000, dove a p. 11 leggo: Nell’oracolo della Pizia ne andava della vita, a seconda della cesura metrica; difatti altro, nella trascrizione latina, il significato ‘sintattico’ di: “Ibis et redibis / non morieris in bello”; altro il significato metrico, che comporta sospensione, contraddizione, attesa, dubbio, tensione, azzardo di: “Ibis et redibis non / morieris in bello”. Dopo la pertinente osservazione del significato ‘sintattico’ imperniata sull’appartenenza di non a morieris il Bruno scivola rovinosamente sul significato metrico con una confusione pazzesca tra due concetti elementari della metrica: la cesura e la fine del piede, dettagli che non coincidono mai. E poi, pur con l’aggiunta di un et tra ibis e redibis, sfido chiunque a scandire questo verso, il cui nome (senario giambico, esametro o vattelappesca che sia …) il Bruno si guarda bene dal fare.