di Armando Polito
La nostra vita è fatta anche di stranezze e in fondo è un bene, altrimenti sarebbe una noia … mortale. A questa caratteristica non poteva sottrarsi il nostro linguaggio che, forse con presunzione tutta umana, è considerato la linea di demarcazione tra noi e le cosiddette bestie.
Perciò stranezze, reali o presunte, presenta pure ogni dialetto, corroborando, in chi lo considera superficialmente, l’antico e mai domo pregiudizio della sua inferiorità rispetto alla lingua nazionale, come se non rispettare una regola o una consuetudine fosse a priori indice di decadimento di valore.
È successo così che forme considerate auliche, letterarie e per ciò stesso nobili comparissero ogni tanto inconsapevolmente nell’eloquio dei nostri nonni e dei nostri genitori ed è già un miracolo se di questo rimane il ricordo nei figli, come me, ahimè, ormai avanti negli anni, un ricordo già spento nei nipoti che, senza riuscire ad articolare un discorso di senso compiuto in corretto italiano, raggiungono i loro più felici esiti espressivi con un’accozzaglia di termini italiani sì, ma impropri e intervallati in modo sempre più asfissianti da locuzioni straniere, prevalentemente inglesi, sintomo di un’idiota perdita di identità, nell’illusione di acquistarne una nuova e, idiozia delle idiozie, più prestigiosa.
Eccomi così a parlare di mintuare usato come sinonimo di nominare qualcuno, ricordarne il nome. La voce ha il suo esatto corrispondente nell’italiano mentovare, di uso letterario, dal francese antico (oggi si usa ancora, ma regionalmente, il composto ramentevoir) mentevoir, composto a sua volta dal latino mente habere=possedere grazie alla mente (e non avere in mente che diluisce fin quasi ad annullarla la pregnanza grammaticale e semantica della locuzione originale).
Sicuramente mintuare oggi non fa parte del residuo minimo lessico dialettale, ampiamente sopraffatto da quello gergale, del giovane salentino e, forse anche per questo egli, se per sua disgrazia dovesse incontrare in una delle sue sporadiche letture, un mentovare, non potrà neppure sfruttare quel poco di intuito che gli è rimasto (anche l’intuito se non allenato muore …) e chissà che significato gli attribuirà, senza sentire minimamente il bisogno, pur avendo in tasca strumenti tecnologici che gli consentirebbero di farlo in tempo reale, di operare una rapida ricerca.
Ciao caro Armando…è proprio così, tutto un susseguirsi di strafalcioni per essere alla moda e quindi infarcire i dialoghi, che poi chiamarli dialoghi mi pare troppo magniloquente, di angloamericanismi da strapazzo e gettare nell’immondizia tutte le nostre belle allocuzioni che, culturalmente avevano origini linguistiche molto ricche. Resto al vostro “mintuare” e vengo al nostro piemontese “ment” dove troviamo un “avèj a ment” che è “ricordare” o un “dà nen da ment ai seugn” “non inseguire chimere” che secondo me sono di una bellezza incomparabile. Non voglio dimenticare che anche a scuola, la “scòla mignin” come si chiamava la Scuola Elementare ci davano, se facevamo bene il lavoro “la mension”, “la menzione”, che per noi aveva un valore grandissimo. Continua questo splendido lavoro di recupero. Un caro abbraccio.
Il tuo caro amico Sergio