di Francesco Greco
“Fraternité” vò cercando, ma anche égalité e liberté
Sosteneva Pertini che l’uguaglianza senza la libertà non è una conquista auspicabile, e comunque un uomo del suo spessore politico e culturale ne sarebbe rimasto indifferente. Ma come avrebbe reagito e cosa avrebbe detto se a essere messe in discussione fossero allo stesso tempo le idee di libertà, uguaglianza e fraternità? Concetti antichissimi, imposti da mille rivoluzioni e oggi svuotati semanticamente nel contesto di una deriva culturale e politica, ma anche etica, dell’Occidente? Ancor più grave perché non legittimata e quindi non contrastata, che sparge barbarie negli interstizi più nascosti della società civile?
La globalizzazione ispirata dal liberismo della foresta, da ferriere, ha inaridito le conquiste individuali e collettive dei popoli attraverso le rivoluzioni, da Spartaco a quella francese e poi russa, sino al suggello sottinteso della nostra Resistenza. Valori che erano il collante delle moderne società sono stati relativizzati. Il potere è nelle mani di pochi, di oligarchie e satrapie d’ogni sorta, in primis quelle bancarie. La comunicazione poi, concentrata nelle mani di pochi, ha svuotato l’etimo della “liberté”, riducendoci a cloni a cui è servita la stessa sbobba fatta di menzogne e verità addomesticate: sociologia da bar sport. La democrazia è così svuotata di senso e i cittadini ectoplasmi privi di potere reale vittime di un darwinismo sociale in un canovaccio atomizzato, “l’età del vuoto segnata del crepuscolo del dovere”, in cui prevale un soggettivismo arido che fa il gioco del nichilismo.
Collegate ontologicamente fra loro – non per caso gridate dai parigini sulle barricate – anche il termine “fraternité” (“termine in disuso nel lessico pubblico contemporaneo”) ha subìto un processo relativizzante, almeno nell’accezione laica, poiché il suo significato “giudaico-cristiano”, al contrario, non ha ceduto l’intimità del suo etimo alla secolarizzazione dominante (“…ethos della Chiesa, quale speranza di una nuova religione civile”). Sull’idea di fraternità in un momento storico così ambiguo e confuso, di transizione, in cui i vecchi idoli e le figure intrise di autorità finiscono nella polvere ma non se ne issano di nuove, e mentre la politica non sa più “leggere” la società, ed è lentamente disfatta e sopraffatta dai populismi, le intolleranze, i razzismi, attingendo a un’ampia bibliografia (Habermas, Bauman, Marramao, Ignatieff), riflette Maria Rosaria Manieri in “Fraternità” (rilettura civile di un’idea che può cambiare il mondo), Marsilio, Venezia 2013, pp. 156, € 15.00 (collana “Tempi”).
La Manieri ha un robusto background alle spalle: ha militato nel Psi ed è stata senatrice sino al 2006. E’ professore associato all’Università del Salento, ha firmato ricerche e saggi critici sull’umanesimo, il rapporto fra politica e morale, la donna e la famiglia nella filosofia moderna. Intensa la prefazione di Giuseppe Vacca, che mette molta carne al fuoco parlando di “principio dimenticato” (…) “La ricostruzione del principio politico europeo condotta in maniera brillante in questo saggio conferma che le uniche forme in cui il principio laico di fraternità si sia incarnato sono state il concetto kantiano di giustizia e quello socialista di solidarietà (…) Il tema è dunque squisitamente politico e condivido l’idea di ripartire dalla critica del modo di produzione capitalistico che costituisce non solo la lezione più feconda di Marx, ma anche l’urgenza storica del nostro tempo”.
E dunque, per la saggista nata a Nardò (Le) “nel panorama mutato e mutevole del mondo, va emergendo una nuova, quantunque antica e del tutto inedita e inesplorata, richiesta di fraternità (…) nuovi legami fra cittadini, sessi e generazioni, nel segno di una nuova sintesi storica fra libertà e uguaglianza”.
La modernità ci ha cacciati nel vicolo cieco di un paradosso. La saggista cita Peter Singer: “Oggi le persone sono legate un tempo inimmaginabili”. E Zygmunt Bauman (il teorico della modernità liquida): “…siamo già, e lo rimarremo a tempo indefinito, oggettivamente responsabili gli uni degli altri. Ma ci sono pochi segnali di una disponibilità, da parte di noi che condividiamo il pianeta, ad assumerci una responsabilità soggettiva per questa nostra responsabilità oggettiva”. Come dire: per ritrovare il filo della civiltà, sconfiggere il “vuoto etico”, ridare corpo al termine fraternità è un passaggio obbligato. Non ci sono altre opzioni.
”Non di amore – riflette la Manieri – ha dunque bisogno la società moderna, ma di organizzazione sotto principi razionali, universalmente validi, tali da consentire la formazione di un corpo sociale veramente comune”. La nostra sopravvivenza è legata a questa rivoluzione, una sfida epocale: ne saremo capaci?