Euippa: il passaggio dal complimento alla calunnia è breve …

di Armando Polito

 

A differenza di altri miei post, quello recente su Euippa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/07/euippa-la-fantomatica-regina-di-lecce/), che pure toccava molte note dolenti reali o da me presunte, ha registrato un solo commento trasmessomi tramite facebook e da me letto per puro caso dall’autore delle foto, Pietro Barrecchia, che, per chi non lo sapesse, è stato mio alunno.

Riporto, violando volontariamente la riservatezza per la seconda volta …, la parte del suo messaggio che può avere un qualche interesse comune.

Mi scrive Pietro: ” … Una sola cosa mi sorprende. Pensavo che ricamasse di più sull’etimologia di Euippa. Secondo lei potrebbe trattarsi di un appellativo dato alla rappresentata, essendo probabilmente una bella donna? Tipo un modo antico, gentile e greco, anticipatario del romano “Ah bona!”. In fondo potrebbe essere tradotto con bella cavalla! Non crede? A questo punto penserà: ” Ma ione ci aggiu prodottu?“.

Ho gradito, naturalmente, tutto il messaggio, ma in modo particolare la parte finale con la sua autoironia, ingrediente che nella vita per me è già sostanza ma che qui assume connotati ancora più profondi perché mi fa capire che qualcosa di buono, sia pure in quantità non industriale (anche se l’artigianato, almeno per me, è meglio dell’industria …), ho lasciato nell’esercizio della professione non … più antica, ma certamente più bella del mondo.

Confesso che pure a me era venuta immediatamente in mente l’idea della bella cavalla ma mi ero ripromesso di non parteciparla per non essere accusato di quel maschilismo al cui rischio mi esponeva  l’ultimo (in realtà il più importante) posto riservato nella trattazione alla regina leccese, per cui mi ero rifugiato nella dimestichezza col cavallo che dei Messapi le fonti ci hanno tramandato1. Prima della decisione definitiva, però, avevo fatto un’indagine in tal senso, i cui risultati, a questo punto, mi pare doveroso esporre.

Se Euippa non è di origine deaggettivale ma denominale bisognerebbe immaginare che l’avverbio εὖ (leggi eu) abbia assunto un valore aggettivale rispetto ad un sostantivo *ἵππα (leggi ippa) o *ἵππη (leggi ippe). Li ho scritti entrambi con l’asterisco perché in greco è attestato, come nome comune, solo ἵππος (leggi ippos), usato tanto per il maschile che per il femminile; unico segno distintivo l’articolo (leggi o) per il maschile (ὁ  ἵππος=il cavallo) e l’articolo (leggi e) per il femminile. Ci aspetteremmo, perciò, che ἡ ἵππος significasse la cavalla. Proprio questo, che dovrebbe essere il significato di partenza, non è attestato, cosa che non succede con i significati traslati: da quello collettivo (la cavalleria2), a quello dispregiativo (donna di facili costumi3), ad epiteto di Ecate, su cui debbo spendere qualche parola in più.

L’epiteto è attestato in Porfirio di Tiro (III-IV secolo d. C.), De abstinentia, IV, 16: Καὶ θεοὺς δὲ τούτους δημιουργοὺς οὕτω προσηγόρευσαν· τὴν μὲν Ἄρτεμιν λύκαιναν, τὸν δὲ Ἥλιον σαῦρον, λέοντα, δράκοντα, ἱέρακα, τὴν δ’Ἑκάτην ἵππον, ταῦρον, λέαιναν, κύνα (E hanno chiamato così questi dei creatori: Artemide lupa, il Sole lucertola, leone, serpente, sparviero, Ecate cavalla, toro, leonessa, cagna).

Dal contesto è indubbio che ogni epiteto divino è in relazione con i pregi di ciascun animale. Si sa, poi, che nel passaggio dal mondo pagano a quello cristiano molti di questi animali per lungo tempo nei bestiari medioevali ebbero una posizione ambigua (lo stesso animale poteva simboleggiare una virtù o un vizio), terreno che preparò, poi, fra l’altro, i significati legati alla sfera sessuale di vacca, lupa, cavalla, troia e chi più ne ha più ne metta. Ricordo che un altro epiteto di Ecate era Τριοδῖτις (leggi Triodìtis=venerata nei trivi) e che la sua omologa romana era Trivia (protettrice della prostituzione sacra). Nell’iconografia Ecate è spesso rappresentata con tre teste (cane, serpente e cavallo) e con una torcia in mano (era una divinità psicopompa e la torcia le serviva per accompagnare anche i vivi nel regno dei morti).

Detto questo, ritengo utile ribadire, nonostante alcuni si siano spinti, partendo dalla prostituzione rituale che veniva praticata in apposite edicole in prossimità di crocicchi, a tal punto da collegare la torcia con i moderni fuochi con cui le passeggiatrici cercano di mitigare il freddo della notte (!), che nulla autorizza ad attribuire a cavalla l’interpretazione maliziosa che trova il suo peggior acme maschilista nella locuzione correre la cavallina o nella voce neretina spuddhitrina, per la quale chi ne ha voglia può approfondire in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/22/il-centauro-e-la-spuddhitrina/.

Ho detto prima che ἵππα o ἵππη come nomi comuni non sono attestati, ma come nomi propri sì.

Antipatro di Sidone (II secolo a. C.), Antologia Palatina, VI, 276: Ἡ πολύϑριξ οὔλας ἀνεδήσατο παρϑένος Ἵππη/χαίτας, εὐώδη σμηκομένα κρόταφον·/ἤδη γάρ οἱ ἐπῆλθε γάμου τέλος· αἱ δ’ἐπὶ κουρῇ/μίτραι παρθενίας αἰνέομεν χάριτας./Ἄρτεμι, σῇ δ’ἰότητι γάμος θ’ἅμα καὶ γένος εἴη/τῇ Λυκομηδείου παιδὶ λιπαστραγάλῃ (La vergine Ippe dalla folta chioma ha legato i ricci capelli dopo essersi profumato le tempie; infatti  è giunto ormai il tempo delle nozze e noi bende poste sull’acconciatura lodiamo le grazie virginali. O Artemide, grazie a te ci siano nello stesso tempo nozze e prole per la figlia di Licomedido che ha finito di giocare con gli ossicini).

Detto che gli ossicini sono gli astragali, strumento dell’omonimo gioco (vedi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi pare che il brano sia un omaggio alla semplice grazia della ragazza, un tributo puro all’autentica bellezza (che si nutre sempre di qualcosa che travalica, pur non escludendola a priori, la semplice carnalità), che qui esclude totalmente qualsiasi implicazione di natura erotica.

Proclo (V secolo d. C.)  ) nel suo Commento al Timeo di Platone II, 124 C-D (cito dall’edizione a cura di Chr. Schneider, Trewendt, Bratislava, 1847, pp. 292-293): Ἡ γὰρ Ἵππα τοῦ παντὸς οὗσα ψυχὴ καὶ οὕτω κεκλημένη παρὰ τῷ θεολόγῳ τάχα μὲν ὅτι καὶ ἐν ἀκμαιοτάταις κινήσεσιν ἐννοήσεις αὐτῆς οὐσίωνται, τάχα  δὲ καὶ διὰ τὴν ὀξυτάτην τοῦ παντὸς ϕορὰν, ἧς ἐστίν αἰτία, λίκιον ἐπὶ τῆς κεφαλῆς θεμένη καὶ δράκωντι αὐτὸ περιστρέψασα τὸ κραδιαῖον ὑποδέχεται Διόνυσον (Ippa, che era l’anima di ogni cosa e che era chiamata così da chi degli dei se ne intendeva probabilmente perché i suoi pensieri si realizzano in opportunissimi movimenti, forse anche per la splendido movimento di tutto, di cui è causa, tenendo sulla testa una benda e dopo aver attorcigliato lo stesso ramo di fico ad un serpente, accoglie Dioniso).

Va detto che questo brano ci è giunto con un numero notevole di varianti e di probabili interpolazioni che, però, non intaccano minimamente la sostanza: Ippa è una ninfa e la doppia etimologia del nome fornita, sia pure in forma dubitativa, da Proclo esclude, secondo me, qualsiasi interpretazione maliziosa che pure, la devozione della ninfa a Dioniso, dio della sfrenatezza, avrebbe potuto propiziare.

Ritornando per l’ultima volta all’avverbio εὖ va detto che esso costantemente entra solo nella formazione di aggettivi, come in εὔπους (leggi èupus)=dal piede agile (e non piede agile). Attenzione a non farsi trarre in inganno da sostantivi come εὐθανασία (leggi euthanasia)=facile (o dolce) morte! Infatti questa voce non nasce dalla fusione di εὖ e di un θανασία che in greco non esiste, ma è derivato dall’aggettivo εὔθάνατος (leggi euthànatos)= di bella morte (e non bella morte), composto da εὖ e θάνατος=morte. Lo stesso processo costantemente si ripete in tutti i sostantivi che hanno εὖ come primo componente. Ne consegue che il nome della nostra eroina per significare bella cavalla  avrebbe dovuto sviluppare una probabile forma, (derivata dall’aggettivo εὔιπποςΕὐίππίη o Εὐίππία. D’altra parte, chi si sognerebbe di interpretare bel cavallo l’omerico Εὔιππος citato nel post madre?  

E, infine, un riferimento all’etimologia appena indicata è presente in Vicolo Cavallerizza, non a caso vicinissimo a Via Euippa.

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1 Ne approfitto per aggiungere altre testimonianze correlate omesse per brevità nel post-madre:

Polibio (II sec. a. C.), Historiae, II, 24, 10-12: Καταγραφαὶ δ᾽ ἀνηνέχθησαν᷾ Λατίνων μὲν ὀκτακισμύριοι πεζοί, πεντακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Σαυνιτῶν δὲ πεζοὶ μὲν ἑπτακισμύριοι, μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς ἑπτακισχίλιοι, καὶ μὴν Ἰαπύγων καὶ Μεσσαπίων συνάμφω πεζῶν μὲν πέντε μυριάδες, ἱππεῖς δὲ μύριοι σὺν ἑξακισχιλίοις, Λευκανῶν δὲ πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, τρισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Μαρσῶν δὲ καὶ Μαρρουκίνων καὶ Φερεντάνων, ἔτι δ᾽ Οὐεστίνων πεζοὶ μὲν δισμύριοι, τετρακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς (Furono redatte le liste: di Latini  ottantamila fanti e cinquemila cavalieri; di Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri; di Iapigi e Messapi  insieme cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri; di Lucani trentamila fanti e tremila cavalieri; di Marsi, Marrucini e Frentani e pure Vestini ventimila fanti e quattromila cavalieri).

Festo (II secolo d. C.), frammento del De verborum significatione tramandatoci nell’epitome che dell’opera fece Paolo Diacono nel secolo VIII  d. C.: Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et sallentini, apud quos Menzanae Iovi dicatus vivus conicitur in ignem (Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco).

2 Eschilo (VI-V secolo a. C.), Persiani, v. 302; Erodoto (V secolo a. C.), Storie, I, 80, 2; etc., etc.

3 Eliano (I-II secolo d. C.), De natura animalium, IV, 11: Μόνας ἀκούω τῶν τὰς ἵππους καὶ κυούσας ὑπομένειν τὴν τῶν ἀῤῥένων μίξιν· εἶναι γὰρ λαγνιστάτας· διὰ ταῦτα τοι καὶ τῶν γυναικῶν τὰς ἀκολάστους ὐπὸ τῶν σεμνοτέρως αὐτὰς εὐθυνόντων καλεῖσθαι ἵππους (Vengo a sapere che le cavalle sole tra gli animali anche se sono incinte accettano l’accoppiamento con i maschi e che sono infatti le più lascive; che certamente anche per questo le più dissolute delle donne sono chiamate cavalle da coloro che le biasimano in modo piuttosto delicato).

Lascio immaginare quali sarebbero gli epiteti meno delicati. Riporto cosa, a proposito di questo significato di ἡ ἵππος, quello che qualsiasi studente di liceo classico trova in un vocabolario greco antico-italiano, se ancora si usa e lo si sa usare. Nel Rocci si legge: “cavalla, donna scostumata”; nel Montanari: “fig. di donna dissoluta, vacca, troia”. Ho citato fedelmente, scelte grafiche dei caratteri comprese; il lettore noterà la maggiore crudezza di linguaggio del più recente Montanari, cosa che è nello stesso tempo spia dell’evoluzione del linguaggio ma anche dei costumi. C’è, infatti, una bella differenza tra donna scostumata da una parte e troia, vacca dall’altra, slittati nell’uso corrente dal significato di donna dissoluta a quello di prostituta. Ancora un passo ed anche chi è affetta da ninfomania verrà bollata come prostituta, nonostante non ci sia in ballo il denaro o un qualsiasi compenso e nonostante la prostituta, non sia tale per semplice piacere. Che sia un ragionamento maschilista credo sia fuor di dubbio e il brano di Eliano nel tratto finale con quel σεμνοτέρως (=in modo piuttosto delicato) dimostra pure quanto esso sia datato, anche se per trovare il limite estremo bisognerebbe, molto probabilmente, risalire ad Adamo …

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