di Alessio Palumbo
Aradeo è un paese pressoché privo di centro storico. Degli antichi monumenti, delle sedi dell’amministrazione civile e giudiziaria, delle vecchie dimore nobiliari e soprattutto delle numerose chiese[1] quasi nulla è rimasto, grazie soprattutto alla scellerata politica edilizia dell’ultimo secolo. Oltre a questa spiegazione legata alla storia contemporanea del paese, è necessario prenderne in considerazione un’altra, derivante dalla storia moderna. La Terra di Aradeo da fine Quattrocento fino al 1806 fu feudo di un ordine monastico (gli Olivetani) che per secoli la governò da lontano, ovvero da Galatina, sfruttandola come fosse una piccola colonia. Tale ordine non dimostrò alcun interesse ad arricchire il feudo con edifici ed opere d’arte di particolare rilievo, fatta eccezione, come vedremo, per un breve periodo intorno alla metà del Seicento, ovvero il periodo del “governatorato”.
Ad oggi, dunque, tra le testimonianze artistiche ed architettoniche più rilevanti del passato cittadino si possono segnalare la colonna dedicata a San Giovanni Battista ed il limitrofo palazzo baronale (attuale palazzo Grassi). Per ironia della sorte i simboli di uno dei momenti più bui della storia cittadina, ossia l’età della totale sottomissione di Aradeo allo strapotere feudale degli Olivetani. Una sottomissione che ebbe il suo momento di non ritorno in un determinato anno: il 1533, l’anno della “truffa”. Ma procediamo con ordine.
In età bizantina (ma anche normanna e sveva) Aradeo fu un chorion (ovvero un centro urbano con proprie mura) culturalmente attivo e vitale. Afferma Hoffmann: “Aradeo fu, a cavallo dei secoli XIII e XIV, un punto di riferimento per la coscienza nazionale dei Greci in Terra d’Otranto, sotto il duplice aspetto di fedeltà al culto bizantino e alla lingua greca, e di ritorno alla letteratura greca classica e profana”[2].
Come molte altre terre fu poi oggetto di spartizioni, cessioni ed infeudamenti. In particolare, ad inizio Quattrocento, Raimondello Orsini del Balzo donò il feudo di Aradeo al monastero ed ospedale di Santa Caterina in Galatina, allora retto dai francescani. Nel 1494 questi ultimi furono estromessi ed il controllo del monastero passò agli Olivetani. Sotto i nuovi feudatari iniziò per Aradeo un lento ma inesorabile declino.
Fino ad allora il “casale” di Aradeo aveva goduto di una notevole autonomia nei confronti dei propri signori. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Università[3] (concretizzatasi oltre che nella libertà di elezione di sindaci, uditori ed altri amministratori, soprattutto nell’operato di un vero e proprio parlamento cittadino), l’esenzione dal pagamento delle decime alla camera baronale (fatta eccezione per quelle relative al vino, grano ed orzo) ed una serie di altre franchigie avevano garantito lo sviluppo di una marcata coscienza civica e di un forte spirito libertario. Con gli Olivetani tutto ciò venne messo in discussione.
I monaci “servendosi dei loro ministri, si proposero di controllare l’Università, volendo fare riunire le assemblee non più nella chiesa maggiore del casale, ma nella «casa del ditto Monasterio» cioè nella dimora che i monaci possedeva ad Aradeo”[4]. Gli aradeini si opposero fermamente, ma siamo solo all’inizio della lenta opera di erosione delle autonomie cittadine posta in atto da quello che alcuni storici hanno definito lo “Staterello di Santa Caterina”. Ben presto, i monaci ottennero il controllo oltre che della giurisdizione civile (a loro spettante con l’infeudazione) anche di quella criminale (jus gladii) acquistandola nel 1530 dal duca di Galatina. I magistrati, prima dimoranti in Aradeo, ora iniziarono a risiedere nella stessa Galatina e anche la corte e le carceri, ben presto, furono trasferite in questa città[5]. A queste ragioni di contrasto si aggiunsero infine dei motivi economici e fiscali: i monaci cercarono di abolire la libertà di pascolo fuori dalle mura, tentarono di imporre il pagamento dell’erbatico, cominciarono ad esigere dazi sulle strade e altri balzelli, richiesero prestazioni lavorative gratuite nelle proprie terre, ecc… Gli aradeini si opposero con decisione, ma la situazione degenerò nel 1533, annus horribilis per la storia di Aradeo.
Per capire cosa successe, dobbiamo fare un passo indietro di cinque anni. Nel 1528 un tentativo di invasione francese squassa il regno di Napoli: è la cosiddetta guerra di Lautrec. Nel corso delle operazioni belliche ad Aradeo vengono alloggiate delle truppe albanesi a spese del casale. Per far fronte a tali spese la comunità si indebita per 2.217,3 ducati con il notaio gallipolino Gabriele Nanni e per 228 ducati con Giovanni Staivario della Costa: debiti cui l’Università aradeina non può far fronte. È qui che scatta la “truffa” degli Olivetani. Nel 1533, di fronte ad un notaio leccese, i monaci si assumono l’onere del debito contratto dagli aradeini, ottenendo in cambio “la decima delle Olive, Grano, Orzo, Vene, Fructi, invernini, ed estivi, Fagioli, Dolega, Ceci, Cipolla, Agli, Zafferana, Olii, Vini, Musti, Lupini, Fichi, ed erbe, Borracana, ed altro”[6].
Con questo atto notarile gli aradeini di fatto firmarono la rinuncia alla secolare autonomia economica e fiscale nei confronti dei propri baroni. Un clamoroso gesto autolesionistico, insomma. Quando gli aradeini si accorsero dell’errore commesso era ormai troppo tardi. Dopo vani tentativi di recuperare alcune decime ed il controllo di trappeti e masserie, nel 1555, spinti dalla disperazione, decisero di intentare causa agli Olivetani.
Secondo gli storici la risoluzione dell’Università di adire alle vie legali contro i propri baroni è il sintomo di una situazione oramai insostenibile: “gli Aradeini accettarono dunque la lotta per salvaguardare il loro lavoro, per assicurarsi la libertà di commercio, per garantirsi il pieno possesso della terra e dei suoi frutti e per premunirsi dai danni provenienti dal sistema feudale. Essi inoltre agirono, perché la propria università liberamente continuasse a nominare i magistrati, perché la comunità non perdesse il possesso del demanio cittadino e perché non fosse privata di quelle franchigie economiche, che la consuetudine aveva garantite”[7]. L’avvocato nominato dall’Università giustificò la cessione delle decime come semplice donazione (e non vendita come sostenevano i monaci), causata delle incresciose conseguenze della guerra di Lautrec e, soprattutto, dall’opera di estorsione violenta posta in essere dagli abati. Gli Aradeini, quindi, “tentarono di invalidare il medesimo contratto, innanzitutto perché non avrebbe avuto le «solennità» richieste, in quanto non era stato stipulato nell’abitazione che l’ospedale galatinese possedeva nel casale, e poi perché gli olivetani, per estorcere il consenso ai contraendi, avrebbero pigliato «li homini et citatini de ditta terra et li amminaziavano che havessero fatto lo detto contenso Contracto de decime et li carceravano»”[8].
Nel processo che si svolse in territorio neutro, ossia a Parabita, i monaci ottennero che a testimoniare fossero uomini privi di proprietà immobiliari nella terra d’Aradeo, ciò al fine di evitare possibili conflitti di interesse. Nondimeno i testimoni provenienti soprattutto da Seclì, Soleto e Parabita accusarono i monaci di aver danneggiato in vario modo Aradeo, attentando alle sue tradizionali autonomie, minando la stessa economia, danneggiando la proprietà privata[9], maltrattando i cittadini, ecc. Nonostante la forza di tali testimonianze il processo si arenò, tant’è che nel 1753 la causa risultava ancora pendente presso il Sacro Regio Consiglio.
Gli Olivetani poterono quindi assoggettare completamente Aradeo. Essi misero “in atto il loro disegno: quello di ridurre le libertà amministrative e giudiziarie di Aradeo, inasprendo il sistema fiscale e attentando al piccolo Parlamento cittadino”[10]. Gli aradeini cercano di mantenere la propria autonomia politica edificando un sedile (sede del parlamento) fuori dalle mura, ma fu un successo effimero. Gli Olivetani rafforzarono il proprio controllo economico (acquistando tutti i mulini, trappeti e la gran parte della masserie[11]) e amministrativo. A tal fine, dal 1636, si avvalsero di una nuova figura: il governatore. A quest’ultimo il monastero di S.Caterina affittava, con contratto probabilmente biennale, i pieni poteri sul feudo.
Fu proprio il primo di questi governatori, padre Giovanni da Napoli, ad avviare un’eccezionale opera di rifeudalizzazione, che ebbe anche una sua veste artistica ed architettonica. La colonna di San Giovanni ed il palazzo baronale sono per l’appunto i simboli del baronaggio rampante degli Olivetani ad Aradeo. Giovanni da Napoli, infatti, “acquistò diverse abitazioni tra cui alcune dirute, che utilizzò come suolo edificatorio. Nel 1655 innalzò dalle fondamenta la nuova villa baronale, sede del governatorato olivetano, con la sala di rappresentanza, camere, magazzini, stalla, cucina, due cellari, uccelliere e una cappela. Nei pressi del medesimo stabile comprò anche diversi giardini, vigneti e altri terreni, che cinse con un muro di protezione, formando un unico grande giardino […] inoltre di fronte alla nuova sede baronale entrò in possesso di altri caseggiati, che poi fece abbattere per aprire una piazza, «et in mezzo ci hà eretto la statua di Santo Giovanne, et à torno, à fatto fare cornici di pietra di lecciso, et comprate tutte le case che s’includono in detta piazza»”[12]. Un grandioso piano di rinnovamento edilizio che portò anche all’ingrandimento del “vecchio castello” e all’innalzamento della chiesa dello Spirito Santo: un’eccezionale opera edificatoria volta a sancire il trionfo del baronaggio ecclesiastico sulla piccola e oramai completamente assoggettata università aradeina[13].
[1]Ad inizio cinquecento oltre alla chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola, erano presenti edifici di culto dedicati a S. Antonio (due chiese), S. Stefano, S. Giorgio, S. Angelo, S. Maria dell’«Annunciata», S. Maria e S. Salvatore. Altre chiese e cappelle si aggiunsero nei secoli a seguire.
[2] P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 65
[3] Per Università, in età medievale e moderna, si intende l’attuale “comune”
[4] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, vol. II, Galatina, Congedo, 1980, p.74
[5] Una testimonianza aradeina del 1555 riporta “comu li ditti Abate cellari et monaci voleno che il capitanio et Mastro de atti de ditta terra facciano residentia in Santo Pietro in Galatina et voleno che per qual si voglia causa tanto civile come criminale in prima instantia li homini di detta terra vadano adligati in Santo Pietro dove voleno tenere li carcerati” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f.169 r. in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 77)
[6] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 80
[7] Ivi, p. 84. La straordinarietà dell’atto del 1555 emerge anche dal modo in cui le fonti descrivono gli abitanti di Aradeo, mansueti e obbedienti ai propri signori: “li citatini et homini della ditta terra di Aradeo sonno stati et sono persone rustice, bonate, e da bene; persone che vanno alla bona et poco prattichi et experti de cautele et scritture persone obedientissime alli superiori loro che mai li contradicono a cosa alcuna” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f. 175r, in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 83).
[8] Ivi, p. 81
[9] Alcuni testimoni ad esempio accusarono i monaci di aver fatto pascolare le proprie mandrie sui terreni posseduti dagli aradeini senza risarcire i danni procurati dagli animali.
[10] G. PISANÒ, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 46
[11] Nel 1556 edificano la Corte, probabilmente una vecchia torre bizantina, riconvertita in azienda agricola
[12] Ivi, p. 111
[13] Il termine “piccola” non è casuale, visto che nel corso del seicento la popolazione cittadina diminuì considerevolmente passando dai 105 fuochi di fine Cinquecento agli 82 del 1648 e 80 del 1669. Una tendenza di certo in linea con il generale decremento demografico del sud Italia in questi anni, ma che spicca se paragonata ai flussi demografici di altri paesi limitrofi (le cifre relative ai fuochi di Seclì nelle stesse date sono 106, 132, 145). Ciascun fuoco contava circa 4-5 individui. Dati tratti da M. A. VISCEGLIA, Territorio Feudo e Potere locale:Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1998)
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