di Armando Polito
Coincide con la festa della Madonna degli Angeli, che cade il primo giovedì dopo Pasqua. Solo chi non rispetta le tradizioni altrui potrebbe definirla una Pasquetta a scoppio ritardato. Io nel mio piccolo mi permetto di ricordarla a modo mio presentandovi una poesia sul tema: I Pascarèddha di Cesare De Santis1, tratta dalla raccolta in griko …ce meni statti … e resta cenere2, Amaltea edizioni, Castrignano dei Greci, 2001, pagg. 40-42.
Tutta la poesia di questo autore è frutto della contaminazione operata da un autodidatta che sentiva istintivamente il fascino dell’antico dialetto ed ebbe occasione di intuire i suoi profondi legami col presente grazie all’incontro con un gruppo di greci provenienti da Corfù ed emigrati, come lui, in Germania. Per questo la sua lingua è, come vedremo, un misto di griko, neogreco e voci dialettali di origine neolatina. Insomma, una globalizzazione linguistica ante litteram, molto più nobile, mi permetto di affermarlo ad alta voce, di quella attualmente in atto, collage senz’anima proprio perché non solo le manca l’esperienza e la sofferenza della storia, ma risulta asservita in modo preponderante e prevaricante all’espressione di esigenze puramente materiali.
Per rendere meno complicata la vita al lettore ho riportato, strofa per strofa, nella prima colonna il testo e la traduzione dell’autore, nella seconda, tutto di mio, il corrispondente testo in greco classico (ho lasciato tal quali, evidenziandole in corsivo, le parole di origine neolatina; i puntini, invece indicano le parole intraducibili nel greco classico), la pronuncia e in calce le note di commento.
Alla fine di questo viaggio qualcuno, probabilmente, sarà curioso di conoscere il mio giudizio su questa poesia. Al di là di quanto ho puntualizzato nelle note e al di là dei dettagli descrittivi che ad una lettura superficiale potrebbero sembrare un po’ troppo ingenui e scontati, rimane la testimonianza documentaria e documentata (intendo dire in qualche modo registrata, in questo caso stampata), preziosa per quella entità potente, profonda ma al tempo stesso labilissima che è il dialetto, nei confronti del quale ancora oggi si continua ad assumere uno stupido atteggiamento, se non di disprezzo, di schifiltosa supponenza. Solo rimuovendo questo pregiudizio, in cui ha svolto un ruolo millenario la psicologia (non mi riferisco alla scienza) non disgiunta, e ti pareva!, dall’economia, sarà possibile evitare a qualsiasi lingua la sorte che inesorabilmente le spetta quando non viene usata: la morte.
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1 Sternatia, 1920-Milano, 1986.
2 Già il titolo preannuncia la struttura dell’opera: l’autore ha corredato ogni poesia della sua traduzione in italiano. Anticipando quello che farò per I Pascarèddha dico subito che in greco classico …ce meni statti … sarebbe stato καὶ μένει στακτή (leggi: cai mènei stactè). Chiedo scusa a chi conosce il griko, il greco classico, quello bizantino e il neogreco (fortunati da cui ho tutto da imparare), ma il taglio divulgativo di questo post mi obbliga a registrare la pronuncia di ogni parola greca che vi compare perché a nessun lettore sia preclusa la possibilità di comprendere più o meno agevolmente le pur modeste osservazioni che farò. Sorvolando qui su ce meni, il cui rapporto col greco classico è evidente, mi soffermo su statti per dire solo che la differenza d’accento è dovuta al fatto che la voce non deriva dal classico stactè, aggettivo verbale di στάζω (leggi stazo)=stillare, che alla lettera significa stillato e che con valore sostantivato indica anche la liscivia (dettaglio, come fra pochissimo vedremo, importantissimo); statti deriva dal neogreco στάχτη (leggi stachte) che significa cenere e che non è altro che il classico stactè che ha cambiato accento e registrato uno slittamento di significato per metonimia, cioè dall’effetto (liscivia) alla causa (cenere).