di Rocco Boccadamo
Queste note, anche se, come spesso succede, abbracciano uno spaccato di gente, vita, vicende, relazioni e ricordi della fanciullezza e giovinezza al paesello, sono dedicate, in modo particolare, a Totò, un amico e coetaneo, o meglio dire alla sua memoria, atteso che egli, da lungo tempo, non sfoglia più, materialmente, i giornali, ma legge e segue gli scritti del comune osservatore di strada, standosene seduto a una scrivania, lassù.
Totò nasce in seno a una famiglia benestante di Marittima, ha un fratello e una sorella un po’ più grandi. Il padre, proprietario terriero, e però egli stesso dedito personalmente all’agricoltura, porta un nome di battesimo importante, anche se, ordinariamente, è conosciuto e chiamato con il diminutivo di ‘Ntinu, più completamente patrunu ‘Ntinu; la madre, Donata, è una dolce signora originaria della vicina Andrano.
Il nucleo abita in una spaziosa abitazione a piano terraneo, ricavata in parte dalla massiccia mole di un’antica torre nobiliare (tuttora esistente al centro del paese e detta “Torre di Alfonso”) e, per il resto, costruita su un giardino, conosciuto come “giardino dei baroni”, con riferimento a persone benestanti, capostipiti della medesima famiglia di cui qui si racconta.
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L’andamento tranquillo nella casa in questione s’interruppe improvvisamente e tragicamente intorno al 1950, quando, in una notte, venne a mancare prematuramente la sposa e mamma; una tragedia, accresciuta dal particolare che il vedovo ‘Ntinu non era assolutamente in grado di badare alla gestione domestica e, soprattutto, alla cura e alla crescita dei figli. Difatti, i tre ragazzini furono temporaneamente affidati alle sorelle della defunta, dimoranti in Andrano.
Per questo, io ripresi a vedere Totò, ogni pomeriggio, a Marittima, solamente in quinta elementare, quando fu mandato a prepararsi agli esami di ammissione alle medie presso il mio maestro Alfredo.
In un’occasione, notai che egli aveva in mano una bellissima penna stilografica d’argento, mentre noi coetanei usavamo ancora aste con pennino e inchiostro, alcuni, eccezionalmente, le prime penne a biro. Di fronte al nostro stupore, Totò confidò di aver ricevuto il prezioso oggetto in regalo da uno zio materno, prelato o monsignore in servizio diplomatico nel Perù, nella capitale Lima, e fu la prima volta che, personalmente, sentii nominare quel paese e quella città.
Passati gli esami d’ammissione, Totò fu inviato dal padre a Galatina, in un convitto con annesse scuole medie e superiori, dove già si trovavano il fratello e la sorella.
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Tuttavia, durante la frequenza del ginnasio, essendo in certo senso mutata la situazione nella casa paterna grazie a un secondo matrimonio contratto da patrunu ‘Ntinu, Totò fece ritorno a Marittima e andò a seguire i corsi al “Capece” di Maglie: ci trovammo, così, insieme, nel viaggio comune con la corriera delle Sud Est, oltre che, ovviamente, amici e compagni negli svaghi, principalmente nelle partite di pallone, sul fronte delle prime sigarette fumate alla chetichella dai genitori e, intorno ai sedici – diciassette anni, in occasione delle partite a carte, soprattutto a tressette, nel bar della piazza, la sera, una volta terminati i compiti. Quotidiane sfide contro coppie di compaesani, noi due, ovviamente, sempre compagni.
A un certo momento, sprazzo d’ingegno, escogitammo uno stratagemma, ovviamente tenuto segretissimo, che, a onor del vero, si rivelava efficace. Concordammo comunemente quattro nomi di amiche, reali o inventate, di viaggio o della scuola – Maria Annunziata, Silvia, Donatella e Carla – le cui iniziali corrispondevano ai quattro semi delle carte da tressette; in pratica, a ogni nostro turno di giocare, chiamavamo il “palo“ della carta da calare sul tavolo, pronunciando disinvoltamente una breve frase banale, contenente il nome della ragazza che meglio faceva al caso. In tal modo, il gioco era fatto, di solito con successo.
Memorabile, un particolare che ricorreva ogni volta che la collaboratrice domestica di patrunu ‘Ntinu, soprannominata Mariamarì, grande lavoratrice e moglie di un pastore di ovini, era mandata a chiamare il figlio Totò, occupato con gli amici a giocare al pallone o al bar, oppure a riferirgli qualcosa. Immancabilmente, la donna si rivolgeva ad alta voce al ragazzo, già da lontano, con l’appellativo “cumpare signurinu”, aggiungendo, quindi, quanto doveva dirgli.
E tutti noi della compagnia, ci abbandonavamo a fragorose risate e a sfottere il buon Totò. Sta comunque che il titolo di “cumpare signurinu” rimase a lungo una costante nel riferimento, a qualunque scopo, al nostro amico.
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Arrivati, rispettivamente, al diploma e alla maturità classica, entrambi – sia io, che fui assunto pressoché subito in banca, sia Totò, che partì per Roma dove risiedeva e lavorava il fratello maggiore – lasciammo quasi insieme Marittima, mantenendo tuttavia contatti epistolari e rivedendoci di tanto in tanto nella comune località natia o per le vacanze estive o per le principali festività.
In aggiunta, Totò, una volta propose agli amici più stretti di andare a trovarlo a Roma, al che, prendendo subito la palla al balzo, in un sabato di settembre, di buon mattino, salimmo in quattro sulla “Topolino” di Romano e, nel tardo pomeriggio, fummo già nella capitale; facile l’appuntamento e l’incontro con l’invitante, il quale poco tempo prima aveva anche lui assunto un impiego presso la società dei telefoni e, quindi, doveva offrirci un “complimento” per festeggiare l’importante traguardo.
Eccoci, quindi, in gruppo, in via Veneto, la famosa strada dei vip, degli attori e dei paparazzi, dove restammo a bighellonare per alcune ore, con intermezzi di un paio di consumazioni nei bar, locali di lusso mai visti in precedenza. Intorno, tanta gente in quella serata, per i turisti originari di un paesello del Basso Salento, era la realizzazione di un sogno.
Verso mezzanotte, congedatici da Totò, risalimmo sulla “ Topolino” e all’ora di pranzo della domenica rimettemmo piede a Marittima.
Di lì a qualche anno, pure Totò si formò una famiglia, con una ragazza conosciuta a Roma ma originaria della Calabria e nacquero due figli, un maschio e una femmina.
In casuale analogia e coincidenza rispetto alla mia vita di impiegato residente in quel periodo in Sicilia, compiendo in “500” il viaggio da Messina a Taranto e Lecce – a quell’epoca non c’era ancora l’autostrada – più o meno a metà percorso, transitavo da Cutro, nei pressi di Crotone, località che, guarda caso, era il paese natio della moglie di Totò.
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Scorrendo le stagioni successive, la nota saliente e più triste é che, Totò, non fu fortunato, improvvisamente gli precipitò addosso una tegola irrimediabile e, da poco compiuti i quaranta, se ne andò.
A distanza di circa sei lustri dalla sua scomparsa, io avverto ancora il bisogno di rivedere le sembianze del caro amico, e perciò, oltre ad andare a trovare i miei genitori, scendo, saltuariamente, anche le poche scale che conducono al luogo del suo riposo, per un saluto a quel volto ancora giovane.
Nella realtà residua della vita che prosegue, invece, d’estate, m’incontro, talvolta, con i figli dell’amico: la ragazza, che continua ad appoggiarsi nell’abitazione, già del nonno ‘Ntinu, nell’antica Torre di Alfonso, il ragazzo, che, invece, ha voluto costruirsi una nuova villetta, occupata insieme con la moglie, nativa di un paese vicino, dentro il “giardino dei baroni”, sulla via vecchia per Andrano, dirimpetto al fondo de l’Arciana con il suo fantastico Palummaru (in italiano, torre colombaia).
Ciao, Totò.