di Massimo Vaglio
La fava (Vicia faba) è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Leguminose, dai cui fiori, alla fine dell’inverno, si sviluppano dei grossi baccelli contenenti i semi dalla caratteristica forma reniforme e appiattiti.
Di antichissima coltivazione, è citata già nei testi biblici, ove il suo consumo viene temporalmente collocato già prima del Diluvio universale. Gli studi paletnobotanici, eseguiti in numerosi siti dell’Italia meridionale, Puglia inclusa, danno la Fava o meglio il Favino come il legume più diffuso e quindi consumato, insieme alla Lenticchia, già nel Neolitico. Un consumo, che sarebbe progressivamente aumentato, e di molto, facendone il legume più diffuso nel Calcolitico, nell’Età del Bronzo e nell’età del Ferro. Un primato, che questo legume avrebbe conservato anche con l’avvento della Storia, e mantenuto sino praticamente ai nostri giorni.
In età ellenistica, veniva consumata sia fresca che secca, oltre ad essere ampiamente impiegata nella panificazione, Teofrasto (371-286 a. C) parla della produzione che si faceva a Taranto. Un consumo ed un apprezzamento notevoli quindi, nonostante i moniti di grandi autorevoli filosofi che non perdevano occasione per lanciarsi in terrorizzanti vituperi contro questo legume. Nella cultura ellenica, infatti, si riteneva che la fava con il suo fusto cavo e senza nodi mettesse in relazione i viventi con l’Ade, che era il regno dei defunti e per tale motivo il suo consumo era oggetto di tabù e restrizioni.
Pitagora, grande filosofo e genio incontrastato nelle discipline matematiche, nonché fine erborista le considerava un cibo malefico in grado di corrompere la mente ed il fisico. Egli, in prima persona, le odiava tanto che evitava con cura ogni minimo contatto con le stesse, una sorta di fobia che gli sarebbe stata fatale, infatti, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.
Della sua stessa opinione anche Aristotele il quale, oltre alla caratteristica di corrompere anima e corpo, attribuiva loro anche il potere di far fare sogni osceni, inducendo a pericolose tentazioni. Ciò nonostante i Greci non si lasciarono mai condizionare più di tanto, probabilmente perché, come lo sono la maggior parte dei popoli, attratti dal fascino delle cose proibite o perché, ancora più semplicemente, impossibilitati a rinunciarvi in un’epoca di limitata variabilità di risorse alimentari le apprezzavano e le sapevano ammannire in svariate ricette.
Omero, le cita spesso nei suoi poemi e Aristofane, commediografo gastronomo, nella sua commedia “Le Rane”, nutre, fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.
Ancor di più e con meno riserve, furono amate dai Romani che a mezzo del grande gastronomo Apicio, autore del “De Re Coquinaria”, ci hanno tramandato anche tutta una serie di ricette, alcune curiose e particolari ed altre che somigliano incredibilmente a ricette ancora in auge in molte cucine tradizionali, tra cui nella cucina regionale pugliese.
Tra gli impieghi più particolari messi a punto dai Romani, una speciale farina che trovava utilizzo nella preparazione di focacce e dolci e che diluita nel vino, addolcita con miele e aromatizzata con spezie, dava luogo ad una particolare densa bevanda.
Un percorso comunque accidentato, se è vero com’è vero che la prestigiosa Scuola Medica Salernitana, rispolverando gli antichi precetti classici, le avrebbe nuovamente messe alla gogna, dichiarandole nocive per la vista. Nel “Regimen Sanitatis”, infatti si legge: “Fave, vin, lussuria, pianto, copula e punture; botte, polve e opre dure, cause agli occhi son di lutto”.