Gossip sì, ma solo per pretesto…

di Armando Polito

Tra le innumerevoli parole inglesi entrate nella lingua comune gossip è una delle più usate ed è tutt’altro che trascurabile anche la sua rilevanza economica se  è vero che i periodici che si occupano di quella che un tempo veniva chiamata cronaca rosa hanno tirature da capogiro.

Mi meraviglio solo che, come da tempo è successo per flirtare e stoppare, non sia ancora nato gossippare.

Non avanzerò, comunque,  diritti di paternità se, come credo, sarò stato il primo ad usarlo in questo post; sento, tuttavia, che prima o poi succederà. Nell’attesa faccio presente che già  in italiano per esprimere esattamente lo stesso concetto esiste pettegolare. Per me è irrilevante, tra l’altro, che oggetto dell’attenzione sia l’ultimo amorazzo del vicino di casa piuttosto che quello di un cosiddetto vip. Aggiungo, per curiosare in casa nostra, il neretino pitticulisciàre.

Se dovessimo anatomizzarlo verrebbero fuori tre segmenti: 1) pitticul– (radice), 2) –isci– (infisso), 3) –are (desinenza).

Proprio dell’infisso –isci–  voglio oggi raccontare mazze e corna.

Anzitutto va detto che esso ha un valore iterativo, cioè rispetto al verbo di partenza (che può anche non essere in uso: è il nostro caso, perché pitticulàre, a quanto ne so, manca nel neretino) indica un’azione ripetuta.

Se pitticulisciàre mostra ad ogni modo (attraverso l’inusitato pitticulàre) il rapporto con l’taliano pettegolare, altre voci dialettali rivelano una totale autonomia.

Anatomizziamo, per esempio, craulisciàre=tarlare; esso si compone di tre segmenti: 1) craul-(radice), 2) –isci– infisso), 3) –are (desinenza).

Se pitticulisciàre supponeva un sia pur inusitato pitticulàre, craulisciàre suppone un craulàre che nel vocabolario del Rohlfs risulta registrato da un Dizionario del dialetto salentino leccese di Fernando Manno, compilato tra il 1929-1932 e rimasto inedito.

Craulàre è da un latino “cariolàre, a sua volta da  “carìolus, diminutivo del classico càries, dal cui accusativo (càriem)  è derivato l’taliano carie1.

L’esatto omologo italiano della terminazione –isciàre è –eggiàre, che ha finito per perdere gran parte del suo originario valore  iterativo. Per esempio: vezzeggiare (da vezzo), corteggiare (da corte), maneggiare (da mano).

Non sempre al vocabolo italiano corrisponde uno analogo nel neretino, che non contempla izzisciàre e cortisciare, ma usa manisciàre, in cui il valore iterativo, quasi completamente perso dall’italiano maneggiare, si è conservato integralmente, tant’è che manisciàre non è sinonimo di trattare con le mani  ma, usato unicamente in forma riflessiva, di sbrigarsi, darsi da fare (non solo con le mani…).

Eppure entrambi derivano da un latino “manidiàre, da manus=mano+l’infisso –idi– (che ha il suo omologo nel greco –iz-2,  lingua in cui z nasce da d+j)+ la desinenza –are.

Conclusione: il gruppo di seguito da vocale  ha dato vita in italiano a gg e in neretino a sci. Tale esito è riscontrabile anche quando l’originario di non fa parte dell’infisso ma della radice, come in meriggio e mirìsciu, entrambi dal latino merìdie(m), in vedo e èsciu (entrambi dal latino vìdeo), etc.etc.

Se, come abbiamo visto, vezzeggiàre e corteggiare non hanno il loro omologo neretino in izzisciàre e cortisciàre, ci sono voci neretine che non hanno omologo italiano: per esempio, mustunisciàre=gualcire, rovinare qualcosa (anche il cibo) è iterativo di un inusitato mustunàre e questo deriva  da un altrettanto inusitato mustòne, accrescitivo di mustu=mosto; pizzulisciàre=assumere piccoli bocconi deriva da un inusitato (almeno a Nardò) pizzulàre che, a sua volta è da un altrettanto inusitato pìzzulu, diminutivo di  pizzu=becco. Gli omologhi italiani, se fossero esistiti sarebbero stati mostoneggiare e pizzoleggiare.

In altri casi, pur partendo da una comune radice, il dialetto si mostra più creativo : è il caso di intulàre=sfruttare il vento per pulire il grano o i cereali (l’omologo italiano è ventolare), da cui intuliscìare (far vento per alleviare gli effetti dell’afa; in italiano non c’è ventoleggiare) e intisciàre (lo screpolarsi soprattutto delle labbra  a causa del vento; in italiano non c’è venteggiàre). Come voce emblematica in cui il processo appena descritto è presente contemporaneamente in greco, in latino,  in italiano e in neretino ricordo: greco baptìzo=immergere, poi battezzare (iterativo di bapto=immergere)>latino baptìzàre>italiano battezzare e neretino attisciàre.

Tuttavia, non sempre la terminazione –isciàre suppone tout court la presenza dell’infisso iterativo. Prendiamo in considerazione minisciàre (stranamente non è registrato dal Rohlfs) che ha il suo omologo nell’italiano (som)ministrare e che significa servire la vivanda nel piatto ma anche calare il cibo nell’acqua per cuocerlo. È evidente la derivazione da minèscia, che ha il suo omologo italiano in minestra, entrambi dal latino ministràre (a sua volta da minister3=servo). In questo caso –sci– non deriva da un originario di seguito da vocale ma da str. Lo stesso succede  per musciàre che, come l’omologo italiano mostràre, è dal latino monstràre; e per prisciàre (omologo italiano pregiare, ma la voce dialettale ha uso solo riflessivo e il significato di rallegrarsi). D’altra parte, se sci avesse avuto il valore di infisso iterativo, la radice delle due ultime voci sarebbe stata una sorta di abbozzo di muggito per musciàre e una pernacchia in prisciàre.

Al lettore che eventualmente dovesse essere rimasto deluso dopo l’illusione in lui suscitata dal titolo non chiederò assolutamente scusa perché è stato lui a sbagliare sito; se, invece, la delusione nasce da una o più stupidaggini che mi fossero sfuggite, è pregato di segnalarmele: qui si vive per imparare.

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1 La derivazione da càriem (quinta declinazione) spiega la desinenza in –e (come in immagineserie, specie, etc.,  etc.), che può sembrare anomala rispetto alla più ricorrente (-a) nei nomi femminili derivanti, però, dall’accusativo della prima declinazione (-am).Talora succede che anche personaggi illustri cedano alla tentazione dell’adattamento. Un solo esempio: il cària distintamente pronunziato dal prof. Ignazio Marino (il fatto che è un chirurgo e non un filologo non è una valida giustificazione…) nell’intervento (non chirurgico…) ad Anno zero del 2 giugno u. s. (per non sorbirsi tutta la registrazione basterà andare al tempo 1. 45. 59), che chiunque può controllare (il mio invito sarà gossip?…) all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=tSBHfJK8qr4&feature=related

2 Tra le voci più prolifiche ricordo skalìzo, intensivo di skallo=zappare, dal quale è derivato, tramite un probabile intermediario latino (*scalidiàre) il neretino scalisciàre che è sinonimo di razzolare;dalla stessa radice di skallo con l’epentesi di una p sono derivati in latino scàlpere =incidere, scalpèllum=bisturi  e scalpurrìre=razzolare. Perfino l’italiano scalpo (dalll’inglese scalp, voce di origine scandinava) potrebbe essere in sostanza un discendente di questa antichissima radice.

3 L’ho già detto in altra circostanza, ma mi piace ricordare che minìster è composto da minus=meno +ter, particella comparativa indicante confronto tra due, per cui minister (da cui ministro) è, alla lettera, colui che rispetto ad un altro vale di meno; sappiamo benissimo come sono andate le cose e come i ministri onorino (sono o non sono pure onorevoli?…) a modo loro l’etimologia servendoci sempre la stessa minestra. Sarà pure questo gossip?…

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6 Commenti a Gossip sì, ma solo per pretesto…

  1. “…ma usa manisciàre, in cui il valore iterativo, quasi completamente perso dall’italiano maneggiare, si è conservato integralmente, tant’è che manisciàre non è sinonimo di trattare con le mani ma, usato unicamente in forma riflessiva, di sbrigarsi, darsi da fare (non solo con le mani…)”

    Riporto alcuni righi dal tuo interessante post odierno per riflettere sul termine: “manisciare”: sbrigarsi, ma nell’attività che si compie con l’ausilio delle mani. Altrimenti il verbo utilizzato è “sbrìcare”. Alcuni tra gli innumerevoli esempi. “manèsciate cu ‘ddhu rricamu” o “manèsciate cu pulizzi li mèndule”; “sbrìcate cu bbieni” (nel senso di “non tardare”) o “sbrìcate cu tti faci li compiti ti la scola”. Mi sembra che il secondo verbo includa l’altro e non viceversa

  2. Mi sono espresso così per sottolineare, rispetto all’italiano “maneggiare”, la conservazione del valore iterativo, anche perché, mi pare che “manisciare” sia usato, anche da solo, soprattutto come imperativo (manèsciate!) e, in tal caso, è sinonimo di “sbrìcate!”.

  3. Io chiedo scusa, sicuramente mi sbaglierò, ma “sbricàre” mi sembra un termine appartenente all’ultimo dialetto, a quello che traduce dall’italiano e che, in questo caso, viene usato in sostituzione di “manisciàre”. Se una contadina stava all’esterno e aspettava che la figlia uscisse da casa per raggiungerla non diceva “Sbrìcate cu bbieni” ma “E mmanisciate… cce stà spietti!” oppure “Ma cce stà ffaci… manisciate!…”. Così pure “Sbricate cu tti faci li compiti ti la scola” è una frase del mondo di oggi. Ne dà testimonianza “li compiti”, italiano a tutti gli effetti, visto che nell’antica civiltà salentina era termine quasi sconosciuto e dove servisse i compiti erano “li llizziuni”, e in questo dire era implicito il “ti la scola”. Certo, può darsi che io mi riferisca a Copertino e che a Nardò e in altri paesi venisse usata questa fraseologia, che – ripeto – conosco ma come lingua parlata degli ultimi 30-40 anni.

    • probabilmente è come scrivi. Però mi sovviene il sostantivo, non più frequente, “lu sbricu” che potrebbe smentire che il termine derivi dalla lingua contemporanea. Talvolta ho anche ascoltato “sbrìcate e manèsciate” quasi a sottolineare di affrettarsi a compiere quel determinato gesto che comporta una manualità. Difficilmente ascolterei da un nostro anziano “manèsciate e bbieni” (affrettati a venire), piuttosto “sbrìcate e bbieni”

  4. Vedo che il problema degli italianismi nelle lingue regionali sta diventando la piaga di tutte queste nostre belle lingue. Anche per noi piemontesi, anche per chi lo parla ancora abbastanza correntemente, sta diventando, soprattutto, nella quotidianità, il problema dei problemi. Per chi, come me me, lo insegna, diventa un sacrosanto dovere riportare alla luce i termini che andavano scomparendo, facendo attenzione a non confondere italianismi con termini che pur sembrando tali, sono invece, termini che nascono entrambi, in entrambe le lingue, da uno stesso ceppo di derivazione.

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