di Rocco Boccadamo
Attiguo alla bellissima e struggente insenatura Acquaviva di Marittima, c’è un fondo agricolo a gradoni, ricco di vegetazione tanto da essere denominato “Bosco”.
Su un suo terrazzamento, al tempo della mia infanzia, svettava rigogliosa una gran pianta di gelso (ancorché rimaneggiata, è tuttora in piedi), dal gustoso frutto nero violaceo che giungeva a maturazione durante il periodo estivo, quando consistenti gruppi della popolazione del paese erano soliti raggiungere quel tratto di mare per i rituali bagni.
Il podere non era né recintato né delimitato da muri; ufficialmente era intestato a una locale famiglia benestante, ma, per antica anche se non ortodossa consuetudine, si considerava alla stregua di proprietà comune.
Pure il mitico albero di gelso era, quindi, ritenuto appartenente a tutti. Chi ne aveva voglia, vi si accostava, si arrampicava sui rami e faceva grosse scorpacciate di frutti, con golosa voracità e senza badare all’impiastricciamento della bocca e del volto.
I ragazzini – e, fra loro, io non potevo certamente mancare – facevano la parte del leone nelle scalate al benemerito gelso, in certo senso gareggiando a chi mangiava più more. A differenza dei grandi, dopo averne divorato a sazietà, essi piluccavano due manciate di frutti, quindi, con pressione fra dita e palmi, li spiaccicavano e, infine, adoperavano il succo zuccheroso che sgorgava grondante per dipingersi il volto e il corpo.
Dopo le abbuffate e i camuffamenti da piccoli negri, con quattro salti, i monelli raggiungevano poi la distesa d’acqua salata sottostante e si detergevano vigorosamente, diffondendo intorno, ovviamente, un’innaturale chiazza di colore, ma arrivando alla fine a più o meno pulirsi il volto.
Purtroppo, in qualche occasione, le scalate all’amata pianta erano seriamente “disturbate” e fremiti di paura assalivano i giovani scalatori.
Nel Salento, tra la fauna presente, è diffuso un rettile innocuo denominato biacco, dal colore uniformemente nero e, perciò, forse più impressionante, che, a quanto sembra, deve essere ghiotto di gelsi.
Sta di fatto che talvolta, mentre noi eravamo sulla pianta, scorgevamo, giù sul terreno, uno o più esemplari di serpenti, lì convenuti per divorare i frutti caduti dai rami.
Per la paura, ci guardavamo bene dallo scendere, fino a quando tali ospiti, sazi e appagati, non riprendevano a strisciare per far ritorno ai loro anfratti.
un alberouguale e molto grande c’era anche ad Andrano alla zona Botte. Anche lì scorpacciata e sangue vivo….finto