Qualche settimana fa il destino ha voluto che mi occupassi di Nicola Cacudi e a chi volesse saperne di più segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/.
Mi preme, però, aggiungere che la scorsa settimana il signor Marcello Olive di San Pietro in Lama mi ha voluto onorare della sua visita portandomi in dono, come mi aveva telefonicamente comunicato che avrebbe fatto dopo la lettura del post al link appena citato, un libro di Nicola Cacudi che per me ha un triplice valore. Anzitutto sentimentale, come facilmente si può immaginare, poi bibliografico trattandosi di un’edizione, la terza, del 1924 (la prima era uscita presso lo stesso editore nel 1922, la seconda a Parigi senza indicazione del nome dell’editore nel 1923) e, classica ciliegina sulla torta, il fatto che esso non compare nel catalogo dell’OPAC, il che lo rende, direi, raro e ancor più prezioso, almeno per chi sa apprezzare questo tipo di unicità …
Lo stesso imprevedibile destino mi ha fatto casualmente scoprire sul web l’immagine di testa che ritrae un lavoro di Maria Antonietta Mea. E, se la comune salentinità mi ha obbligato a divulgare quel che ho scoperto su Nicola Cacudi, una comunanza ancora più stretta (la chiamiamo neretinità?) mi stimola a occuparmi di questo testo.
E lo farò in modo insolito, cioè senza averlo letto, anche perché i panni del critico letterario (almeno quelli consueti) non mi si addicono. A dire il vero qualche cosa ho letto, cioè quelle poche pagine (ed è giusto che sia così finché durano i diritti d’autore) che l’opzione libri di Google consente.
Così, come non si prova quantomeno interesse nel leggere i brani in cui compare, pure accompagnata dal suo bravo articolo, la parola cuenzu?
A pagina 8:
“- Lu cuenzu– c’est le nom salentin d’une ligne de pêche dont elle n’avait jamais réussi à retenir la désignation italienne -s’est encore emmêlé?-”
(- Lu cuenzu- è il nome di una lenza da pesca della quale essa non era mai riuscita a ricordare il nome italiano – si è ancora imbrogliata?-)
“Lu cuenzu consistait en une ligne mère d’environ 150 mètres terminée par una petite voile et un baton au centre duquel se croisaient deux tiges servant de flotteur. De la ligne maîtresse pendaient, à intervalles réguliers sur environ deux mètres, des avançons supportant des hameçons appâtés au moyen d’ablettes que son père achetait fraîches à la marina et que sa mère aurait plus volontiers fait frire à la poêle.”
(Lu cuenzu consisteva in una lenza madre di circa 150 metri terminante con una piccola vela ed un bastone al centro del quale s’incrociavano due gambi che fungevano da galleggianti. Dalla lenza madre pendevano, a intervalli regolari di circa due metri, degli inviti recanti ami che recavano come esca al centro pesciolini bianchi che suo padre comprava alla marina e che sua madre avrebbe più volentieri fritto in padella).
Alle pagine 10-11:
“À chaque fois, après les retours bredouilles ou triomphants, s’ensuivait una opération inevitable: ranger et laver lu cuenzu, et le faire sans plus attendre, avant qu’il fût envahi par les fourmis et que le traits de maman Linda ne s’assombrissent pendant des heures. La meilleure métodhe consistait à disposer, en cercle dans un grand panier, la ligne maitresse et ses avançons, puis à piquer au fur et à mesure les hameçons sur le large bord en paille rembourré de liège. Très souvent il arrivait que les lignes et les hameçons s’entremêlassent, ce qui faisait perdre patience à papa après quelques tentatives. C’est alors qu’il se remettait à sa fille. Agata considérait cette tâche comme un défi. Elle regardait le noeud de fils de nylon et de petits crochets avec attention: sans y toucher, elle s’efforçait de comprendre quel était l’hameçon qui, una fois liberé, lui permettrait de dénouer tous les autres plus facilement. L’un après l’autre, avec des geste précis afin de ne pas se piquer, tirant légèrment un fil pour en découvrir l’origine, elle libérait et piquait chaque petit crochet au bord du panier. Son père suivait l’opération en souriant, satisfait de constater que sa fille se montrait si douée pour démêler les hameçons.”
(Ogni volta, dopo il ritorno borbottante o trionfante, seguiva un’operazione inevitabile: riordinare e lavare il cuenzu1 e farlo senza perdere tempo, prima che fosse invaso dalle formiche e che il volto di mamma Linda non si oscurasse per ore. Il miglior metodo consisteva nel disporre in cerchio in un grande paniere la lenza madre e i suoi inviti, poi appuntare a intervalli regolari gli ami sul largo bordo in paglia rivestito di sughero. Spesso succedeva che le lenze e gli ami si imbrogliassero, cosa che faceva perdere la pazienza a papà dopo qualche tentativo. Era il momento in cui ricorreva all’aiuto di sua figlia. Agata considerava questo lavoro come una sfida. Guardava il nodo di fili di nilon e di piccoli ganci con attenzione: senza mettervi mano si sforzava di capire qual era l’amo che una volta liberato le avrebbe permesso di liberare tutti gli altri più facilmente. L’uno dopo l’altro, con gesti precisi per non pungersi, tirando leggermente un filo per scoprirne l’origine, liberava e fissava ciascun piccolo gancio al bordo del paniere. Suo padre seguiva l’operazione sorridendo, soddisfatto di constatare che sua figlia si mostrava così brava a liberare gli ami)
E l’elemento descrittivo non perde l’occasione di riportare alla memoria (ahimé solo in chi ha i miei anni o più …) locuzioni antiche. È il caso dell’acqua ‘ssale.
A pag. 27:
“Une fois par semaine, dans la maison en ville, on préparait le pain. Lorsque, après trois ou quatre jours, il commençait à durcir, on le traitait de manière à ce que meme les grands-paretnts, qui avaient des dents peu fiables, pussent le consommer. On en trempait de gros morceaux dans du lait ou dans <<l’acqua ‘ssale>> – de l’eau additionnée d’huile, de sel, de tomates, de câpres et d’olives noires – ou on l’humidifiait tout simplement. On disait aux plus jeunes que le pain dur donnait les cheveux bouclés. Si de la moisissure s’y était installée, pas de souci, elle aussi jouait son role: elle faisait venir des dents en or.”
(Una volta alla settimana, nella casa in città, si preparava il pane. Quando, dopo tre o quattro giorni, cominciava ad indurire, lo si trattava in maniera che anche i nonni, che avevano denti poco affidabili, potessero consumarlo. Se ne inzuppavano grossi pezzi nel latte o nell’acqua ‘ssale2, acqua con aggiunta di olio, sale, pomodori, capperi e olive nere, o lo si bagnava semplicemente. Si diceva ai più giovani che il pane duro rendeva i denti saldi. Se vi si era formata della muffa, niente paura, pure essa giocava il suo ruolo: faceva nascere dei denti in oro).
Per restare, ancora, alla gastronomia, non potevano mancare i milaffanti.
A pag. 146:
“Il y avait un menu traditionnel pour Noël et pour Pâques. À ces deux fêtes trônaient deux antiques soupières de porcelain blanche, avec leur covercle pour conserver au chaud la poule au pot. Pas de tortellini, probablement encore inconnus dans le Sud, mais des farfalline aux oeufs à Noël et des milaffanti43 à Pâques.”
(C’era un menu tradizionale per Natale e Pasqua. In occasione di queste due feste troneggiavano antiche zuppiere di porcellana bianca, con il loro coperchio per conservare al caldo la gallina in pentola. Niente tortellini, probabilmente ancora sconosciuti nel Sud, ma farfalline all’uovo a Natale e milaffanti a Pasqua).
E in nota 43 l’annotazione filologica: “Milaffanti: nom d’origine incertaine, peut-être dérivé de <<mille fanti>>, mille fantassins. Préparation de grossières bouchées de farine de semoule mêlée d’oeufs, de fromage, de persil et de sel, à cuire dans la soupe.”
(Milaffanti: nome di origine incerta, forse derivato da mille fanti, mille soldati di fanteria. Preparazione di grossolani bucatini di farina di semola impastati con uova, formaggio, prezzemolo e sale, da cuocere nel brodo)3
Insomma, la salentinità che trova espressione in un testo di una neretina in francese (non so se scritto direttamente in francese o tradotto dall’italiano e da chi), pubblicato in Francia. Auguro, per concludere, ogni successo alla mia concittadina ricordando al femminile il nemo propheta in patria già usato per Nicola Cacudi: nemo fatidica in patria …
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1 Per cuenzu: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/21/11025/
2 Per acqua ‘ssale: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/acqua-e-sale-un-fresco-piatto-salentino/
3 Ad Otranto millaffanti, a Melendugno mmilleffanti, a Mesagne millinfanti. Ad integrazione di quanto si legge nel post dell’amico Marcello Gaballo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/31/millefanti-sul-desco-pasquale-2/) riporto in coda il frontespizio del saggio di Paolo Zacchia e il dettaglio della pagina 99 in cui compare (l’ho sottolineato in rosso) millefanti. Aggiungo che la voce potrebbe essere deformazione di millefranti, presente in rete ma non ne ho trovato attestazione letteraria, per cui temo che sia una delle tante italianizzazioni arbitrarie; se così non fosse il riferimento non sarebbe alla somiglianza a mille soldatini (addirittura fante potrebbe qui essere stato usato nel significato di bambino presente già, per fare solo un esempio, nel Boccaccio, per cui la variante di Mesagne non nascerebbe da dissimilazione del raddoppiamento, espressivo?, ipotizzabile in prima battuta nelle varianti di Nardò, Otranto e Melendugno) ma alla dimensione dei singoli pezzi derivanti dalla frantumazione dell’impasto.